Il dolore è una questione di testa
Il Pensiero Scientifico Editore
Il dolore è nella testa, si dice spesso a chi si lamenta. Non è scorretto se si pensa che tutte le sensazioni della periferia del corpo vengono inviate al cervello e lì integrate e trasformate in fame, gioia o dolore appunto. Per questo molte delle ricerche degli ultimi anni si sono concentrate sulla comprensione di come il il nostro cervello codifichi le sensazioni dolorose provenienti dal corpo.
L’ultimo numero del Journal of the American Medical Association propone, nella sezione prospettive, un articolo firmato da Tracy Hampton che ripercorre le tappe più importanti degli ultimi anni nella comprensione dei meccanismi molecolari che caratterizzano il dolore. La corteccia somatosensoriale primaria è una delle regioni dove giungono le stimolazioni dolorose e, come nei processi relativi alla memoria e all’apprendimento, è stato possibile dimostrare che l’esperienza del dolore può creare delle modificazioni nel cervello in termini di attività metabolica e di plasticità. Il cervello, in sostanza, tratta il dolore come tutte le altre informazioni che riceve e che integra.
A giudicare da queste ricerche l'obiettivo ultimo sarebbe, conoscendo le singole tappe, quello di controllare il dolore magari con cure personalizzate. Una cura specifica per ciascun malato: questa è la promessa più frequente e gettonata della medicina di oggi. La promessa ha un suo fondamento: conoscere le differenze tra individui è fondamentale, per esempio, nella scelta delle terapie per aumentarne l’efficacia.
Ma conoscere il genoma di un individuo o capire come sia strutturata la sua rete neuronale può davvero bastare per curare qualcuno? La sofferenza o la salute sono solo un fatto organico che migliora o peggiora eslcusivamente a seconda del funzionamento di un singolo o un gruppo di geni? Difficile rispondere, certo è che a volte si ha l’impressione che la medicina di oggi abbia più attenzione per la malattia che per il malato.
Fonte.Hampton T. Pain and the brain: researchers focus on tackling pain memories. JAMA
ilmessaggero.it 15 giugno 2005
Malcolm e l’occhio di Kubrick
«Quella pupilla spalancata, un inferno. Stanley era disumano»
FABIO FERZETTI
TAORMINA - Sullo schermo ha fatto di tutto, talvolta buttandosi un po’ via come càpita ai migliori, ma per tutti è sempre l’Alex di Arancia meccanica . Eppure quel personaggio rimastogli addosso come una seconda pelle non è solo opera sua e del genio di Stanley Kubrick. Nossignori, Alex il “drugo” strafatto di Beethoven e di ultraviolenza, Alex lo stupratore ricondizionato per diventare inoffensivo, ha almeno un terzo padre: il grande e semidimenticato Lindsay Anderson, il regista di Se... e di O Lucky Man! , due fra i migliori dei molti film girati da Malcolm McDowell.
Lo racconta lo stesso attore, zazzera candida e bimbetto di 14 mesi al seguito, un incredibile clone in miniatura che del padre ha i capelli ritti (ma rossi!) e il ghigno irresistibile. Quando Kubrick lo scelse come protagonista, McDowell veniva infatti dal successo strepitoso di Se... , storia di rivolta in un college datata 1968 e imparata a memoria dai ribelli di mezzo mondo. Così l’attore portò al suo scopritore il copione, strappato a Kubrick con mille giuramenti di segretezza. E fu Anderson, ammirato e quasi intimorito, a suggerirgli le chiavi per dare vita ad Alex.
«Lindsay era un umanista innamorato di tutti i suoi attori», ricorda McDowell, «un gay represso perché figlio di un generale, ma straordinariamente generoso. Kubrick invece era un satiro, non gli interessavi come persona ma per ciò che potevi dargli, non diceva mai cosa voleva, stava a te trovare la soluzione. Fu Anderson a farmi entrare nel ruolo e a suggerirmi l’eterno sorriso della prima scena, quel personaggio reale ma non realistico è anche un po’ suo, quando morì mi scoprii così legato a lui da riaprire i miei vecchi diari per capirlo meglio. Mentre Kubrick umanamente fu una mezza delusione. Ero molto giovane allora, non pensavo che dopo tante incredibili settimane insieme sarebbe sparito. Invece andò proprio così. Però sapeva cosa voleva e non si fermava davanti a niente».
