martedì 14 ottobre 2003

Ernesto De Martino

Il Mattino di Napoli 14.10.03
CICLO DI INCONTRI A MATERA E POTENZA
De Martino,
le apocalissi a Mezzogiorno
di Corrado Ocone


A cinquant’anni esatti dalla missione di Ernesto De Martino (1908-1965) nelle terre di Lucania, l’Università della Basilicata ha avuto la splendida idea di ricordare il grande antropologo con una serie di conferenze che si si svolgeranno fino al 7 novembre fra Matera e Potenza (con Massimo Cacciari, Ernesto Galli Della Loggia, Antonino Buttitta e Giovanni Jervis). Il titolo del ciclo, «Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche», riproduce fedelmente quello di un saggio che De Martino pubblicò nel 1964 su «Nuovi argomenti». È certamente un titolo pregnante, che testimonia una precisa scelta prospettica da parte degli organizzatori. Tanto più necessaria nel caso di una personalità poliedrica e non facilmente riducibile quale è stata quella dello studioso napoletano.
Al tema dell’apocalissi, cioè dell’attesa di un cambiamento radicale del mondo, De Martino lavorò nella fase più matura della sua vita di pensatore, quella che comincia nel 1959, l’anno in cui diventò professore di ruolo di Storia delle religioni nell’Università di Cagliari. È una tematica particolarmente attuale anche perché mette in gioco il rapporto fra la civiltà occidentale e le culture altre. È essa che permette a De Martino di elaborare la prospettiva dell’«etnocentrismo critico», che, con i dovuti accorgimenti, è sicuramente valida ancora oggi. Essa consiste in un modo di guardare la realtà che evita sia l’etnocentrismo classico di chi ritiene che i valori della nostra cultura siano da considerarsi «superiori» in assoluto e vadano senz’altro imposti alle altre civiltà, sia il relativismo di chi ritiene che ogni civiltà abbia valore in sé e vada rispettata e non giudicata con parametri di valore suoi non propri. Per de Martino è necessario certamente, da una parte, che la civiltà occidentale si storicizzi e faccia costantemente autocritica, ma anche, dall’altra, che essa non rinunci a denunciare le culture che contraddicano palesemente quei valori umanistici e di tolleranza che sono iscritti nel suo Dna.
De Martino, come ha messo in evidenza magistralmente Giuseppe Galasso, aveva subito profondamente, da giovane, attraverso Adolfo Omodeo, l’influsso crociano. Egli tuttavia, troppo curioso del mondo quale era, non si pose come epigono o ripetitore. Con la sua trasversalità di interessi, anche metodologici e disciplinari, De Martino andò anche oltre l’immagine crociana del «discepolo non inerte». Prese semplicemente altre strade. E discusse da pari a pari col Maestro, che, ormai vecchissimo, cominciò a dubitare, grazie anche all’influsso del giovane allievo, della saldezza e universalità delle sue categorie. Il ragionamento di De Martino era suppergiù questo: le categorie individuate da Croce, lungi dall’essere delle strutture universalmente umane, sono storicamente condizionate e determinate. E, prima dell’ambito razionale, c’è il campo prelogico della vita vissuta. In questa dimensione, l’umanità ha vissuto per lungo tempo, agli inizi della sua avventura, e vive oggi ancora in molte civiltà non occidentali. Non solo: la stessa nostra civiltà conserva tracce di «primitivismo», che vanno studiate e capite se si vuole afferrare veramente l’umano.
Il Sud, da questo punto di vista, offriva a De Martino un privilegiato terreno di indagine. In esso persistono vecchie tradizioni magico-religiose, di origine probabilmente pagana, che il cattolicesimo non ha saputo superare e ha dovuto, in qualche modo, integrare. Utilizzando strumenti di documentazione e analisi di tipo moderno, De Martino compì, negli anni Cinquanta, con una équipe di studiosi di varie discipline, tre missioni scientifiche nelle terre del Sud: una nel Salento, per cercare di capire il tarantismo, due in Lucania per studiare il complesso mitico-rituale delle fascinazione e le persistenze del pianto funebre. Il documentario «Nei giorni e nella storia», realizzato dalla Rai e presentato ieri pomeriggio all’Università di Matera, dà testimonianza proprio degli «itinerari lucani» dell’antropologo.