martedì 14 giugno 2005

storia della psicologia
Intelligenza e Q.I.

Il Giornale di Brescia 14.6.05
Cent’anni fa fu ideata la scala per valutare le facoltà intellettive
L’INTELLIGENZA A GRADINI
Michela De Santis

Che cos’è l’intelligenza, e che rapporti ha col sentimento? Essa s’identifica con la capacità tecnica o con la creatività artistica, con la facoltà di ricordare o con quella di innovare, con la razionalità o con l’immaginazione? Sin dai tempi di Platone pensatori e scienziati si sono posti simili domande, oggi tornate d’attualità grazie anche alla comparsa di discipline come l’intelligenza artificiale, che si propone di «insegnare» alle macchine a comportarsi in maniera, appunto, intelligente, o la filosofia della mente, che studia la natura delle funzioni mentali nel loro rapporto con corpo, anima e coscienza. Il primo che diede una risposta formale a questi interrogativi fu però Alfred Binet, lo psicopedagogo francese che nel 1905 inventò, insieme a Théodore Simon, la scala detta «Binet-Simon», o scala d’intelligenza. A questo traguardo Binet arrivò seguendo un percorso insolito, prendendo prima una laurea in diritto e poi studiando scienze alla Sorbona di Parigi; e solo nel 1883 decise di dedicarsi alla psicologia, quando cominciò a lavorare alla Salpêtrière di Parigi al fianco di Jean-Martin Charcot, che in quegli anni sperimentava le sue teorie sull’ipnosi. Binet fu molto colpito da quelle pratiche da lui definite di «psicologia morbida», ma ben presto fu chiaro che esse non avrebbero mai ottenuto l’avallo della comunità scientifica, e questo lo spinse a dirottare in altre direzioni i suoi studi, e in particolare verso la psicologia dello sviluppo che iniziò ad approfondire soprattutto dopo la nascita delle sue due figlie, Madeleine e Alice, nate rispettivamente nel 1885 e nel 1887. Le due povere bambine non potevano immaginare che le continue prove di memoria, di attenzione e di immaginazione cui il padre le sottopose per anni sarebbero servite per dare alla luce una teoria psicologica pregna di conseguenze. Le differenze che Binet notò tra le due figlie - l’una dotata di spiccate capacità logiche ma di scarsi immaginazione e interesse per il mondo esterno, l’altra invece di una fervida immaginazione ma poco capace di articolare ragionamenti rigorosi e tendente a chiudersi in un proprio mondo interiore - lo spinsero ad ampliare le sue ricerche a un campione più largo, per trovare una ragione delle diverse qualità intellettuali che distinguono una persona dall’altra. A questo fine nel 1889 aprì un laboratorio di psicologia sperimentale in una scuola parigina, dove ebbe modo di elaborare una teoria dei «tipi» psicologici fondata sulla dicotomia fondamentale tra il tipo «soggettivo» e quello «oggettivo», che più tardi avrebbe influenzato anche Carl Gustav Jung. Fu così che Binet, che nel frattempo aveva dato alle stampe opere come Le alterazioni della personalità e Introduzione alla psicologia sperimentale e fondato la prima rivista francese di psicologia, L’Année psychologique, si fece un nome nell’ambiente accademico ed entrò nella commissione che nel 1904 fu incaricata dal governo di mettere a punto un metodo per distinguere i ragazzi meno dotati da quelli che rientravano nella media, al fine di istituire delle scuole speciali per i più limitati. A quell’epoca Binet aveva tra i suoi allievi nel laboratorio di pedagogia un giovane dottorando, Théodore Simon, e fu con lui che, nel 1905, mise a punto la scala oggi nota come la «Binet-Simon». Essa era composta da trenta compiti di crescente difficoltà, corrispondenti alle capacità tipiche di ogni età. I più facili consistevano nel seguire un segnale luminoso o nello stringere la mano dell’esaminatore; quindi si richiedeva ai ragazzi di nominare parti del corpo, ripetere frasi o serie di tre cifre, comparare coppie di oggetti, riprodurre disegni a memoria, costruire proposizioni a partire da determinate parole. Sulla base di questi test Binet sviluppò il concetto di «età mentale», per cui un bambino era dotato di un’intelligenza corrispondente ai tre anni se riusciva a risolvere la metà dei test sottoposti ai bambini di quell’età, di quattro anni se superava almeno la metà delle prove pensate per la sua età, e così via. L’entità di un eventuale ritardo mentale era misurata utilizzando la differenza tra l’età mentale del bambino e quella cronologica. Questo metodo, però, era poco preciso, perché non dava conto dell’effettiva entità del ritardo, che poteva essere più o meno grave a seconda dell’età del ragazzo: un ritardo di due anni in un bambino di cinque, ad esempio, indica un limite intellettivo più serio dello stesso ritardo osservato in un quattordicenne. Dopo la morte di Binet, avvenuta a Parigi nel 1911, quel problema fu superato usando, invece della differenza, il rapporto tra l’età mentale e l’età cronologica. È questo rapporto che, moltiplicato per cento, viene comunemente chiamato QI, quoziente d’intelligenza. Oggi tale quoziente, insieme alla scala «Binet-Simon» e alle sue successive elaborazioni, è usato dagli psicologi di tutto il mondo per valutare le facoltà dei loro pazienti, dai datori di lavoro per la selezione del personale, dalle forze armate per stabilire se gli aspiranti allievi siano adatti alla vita militare. In un’epoca in cui i filosofi parlano di «intelligenze multiple» o «intelligenze collettive» non mancano i detrattori di una teoria che pretende di ridurre la più complessa delle facoltà umane a un mero valore numerico. E tuttavia questo principio è alla base di alcune frontiere della scienza contemporanea, dalla già citata Intelligenza Artificiale alle ricerche sulle reti neurali. Binet stesso era consapevole dei limiti della sua teoria. Sapeva bene che esistevano diversi tipi d’intelligenza - che egli definì genericamente come la facoltà di giudizio, detta anche «buon senso, senso pratico, capacità d’iniziativa o di adattarsi alle circostanze», - e che dopo aver individuato una scala capace di compararli dal punto di vista quantitativo, sarebbe stato necessario anche elaborare un criterio di classificazione di stampo qualitativo. Sapeva anche che l’efficacia del suo strumento variava a seconda delle culture, e che esso poteva prestarsi ad avallare teorie che con la scienza non avevano nulla a che fare. L’americano Henry Goddard, ad esempio, si servì della scala di Binet per dimostrare come la maggior parte degli ebrei, degli ungheresi e degli italiani fossero «deboli di mente», offrendo un argomento alle campagne dei conservatori per la limitazione dell’immigrazione negli Stati Uniti. Per non parlare del modo in cui la scala d’intelligenza, insieme a pseudoscienze come la frenologia e la fisiognomica, fu usata dai nazisti per fondare lo sterminio degli ebrei e degli zingari. Conseguenze che Binet non ebbe modo di vedere, ma che doveva aver previsto, dal momento che aveva affermato: «La scala metrica non è strumento che può essere messo nelle mani di un imbecille».