E qui McDowell rievoca la famigerata scena degli occhi spalancati a forza, girata senza trucco e senza inganno, solo una blanda anestesia per reggere il dolore mentre il medico, un medico vero, ripeteva e ripeteva la sua battuta senza azzeccarla mai, facendo urlare di disperazione il povero attore con i divaricatori sotto le palpebre. «Alla fine ero così esausto che chiesi una settimana di stop. Perché una, fece Stanley, prendine due, ma non abbiamo finito. Infatti due mesi dopo si ricordò dell’inquadratura e ricominciammo con gli occhi sbarrati... Un inferno!».
Naturalmente Arancia meccanica non fu l’unico ruolo difficile. «Anche il mostro di Rostov è stato un osso duro: fare un pazzo cannibale stupratore di bambini non è uno scherzo, pure io ho i miei tabù, sul set di Caligola mi rifiutai di girare la violenza su un bambino anche se Tinto Brass mi dava del puritano e il produttore Franco Rossellini mi diceva di aver visto ben altro nei privé di New York. Le sfide mi piacciono, ma il russo cannibale di Evilenko mi gettò nella depressione finché non trovai la sua verità, capii che una volta tanto dovevo costruirlo dall’esterno, non dall’interno, e riuscii ad “amare” anche lui».
Tanto che ora McDowell si prepara a girare un altro film con David Grieco, titolo provvisorio Secret Loves , cast internazionale e storia più che torbida con uno psicanalista forse innamorato della figliastra. Si gira a Casablanca, intanto l’attore cresciuto nella Liverpool dei Beatles («Andavo ad ascoltarli al Cavern quando non c’era ancora Ringo»), città cosmopolita e ricca di uno humour tutto suo, pensa alla sua autobiografia. Titolo: O Lucky Man! , naturalmente, perché questo si ritiene anzitutto McDowell. Un uomo fortunato.
laprovinciadicomo.it 15 giugno 2005
Quattro dottori accusati di errata diagnosi
il Pm chiede la condanna «Sbagliarono: 8 mesi ai medici»
ERBA Rischiano otto mesi di reclusione, quanti ne ha chiesto il Pm Vanessa Ragazzi, più il pagamento delle spese legali, e un risarcimento «congruo», come lo ha definito l'avvocato di parte civile Edoardo Pacia, quattro medici comaschi: Guido Giovanni Benini, neuropsichiatra al Sant'Anna di Como, Marco Brenna, dell'ospedale Fatebenefratelli di Erba; il neurologo Franco Maria Di Palma, del Sant'Anna di Como; lo psichiatra Mariano Sergio Tomaselli, primario alla villa San Benedetto di Albese con Cassano. Finiti sotto processo ieri a Erba con l'accusa di non avere riconosciuto che quello che colpì Maria Teresa Tramacere, 48 anni di Lipomo, nel 1998 non era una forte depressione, che le impediva di parlare causandole uno stato di afasia, bensì un'ischemia cerebrale. Un dramma doppio quello vissuto dalla signora Tramacere, che il 6 luglio 1998, in un incidente stradale in provincia di Parma perse la figlia, e un paio di giorni dopo l'uso della parola, colpita da un ictus che dai medici ora finiti sotto accusa per lesioni personali colpose, sarebbe stato riconosciuto e curato come un disturbo di natura psichica e non organica. «Il sintomo più allarmante, l'afasia, è stato sottovalutato – hanno ricostruito nella loro deposizione il professor Antonio De Santis, professore associato alla cattedra di Neurochirurgia dell'università degli studi di Milano e il dottor Michele Dufour, dell'istituto di medicina legale della clinica Mangiagalli di Milano, consulenti tecnici nominati dal giudice Giuseppe Vanore – la signora aveva riportato un trauma cranico in seguito all'incidente in cui era morta la figlia, di sicuro i suoi sintomi potevano dare luogo a più diagnosi diverse tra di loro; resta da capire come mai i medici abbiamo deciso di scartare a priori l'ipotesi dell'ischemia grave, che tra l'altro anche a livello patologico meritava più attenzione, per la nevrosi. Sarebbero bastati dei semplici esami, una nuova Tac ad esempio, rispetto a quella disposta a Parma subito dopo l'incidente, per avere un quadro clinico chiaro». Queste le ragioni della responsabilità penale per i quattro medici coinvolti i quali, secondo il Pm Ragazzi, sono da ritenere responsabili anche per aver ritardato, con la cura errata e l'utilizzo massiccio di antidepressivi e antipsicotici, il normale decorso della ischemia che aveva colpito la donna. In aula ieri a difendere uno degli imputati, il dottor Benini, anche l'onorevole Gaetano Pecorella, l'avvocato di Silvio Berlusconi, che ha chiesto l'assoluzione del suo assistito facendo valere il fatto che, dal quadro clinico all'epoca presentato, l'unica conclusione che uno psichiatra avrebbe potuto trarne era una grave forma di depressione. Il giudice ha aggiornato l'udienza al 12 luglio.
