giovedì 15 gennaio 2004

donne e cani

La Repubblica 15.1.03
UN SAGGIO DI CRISTINA FRANCO SU UNA SINGOLARE ANALOGIA
PER I GRECI LA DONNA ERA SIMILE AL CANE

Questa malattia faceva tornare lupo l'animale domestico che da fedele diventava infido
Secondo gli antichi l'amico dell'uomo diventa cattivo quando è preda della lyssa
di MAURIZIO BETTINI


È storia di appena ieri. Pitbull inferociti, sanguinari Rotweiler, Doberman che si aggirano minacciosi per i giardini pubblici. Ogni giorno un nuovo assalto, mentre un ministro italiano della salute si preoccupa, con una specifica ordinanza, di distinguere addirittura i cani buoni da quelli cattivi. Che cosa è successo? Per gli antichi Greci non ci sarebbero stati dubbi: gli amici dell'uomo sono caduti improvvisamente preda della lyssa.
La lyssa era una singolare malattia. Etimologicamente questa parola viene da lykos, il «lupo», dunque si trattava di un vero e proprio «allupamento» del cane, di un suo ritorno, più o meno momentaneo, all'originaria natura lupina. Colto dalla lyssa, il cane non distingue più il padrone dallo straniero, l'ospite dall'intruso: attacca, morde e talora uccide. L'amico fedele si trasforma improvvisamente in un pericoloso nemico. E questo poneva ai Greci dei problemi culturali, naturalmente: proprio come oggi li pone a noi il Pitbull che scavalca la rete e azzanna la padroncina. Ma insomma, ci chiediamo, chi è il cane? Qual è il suo vero ruolo nella vita dell'uomo, di cui condivide - da sempre - il tetto e la mensa?
A questa domanda risponde un libro affascinante, che una giovane studiosa, Cristiana Franco, ha pubblicato presso la casa editrice Il Mulino: Senza ritegno. Il cane e la donna nell'immaginario della Grecia antica, (pagg. 372, euro 24). Questo libro inaugura la Collana «Antropologia del mondo antico», che l'omonimo Centro dell'Università di Siena cura presso la casa editrice bolognese; e sarà seguito da una serie di altri lavori di giovani studiosi i quali, per nostra fortuna, dedicano ancora le loro energie intellettuali alla cultura antica. E dunque, chi è il cane per i Greci?
Per rispondere a questo interrogativo, il libro della Franco prende le mosse da un insulto: quel «cane!» che l'uomo adirato scaglia all'indirizzo dell'amico che lo ha tradito, o del familiare di cui ha appena scoperto gli intrighi meschini. È abbastanza strano, in effetti, che venga usato come insulto proprio il nome dell'animale più caro all'uomo. Il fatto è, spiega l'autrice, che il cane non è un animale, al contrario, è un membro della società degli uomini - salvo che, come tale, esso (o egli?) ne occupa il posto più infimo. Il cane incarna un vero e proprio paradosso: se come animale è il più prossimo all'uomo, come "uomo", invece, costituisce una perenne delusione. È nutrito, vezzeggiato, ma d'un tratto può essere colto dalla lyssa, oppure, più semplicemente, può vendersi ai ladri per un boccone di carne cruda. Oltre che inaffidabile, però, il cane è soprattutto uno svergognato. Il suo vizio più grave, infatti, è quello che i Greci definivano anaideia, cioè mancanza di aidos, di «pudore». Per questo il cane si abbandona in pubblico alle voglie di amore, né si preoccupa di nascondere i propri impulsi e i propri desideri, che anzi manifesta con guaiti impudenti e un modo adulatorio di scodinzolare - i Greci, che avevano una parola per tutto, lo definivano sainein - da cui non c'è da aspettarsi niente di buono.
Il fatto è che «Fido», in realtà, non ci guarda con gli stessi occhi con cui lo guardiamo noi, né ha il nostro stesso cuore. Come ha scritto efficacemente Giovanni Jervis, «il vero limite dei rapporti fra noi e il nostro cane non sta nel trovare un animale che possiamo trattare come una persona: ma nell'impossibilità di avere un cane che ci tratti veramente come una persona». In quanto «persona» il cane ci delude, ci tradisce e talora ci aggredisce. Ecco perché non ci fidiamo di «Fido» e possiamo usare il suo nome - «cane» - per insultare qualcuno.
A questo punto il lettore si starà chiedendo che cosa c'entri la donna, in questa faccenda. Perché abbastanza inaspettatamente il libro della Franco mette sotto l'etichetta della «impudenza» - la anaideia - non solo la razza canina ma anche il sesso femminile: per i Greci cane e donna sono entrambi dei «senza ritegno». Anche questo secondo filone di ricerca, che accompagna il primo come un pedale inquietante, prende in realtà le mosse da una domanda. Perché al momento di creare Pandora, la prima donna, mentre Atena le donava l'arte del telaio e Afrodite la grazia, Ermes pensò invece di donarle una «indole cagnesca»? Kyneos noos, nelle parole di Esiodo, un'indole non «di cagna», come l'autrice efficacemente dimostra, ma proprio «di cane».
Se i Greci hanno legato così strettamente il cane e la donna, lo hanno fatto in primo luogo per un motivo di carattere culturale. In altre parole, a loro il cane è servito soprattutto per «pensare» la donna. Pensarla come una «razza» a sé stante, diversa da «noi» - cioè cittadini maschi adulti - eppure destinata ineluttabilmente a dividere la nostra casa e la nostra vita. Dividerla naturalmente tenendo la posizione più bassa all'interno della società degli uomini - cioè i maschi - proprio come il cane tiene l'infimo rango a mensa o nella casa in generale. Per questo donna e cane si toccano, nell'immaginario dei Greci. Ma non solo per questo. Proprio come del migliore amico dell'uomo, infatti, anche della donna - madre, moglie o figlia che sia - i Greci non si sono mai fidati. La donna è svergognata, seduttiva - come il cane che scodinzola - e sempre pronta a tradire. La prova di tutto ciò? Basta ripensare alla mitologia e alla letteratura dei Greci, dove le donne si chiamano Elena (colei che in Omero si autodefinisce «faccia di cane»), Clitennestra, Fedra, Mirra, Medea: creature svergognate, traditrici e assassine. Ma che cosa ci si poteva aspettare da una razza nata da Pandora? «Indole cagnesca», kyneos noos.