giovedì 26 maggio 2005

«come uccidono le donne»

La Stampa 26 Maggio 2005

DOTTORESSA Giuliana Kanzà, lei è una studiosa psicoanalista. Ha scritto un libro, presentato al Salone del libro di Torino, dal titolo «Come uccidono le donne». È un titolo duro che riporta alla mente recenti casi di cronaca. Ma perché le donne uccidono?
«Innanzitutto bisogna dire che oggi il delitto prevalente compiuto da una donna e che ricade nella formula dell’incapacità di intendere e di volere, è appunto quella del figlicidio. Ritorna alla mente il delitto di Cogne e ora quello di Lecco. Semplificando potremmo dire che la donna è diversa dall’uomo perché è strutturalmente più vicina all’essere, all’amore e che di contro è meno sottoposta ai legami della legge, questa intesa in senso universale, simbolico. Così nel versante dell’amore, è capace di debordare nell’odio quando la sua angoscia non è presa in carico dall’uomo».
Significa che quando l’uomo che ti sta accanto non si prende cura di te e dei tuoi problemi, la donna scarica la frustrazione sull’essere che è causa del suo malessere?
«In un certo senso sì. Prendiamo quella che secondo il cattolicesimo è la famiglia per eccellenza, Maria, Giuseppe e Gesù. Giuseppe si è preso carico dei problemi di Maria, l’ha guidata in Egitto, ha organizzato il viaggio, ha caricato sulle sue spalle i problemi. Il disagio della società moderna è che l’uomo ha abdicato a questo compito e viene meno alla sua funzione di padre, punto di riferimento per se stesso, per la madre e per il bambino».
E per quanto riguarda i recenti casi di cronaca?
«Per quanto riguarda il caso di Lecco, appunto la madre può aver rimosso ciò che ha fatto, non lo tollera e il senso comune tende a rifiutare il delitto per eccellenza e a suffragare l’ipotesi di un estraneo. Salta fuori sempre lo stesso modello anche nel caso di Cogne, similitudini inquietanti: le modalità dell’omicidio, la pista dell’estraneo, la famiglia che si stringe intorno all’accusata. Un modello che ha avuto successo sui media e che ha generato un’imitazione».
Pensa sia un male socialmente curabile?
«No, se non nella struttura del “Disagio della società” come lo definiva Freud. Una società che concede tutto al godimento del sintomo, un godimento illusorio che porta ad esorcizzare le paure e che scatta quando non ci si vuole porre di fronte ai propri limiti, di fronte a un rapporto magari non perfetto ma che rappresenti un incontro dialettico e simbiotico».