ilmanifesto.it 14 giugno 2005
Piazza Fontana, il baratto oscuro del silenzio
Torna in libreria, edito da Selene, Il segreto della Repubblica del giornalista Fulvio Bellini, pubblicato nel '78 e subito sparito. Una ricostruzione scomoda, basata sulle fonti dell'intelligence britannica
GIORGIO BOATTI
C'è stata davvero, in quel martedì 23 dicembre 1969, la riunione al Quirinale che ha sancito l'infrangibile patto al silenzio, stretto tra Moro e Saragat, attorno alla strage di Piazza Fontana avvenuta il venerdì di due settimane prima? Un patto, anzi un baratto, dove l'imperseguibilità dei responsabili dell'attentato - sedici morti e la storia di un paese dirottata verso gli anni di piombo - veniva permutata, in nome del ritorno alla normalità democratica, con la rinuncia alla proclamazione dello stato d'emergenza patrocinata dal «partito americano» che s'innervava dal Quirinale, a parte della Dc, sino ad alcuni settori degli apparati militari. Per Fulvio Bellini, giornalista legato sin dai tempi della lotta di Resistenza all'intelligence inglese, il baratto - di fatto un accordo di minacciosa e reciproca tregua fra due schieramenti quanto mai opposti - c'è stato. E Bellini lo afferma non da oggi. Secondo la sua ricostruzione, affidata al libro Il segreto della Repubblica. La verità politica sulla strage di Piazza Fontana, che dopo più di un quarto di secolo ritorna in libreria, edito da Selene (pp. 182, euro 13), il copione della strage, attuata dalla cellula neonazista padovana, doveva essere il prologo di una svolta politica autoritaria. Un diktat in sintonia con la determinazione, espressa dal presidente della Repubblica Saragat all'inizio di quel 1969, durante la visita di stato a Roma di Nixon e Kissinger, di opporre una barriera invalicabile all'offensiva della contestazione operaia e studentesca.
Gli stragisti erano convinti di poter provocare, con il massacro milanese, misure eccezionali per l'ordine pubblico, sino alla sospensione delle garanzie costituzionali, che il presidente del consiglio Rumor, su sollecitazione della presidenza della Repubblica, avrebbe dovuto adottare a partire dalle ore successive alla strage. Bellini spiega nel suo libro - costruito su fonti dell'intelligence inglese, già ampiamente conosciute ma forse pigramente sottovalutate nel parossistico svolgersi dei fatti di quel dicembre 1969 e nelle infuocate polemiche che ebbero luogo negli anni seguenti - come Moro, appoggiato non solo dalle sinistre democristiane ma anche da un Andreotti schierato con decisione al suo fianco, rifiutasse ogni scenario di radicalizzazione. Come quello dell'ipotesi di elezioni anticipate avanzato da Saragat e dalle correnti che, all'interno della maggioranza Dc, si riconoscevano in Rumor.
Favorevole al rilancio del centrosinistra e alla strategia dell'attenzione verso il Pci, Moro era certamente consapevole dell'angoscioso ingranaggio a orologeria introdotto da queste posizioni all'interno del delicatissimo equilibrio politico italiano, e avvertiva il procedere di un meccanismo scandito non solo dalla radicalizzazione dello scontro sociale ma anche, sempre più esplicitamente, dall'inserimento - da parte della catena di comando che si ispirava al «partito della destabilizzazione» - della variabile degli attentati. Bombe che erano passate, nel giro di pochi mesi, da quelle «simboliche» di Padova e Milano a quelle ben più devastanti sui treni, dell'agosto del 1969. E che nel dicembre toccarono il loro tragico approdo con l'ordigno alla Banca Nazionale dell'Agricoltura.
