venerdì 12 dicembre 2003

nuove frontiere del pensiero:
la junghiana Valcarenghi vs Simone de Beauvoir

Corriere della Sera 12.12.03
«Donne non si nasce, si diventa» affermava ...
di Simona Zoli


«Donne non si nasce, si diventa» affermava Simone de Beauvoir. Intendendo con ciò che nasciamo individui paritari di diverso genere e ci penseranno poi l’educazione familiare, la scuola, la cultura e i modelli vigenti a fare degli individui femmina "il secondo sesso", come recita il titolo di un suo celebre libro, o il sesso debole, come afferma da sempre la vox populi. Ora una psicoanalista milanese, di indirizzo junghiano, va ben oltre: no, oggi donne si nasce, le donne vengono al mondo psichicamente già programmate per essere femmina secondo i canoni della nostra società. Perché donne nel senso inteso dalla de Beauvoir lo «sono diventate» una volta per tutte molto tempo fa, nella notte dei millenni, e da allora «si verifica una sorta di trasmissione genetica attraverso l’inconscio collettivo». Marina Valcarenghi, autrice di diversi volumi legati alla sua professione, ha esposto questa teoria in un libro, "L’aggressività femminile" (Bruno Mondadori, pp. 174, 16), ma parlando ora nello studio mansardato dove riceve i pazienti ci tiene a precisare: «No, non dica teoria. La mia è solo un’ipotesi». Resta che l’ipotesi è ardita: immagina addirittura una mutazione d’istinto nel genere femminile verificatasi a un certo punto del processo evolutivo della nostra specie e tramandata, come «comportamento appreso» all’interno del patrimonio ereditario, di madre in figlia.
L’istinto cambiato, nel senso di attenuato, spento, sarebbe quello che gli esperti della psiche chiamano aggressività, ma che nel dire comune meglio si esprime col termine autoaffermazione. «Può essere che, nella notte dei tempi, si siano verificate circostanze tali da indurre la specie umana, per autoproteggersi, a richiedere alle femmine un passo indietro, una certa sottomissione al modo maschile di agire. Un modo che è più diretto, più aggressivo, più rapido, dunque più efficace se incombe un pericolo». L’ipotesi è che le donne abbiano allora acconsentito a questa autorepressione pur di salvarsi insieme ai compagni e alla progenie.
La Valcarenghi cita Konrad Lorenz, il grande studioso del comportamento animale, per sostenere che un istinto può venire mutato e cita Jung e la sua idea di un inconscio collettivo, esistente oltre e accanto all’inconscio individuale, per dare corpo e luogo all’idea di una sedimentazione «genetica» di esperienze e traumi. Dalle teorie junghiane viene anche la tentazione di cercare indizi tra i miti. Ma il recupero è di brandelli di mito, di labili tracce a testimoniare che un tempo le donne furono autoaffermative e sicure di sé quanto gli uomini e, nel contempo, diverse nel modo di sentire, vedere e interagire con la realtà. «Resta poco perché, come spiega Lorenz, in presenza di un grave pericolo per la specie l’istinto di sopravvivenza induce a demonizzare quanto va distrutto. E gli uomini lo fecero nei confronti del potere femminile». Occultati perciò il mito sumero della regina Inanna, combattiva e materna insieme, il mito greco di Meti, dea della sapienza temuta da Zeus che se la mangia per poi ripartorirla, nove mesi dopo, come Atena, dea ancora della mente ma sottomessa al padre, infine il mito di Lilith, la prima donna, sostituita dai rabbini con Eva, talmente non autonoma da essere solo una costola d’uomo.
«Oggi forse il capitolo sui miti non lo metterei neppure - riflette la psicoanalista -. Il vero spunto a sostegno della mia ipotesi viene da ben altro. In tutte le donne, non solo nelle mie pazienti, ho sempre colto sintomi di autoesclusione, di disagio e di sofferenza tipici di un’aggressività repressa e perciò rivolta contro se stesse. Ma proprio perché riscontrabili in tutto il genere femminile questi sintomi sono stati, fin qui, ritenuti "normali", naturali, nella donna. Ecco perché non li si è mai davvero indagati».
E ora, invece? Ora, nel Novecento per la prima volta le donne hanno cominciato a parlare e rivendicare una propria aggressività (da non confondere con «aggressione», cioè violenza contro altri) e guarda caso solo nel secolo scorso ha cominciato a incrinarsi l’impianto patriarcale della società. E’ lecito ipotizzare che i due fenomeni siano legati, scrive la Valcarenghi. Oggi per la specie non è più necessario il «sacrificio» dell’autonomia e del pensiero femminili. Al contrario, si può credere che sia di vitale importanza recuperarli. Tra gli effetti nefasti di quell’antica compressione la studiosa individua, infatti, non solo danni nelle singole donne (il frequente ricorrere di disturbi maniacali, come narcisismo e iperattivismo, oppure depressivi, come masochismo e vittimismo), ma molti e gravi danni collettivi. Nella nostra società vige un «pensiero unico», quello maschile, e le donne che si fanno avanti nei posti e nelle carriere in genere adottano quello stesso modo di pensare e d’agire. Non mutano niente: vengono cooptate. Ed ecco che il mondo guidato dalla sola modalità maschile d’agire - diretto e aggressivo in senso stretto - sta precipitando: non solo guerre, ma disastri ecologici che fanno intravedere il collasso finale e, «soprattutto, per la prima volta nella storia, da sessant’anni l’uomo è in grado di distruggere il pianeta. Premendo un pulsante».
Dunque, proprio il sistema monolitico di procedere che tanto tempo fa salvò la nostra specie ora rischierebbe di portarla alla distruzione. Si tratta di riproporre la vecchia idea che «se comandassero le donne, non ci sarebbero guerre»? «No, se comandassero le donne sarebbe il caos - replica Marina Valcarenghi -. Il pensiero femminile è lentezza, è misura, è un procedere per assimilazioni o per fantasia e, da solo, provocherebbe il disordine totale. Il mondo ha bisogno di camminare sulle due gambe: il principio maschile e il principio femminile. L’uno è il correttivo dell’altro. Vede, il filo d’Arianna serve per arrivare in fondo al labirinto, ma se anziché un filo è una matassa non se ne esce più. E’ necessaria anche la spada di Teseo che divide, assegna, dà ordine».