Chiave di volta - troppo ignorata forse in molte ricostruzioni successive - fu il duro dibattito che all'interno del consiglio nazionale della Dc, si tenne nelle settimane precedenti quel 12 dicembre e che aveva contrapposto la maggioranza che faceva capo a Rumor al variegato schieramento che aveva il suo punto di riferimento in Moro. Qualcuno, in Italia e fuori, aveva ritenuto di poter contare sul fatto che Rumor, come presidente del consiglio, davanti al progressivo dilagare della violenza, non avrebbe potuto sottrarsi all'intimazione di sospendere la Costituzione e, dunque, di avviare il Paese verso una sorta di «golpe bianco».
Le ore decisive dovevano essere quelle successive alla strage quando, all'aprirsi della nuova settimana, mentre attraverso un orchestrato cancan mediatico doveva essere individuato nell'anarchico Valpreda il presunto responsabile della strage, altri eventi erano in programma. In particolare, in prossimità dei funerali delle vittime, tenuti nel Duomo di Milano, si sarebbe dovuta scatenare la piazza di destra, affiancata da organizzazioni paramilitari, contro le formazioni giovanili e le organizzazioni politiche e sindacali della sinistra. Non fu così, perché la Milano democratica e antifascista rispose con corale, impressionante compostezza. Secondo Bellini Rumor si sottrasse, non senza difficoltà, alle pressioni di Saragat di promulgare, sin da sabato 13 dicembre, le leggi speciali. Il presidente del consiglio prima addusse la volontà di essere presente ai funerali milanesi, e quindi, vista l'inequivocabile risposta della metropoli lombarda, tornò a Roma sempre meno convinto - ammesso e non concesso lo fosse mai stato - dell'ipotesi di varare lo stato d'emergenza.
Per giorni, tra i palazzi romani, si svolse un durissimo braccio di ferro e, alla fine, sostiene Bellini, si arrivò al compromesso del 23 dicembre, stretto tra Saragat e Moro: il primo avrebbe rinunciato alla svolta autoritaria, compresa l'ipotesi di scioglimento delle Camere e di ritorno al centrismo. Ma, in cambio, le componenti democristiane legate a Moro e a Andreotti, si adattarono a tacitare le voci e le prove sempre più nette (avanzate dall'Arma, dal nucleo di polizia giudiziaria dei carabinieri di Roma e da un memoriale dello stesso Sid) sulla matrice fascista della strage, accettando invece di mollare le briglie all'Ufficio Affari Riservati dell Ministero dell'Interno affinché, in sintonia con i copioni messi in scena tra Milano e Roma, continuasse la rappresentazione della colpevolezza degli anarchici, tra i quali, oltre al gruppo arrestato attorno a Valpreda, si era anche registrata la morte traumatica del ferroviere Pinelli, trattenuto illegalmente presso la questura di Milano. Un patto al silenzio di cui in qualche misura fu reso edotto, secondo Bellini, anche il vertice del Pci. Tutto questo scenario deve essere risultato scomodo a molti. Rendeva difficile, anche per l'opposizione, tracciare una linea netta delle responsabilità maturate all'interno del Palazzo che, in realtà, risultava ben più frammentato e contrapposto di quanto si pensasse.
Bellini aveva già raccontato tutto questo sul finire del 1978, proprio all'indomani dall'assassinio di Moro, in un'edizione di questo libro apparsa presso uno sconosciuto marchio editoriale milanese, Flan, che celava l'identità dell'autore sotto il nom de plume di Walter Rubini. Per la verità le edizioni Flan avevano, in precedenza, pubblicato assai pochi libri. Erano nate, nel 1970, per portare alla luce un volume piuttosto scomodo e ormai del tutto introvabile, anche se era servito da canovaccio a un film di successo, Il caso Mattei di Francesco Rosi: quel primo libro, scritto sempre da Fulvio Bellini, assieme ad Alessandro Previdi, era intitolato appunto L'assassinio di Enrico Mattei. Un'eliminazione, quella del presidente dell'Eni, addebitata esplicitamente dagli autori a una pianificazione che avrebbe saldato spezzoni della «razza padrona» italiana a diramazioni degli apparati spionistico-mafiosi d'oltre Atlantico. Anche questo libro, come quello del 1978, praticamente sparì subito dalle librerie, se mai ci arrivò. E nessuno ne parlò. Due libri, dunque, apparentemente minori e tuttavia in qualche modo significativi, non solo per le tesi che avanzano ma per le modalità editoriali con cui vennero alla luce.
In quest'ultima edizione de Il segreto della Repubblica il prefatore Paolo Cucchiarelli e uno dei figli di Bellini, Gianfranco - fratello di quell'Andrea Bellini di cui Marco Philophat ha narrato le gesta ne La banda Bellini (Shake edizioni) - si affiancano all'autore e lo aiutano a meglio inquadrare il tutto. Emerge così come questo libro, nella sua uscita del 1978, dovesse essere pubblicato non presso un marchio editoriale sconosciuto ma dalla Feltrinelli, che aveva già pagato un anticipo. E questo per espliciti accordi presi con Gian Piero Brega, direttore della casa editrice di via Andegari dopo la scomparsa di Gian Giacomo. Poi, con i fatti di via Fani e l'uccisione di Moro, si ritenne invece che ci fossero ragioni per dare al testo, e alle tesi assai scomode di Bellini, un altro destino. E a Flan, sconosciuto marchio editoriale, si affidò il «segreto della Repubblica».
APCOM 14.6.05
REFERENDUM
RONCONI: ORA BISOGNA ADEGUARE LA LEGGE SULL'ABORTO
Gli italiani non sono più quelli che approvarono la 194
Roma, 14 giu. (Apcom) - "Dopo il fallimento del referendum ora bisogna adeguare la 194", ossia la legge sull'aborto. Ne è convinto il senatore Udc, Maurizio Ronconi, che suggerisce di "esaltare la prevenzione e l'educazione piuttosto che l'interruzione della gravidanza".
Per il senatore centrista "i tempi sono cambiati" e "gli italiani non sono più quelli che approvarono la la 194; sono maturati, hanno dimostrato una nuova capacità di riflessione e una sensibilità diversa rispetto al passato e di questo il Parlamento dovrà tenerne conto".
corriere.it 14 giugno 2005
Verso un cura per alcune malattie degenerative come il Parkinson
Usa: moltiplicate cellule staminali cerebrali
Per la prima volta dei ricercatori dell'Università della Florida sono riuscita a far sviluppare dei neuroni umani da reimpiantare
MIAMI (USA) - Un nuovo passo avanti nella ricerca di una terapia per malattie ora incurabili. Scienziati dell'Università della Florida hanno infatti annunciato di aver trovato un modo per individuare cellule staminali nel cervello e moltiplicarle. La scoperta potrebbe aprire la strada a nuove terapie nella lotta a malattie degenerative, come il Parkinson.
L'ESPERIMENTO - I ricercatori, che hanno condotto esperimenti sui topi, hanno studiato le staminali, cellule-madri che si trovano in tutti i tessuti, ma che sono difficili da identificare. In teoria, una volta isolate e coltivate sotto le giuste condizioni, esse possono dar vita a tipologie del tessuto desiderato. Le cellule staminali adulte possono provenire dal paziente stesso, senza dover ricorrere ai donatori. «Abbiamo usato un microscopio speciale - ha detto Dennis Steindler, che ha lavorato allo studio dell'Università della Florida - che ci permette di vedere le cellule vivere per lunghi periodi di tempo, per cui abbiamo effettivamente constatato che le staminali danno vita a nuovi neuroni. Probabilmente un metodo diverso potrebbe riuscire a individuare la madre di tutte le cellule staminali, noi siamo fiduciosi».
PRODUZIONE CELLULARE - I ricercatori hanno anche spiegato in modo in cui queste cellule vengono moltiplicate. «È come una catena di montaggio per fabbricare e accrescere il numero di cellule cerebrali», ha detto Bjorn Scheffler, un neuroscienziato dell'Università della Florida. «Possiamo prendere queste cellule e congelarle fino a quando ne avremo bisogno. Poi possiamo scongelarle, dare il via a un processo di generazione delle cellule, e produrre una tonnellata di nuovi neuroni».
ilmessaggero.it 14 giugno 2005
Festival di Shanghai
“Ora e per sempre”
Con il grande schermo l’Italia è vicina alla Cina
dal nostro inviato GLORIA SATTA
SHANGHAI - Bisognava venire fino in Cina per rendersi conto che esiste un cinema italiano snobbato in patria ma capace di farsi onore nel mondo. Ci volevano gli applausi di una platea dagli occhi a mandorla, l’assedio dei giornalisti locali e l’interesse dei distributori per capire che, malgrado la crisi, non dobbiamo perdere le speranze. La prova? Il successo che ha accolto all’ottavo festival di Shanghai Ora e per sempre di Vincenzo Verdecchi, unico film italiano in gara mentre altri quattro ( Fame chimica di Vari e Bocola, L’estate di mio fratello di Reggiani, Tredici a tavola di Oldoini e L’iguana di McGilvray) partecipano fuori concorso a questa rassegna che richiama pubblico e addetti ai lavori da tutta l’Asia. All’ombra dei grattacieli che di mese in mese si moltiplicano come funghi, Ora e per sempre ha colpito al cuore Shanghai, la metropoli-laboratorio della Cina che cambia. E’ un film atipico: con garbo e sentimento (e gli ottimi interpreti Gioele Dix, Dino Abbrescia, Giorgio Albertazzi, Luciano Scarpa, Kasia Smutniak) racconta una storia sospesa tra passato e presente che parte da un capitolo indelebile della storia italiana (l’incidente aereo che nel ’49 a Superga sterminò la gloriosa squadra del Torino) per parlare del valore della memoria, dell’identità nazionale, dei rapporti tra generazioni, della passione per il calcio intesa come metafora della vita. E pensare, racconta il produttore Alessandro Verdecchi, fratello del regista, «che in Italia nessuno lo voleva: così tre mesi fa mi sono distribuito il film da solo, sfidando i grandi gruppi e i kolossal Usa. Malgrado le buone critiche, è stato smontato subito. E’ dura la vita dell’indipendente...». Alla fine della proiezione, lo sceneggiatore Carmelo Pennisi (lo stesso del Karol Wojtyla tv) si ritrova tra le mani il biglietto da visita di un paio di produttori cinesi, che sollecitano proposte. Alla conferenza stampa, fioccano le domande: i giornalisti vogliono sapere cos’è stata la guerra, che significa l’amore per una squadra, il rapporto con il passato. Abbrescia rivela: «Non sono mai stato un tifoso, ma sul set ho capito la passione per il calcio». Verdecchi si rivolge ai cinesi: «Voi che avete una grande storia alle spalle, sapete quanto è importante il passato per costruire il futuro».
Adriana Chiesa, neo-amministratore delegato di Filmitalia, guida la delegazione tricolore a Shanghai. E’ soddisfatta: «Il successo qui di Ora e per sempre è la prosecuzione del cammino iniziato a Tokyo, dove il nostro cinema ha avuto un’accoglienza straordinaria». «Bisogna puntare sempre più sui mercati d’Oriente», dice il presidente della società, Giovanni Galoppi. Ieri sera, mentre Verdecchi e gli altri festeggiavano, il film è stato comprato dalla tv cinese.
ilmessaggero.it 14 giugno 2005
Payami: «Il mio film “contro”, per combattere le censure»
di ROBERTA BOTTARI
ROMA - Mentre noi parliamo di censura, il film in questione, Silenzio tra due pensieri di Babak Payami, non è stato vietato ai minori: è stato proprio sequestrato, dal governo iraniano. Il regista è stato arrestato e costretto a fuggire dal paese mediorientale. «Ancora oggi - afferma Babak Payami - nessuno mi ha comunicato ufficialmente le ragioni del sequestro dell’originale e, quando ho chiesto chi mi interrogava se aveva visto il mio film, ha risposto che non ce n’era bisogno...». Silenzio tra due pensieri arriva finalmente in Italia, grazie all’Istituto Luce, che lo distribuisce in una quindicina di copie da venerdì. Presentato 2 anni fa alla Mostra di Venezia, si tratta del terzo film del cineasta, dopo One more day e Il voto è segreto . Il negativo è ancora in mano alle autorità locali, quello che vediamo dunque è ciò che il regista era riuscito a mettere in salvo prima del sequestro. Ogni volta che lo vede, Payami, viene colto da violenti mal di stomaco: «Non è il mio film, è quel che resta. Ma serve a far conoscere una realtà». Il film racconta la storia di una donna che viene risparmiata da un’esecuzione, perché vergine. Secondo una credenza, le vergini, se muoiono, vanno in Paradiso. E i killer non la vogliono solo morta: la vogliono anche dannata. Si pone così un bel problema. Per risolverlo, il leader spirituale costringe il boia a sposare la ragazza affinché, consumato il matrimonio, si possa finalmente procedere con l’esecuzione. Ma l’uomo, difronte alla vittima-moglie, precipita nel dubbio. «Il silenzio del titolo - spiega il regista - è il momento in cui un individuo, o un’intera società, si risveglia da una convinzione cieca. Questo mio film è un viaggio nell’indecisione. Non parla di religione, ma di come questa può essere utilizzata per ingannare la gente: non mi stupisce che in Iran non lo abbiano gradito. Ma queste forme di repressioni sono inutili. L’ho detto anche a chi mi ha interrogato: prendetevi questo film e io ne girerò un altro, arrestatemi e un altro regista lo farà al posto mio. Comunque vada, sarò io a vincere questa battaglia».
helpconsumatori.it 13 giugno 2005
Somministrazione psicofarmaci a minori:
a Roma medici e politici contro reintroduzione Ritalin
Si è tenuto oggi dalle ore 10 il Convegno finale "Diversamente vivaci. Il disagio dei bambini e la sindrome da iperattività tra invenzione nosografica e realtà biologica" promosso dall'On. Tiziana Biolghini, Consigliere Delegato alle Politiche dell'Handicap della Provincia di Roma.
Il convegno ha affrontato un tema attuale ed ha rappresentato un momento di dibattito e sensibilizzazione sul diritto alla salute dei bambini per favorire una corretta informazione sull'abuso nella somministrazione di psicofarmaci a bambini ed adolescenti.
Un decreto ministeriale del 22 luglio 2003 ha inspiegabilmente trasformato il Ritalin da sostanza stupefacente a psicofarmaco prescrivibile a bambini ed adolescenti affetti dalla cosiddetta sindrome Adhd (disturbo da deficit da attenzione e iperattività) sulla cui reale esistenza la comunità scientifica mondiale resta divisa. Un'anfetamina con oltre 2900 effetti collaterali che crea dipendenza nei soli Stati Uniti a più di 8 milioni di bambini, destinata a curare una malattia sulla cui reale esistenza la comunità scientifica resta divisa. Nel corso del convegno il Professor Luigi Cancrini (Direttore dell'Istituto terapie familiari) ha sottolineato che "il disturbo del bambino, affetto dalla cosiddetta sindrome da iperattività, va sempre esplorato in rapporto al contesto in cui si determina. Il bambino segnala con i suoi sintomi un disagio interpersonale che va conosciuto ed al quale va posto rimedio". Il prof. Cancrini ha inoltre affermato che "i bambini cosiddetti iperattivi hanno bisogno di orecchie che ascoltano e non di terapie farmacologiche che inibiscono la capacità di esprimere il disagio e che vengono vissute come un invio a nascondere il proprio disagio ed a tacere. Il bambino non ha abbastanza forza per far sentire la propria voce". "l'assistenza ai minori - ha concluso Cancrini - richiede forti investimenti socio-sanitari ed una cooperazione tra gli attori coinvolti".
Il Farmacologo Giuseppe Dimito ha dichiarato che tra gli effetti del Metilfenidato (molecola del Ritalin) una vera e propria sostanza stupefacente ci sono sintomi gravissimi tra cui: "aumento della frequenza cardiaca, rilasciamento della mucosa bronchiale ed intestinale, dipendenza dal farmaco con necessità di dosi sempre più elevate ed aumento proporzionale di gravi danni a reni, cuore e cervello. La sospensione dl Ritalin ha effetti ancora più gravi, tra questi: depressione psichica, ottundimento, abulia e profonda depressione.
L'Onorevole Biolghini ha concluso i lavori del convegno affermando la necessità di " creare un coordinamento di associazioni, enti, operatori scolastici e famiglie che siano in grado di vigilare sulla reintroduzione di un farmaco tanto pericoloso. Sedare i bambini con uno psicofarmaco-droga come il Ritalin significa rinunciare ad ascoltare il legittimo disagio dei bambini e zittirlo con una pillola." "Noi - ha concluso Tiziana Biolghini- non rinunceremo mai a vedere tutti i bambini, nessuno escluso, come una vita in crescita piena di possibilità che non devono e non possono essere frustrate. Ai nostri bambini dobbiamo dare ali per volare e non farmaci per dormire."