La Repubblica 15.1.04
PENSIERI CLANDESTINI TRA TOLKIEN E GUARESCHI
Le radici della cultura di destra/ 3
Nel dopoguerra c'è come una invisibilità delle idee più elaborate che pure non mancano Il tradizionalismo conservatore si muove tra i cattolici ma non ha grande rilievo Il populismo è un fenomeno trasversale che ha attecchito soprattutto al Sud Il caso del filosofo Del Noce che cerca un'alternativa ai laici ed ai marxisti
di ANTONIO GNOLI
FIRENZE. Una combinazione di interno esterno. Ecco come ci appare la conversazione con Marco Tarchi. Intrinseco, negli anni giovanili, alla destra missina, culturalmente militante, Tarchi si è staccato da quel mondo non rinunciando tuttavia a guardarlo con gli occhi dello studioso. Del politologo. Tra le due guerre la cultura di destra ha svolto un ruolo. Nel secondo dopoguerra quel ruolo si è fortemente ridimensionato fino a diventare marginale. Osserva Tarchi: «La mia impressione è che in questo dopoguerra la visibilità e la creatività della cultura di destra sono state fortemente condizionate dal peso delle compromissioni con il fascismo di tutta una serie di settori, di ambienti sociali e anche intellettuali».
La cultura di destra del secondo dopoguerra diventa in Italia un fenomeno marginale.
«Direi non solo in Italia. Paradossalmente, si è creato una sorta di doppio piano: quello accademico, ma anche produzione di idee attraverso i giornali, le case editrici, ed è un piano mimetico. E poi c´è il piano della cultura popolare. Qui il fenomeno è stato diverso: l´eredità del ventennio fascista ha diffuso stereotipi, miti, modelli che hanno reso ancor più marginale e patetica quella cultura».
Questi due piani cui lei accenna - uno colto ma criptico, l´altro popolare ma rozzo - in realtà sono messi in crisi da una cultura di sinistra che è molto vitale nel dopoguerra.
«È quella che ha vinto. Anche se tra tutte le componenti del fronte antifascista l´opera sistematica di penetrazione nei gangli della società civile è svolta soprattutto dal marxismo. Il che ha impedito che quanto di vitale la cultura di destra poteva avere venisse alla luce».
Lei dice vitale, ma non trova che quella cultura avesse una debolezza intrinseca, una incapacità a camminare con le proprie gambe?
«Può darsi che quella cultura non avesse la forza per riemergere. Però se osserviamo la vicenda senza strumentalizzazioni ci accorgeremmo che non tutto era da buttare. E che alcuni eventi entrati in circolazione prima del fascismo erano sopravvissuti».
A quali eventi pensa?
«La cultura di destra nell´Italia post Risorgimentale è ampia e variegata. Ma quello che è singolare e aggiungo penalizzante è che ogni volta che si è parlato della cultura di destra lo si è fatto sempre al singolare. Probabilmente in ciò agevolato dal fascismo che come contenitore autoritario legittima, accorpandole, alcune culture e altre, come il tradizionalismo antimoderno o il modernismo futurista, le rifiuta».
Lei sostiene che la cultura di destra non può esaurirsi nel fenomeno del fascismo.
«Sì, ma aggiungo che il problema è capire che fine fanno quei filoni che il contenitore autoritario lascia fuori. Il tradizionalismo conservatore, per esempio, cercherà di mimetizzarsi o di entrare in simbiosi con la cultura cattolica, dove pure non avrà uno spazio rilevante».
Forse l´esempio più noto è quello di Augusto Del Noce.
«Lui è un caso a sé, in parte vicino al dibattito che nasce nell´ambito della metafisica cattolica e che si pone il problema su quali basi sia possibile un’alternativa alla società secolarizzata e al marxismo. Poi c´è il filone laico conservatore della cultura borghese, che ha referenti molto popolari in Longanesi prima e in Montanelli dopo. È un filone che si alimenta di una vena di scetticismo nei confronti dell´impegno politico e culturale».
È un filone che si serve soprattutto dei giornali.
«È un tramite essenziale che garantisce una grande popolarità ai suoi protagonisti».
A un livello un po´ più alto c´è la figura di Prezzolini.
«Prezzolini è una specie di sfondo dal quale essi prendono le mosse».
E poi c´è il caso Guareschi che sul piano della narrativa rende popolare e in qualche modo indolore l´opposizione destra e sinistra. Non crede che sia l´anticomunismo il collante che unisce i vari protagonisti?
«L´anticomunismo è solo un aspetto. C´è un collante più importante che tiene unite queste esperienze ed è il senso di inattualità che la memoria del buon tempo antico alimenta. Il tentativo, più o meno palese, è ricostruire modelli culturali che siano non riconducibili al fascismo, che evitino inquinamenti con l´estremismo e che si attengano alla ridefinizione di un ordine patriottico nazionale ma non esasperatamente nazionalista».
Ho l´impressione che da parte di questi conservatori ci sia la netta ripulsa del totalitarismo, ma anche l´accettazione o la ricerca di una convivenza con le forme autoritarie del potere.
«Diciamo che è possibile registrare un certo accomodamento».
Forse qualcosa di più. Longanesi e Montanelli hanno un rapporto dialettico con il fascismo: ne vedono il lato comico a volte tragico, ma al tempo stesso ne accettano il principio d´ordine. Non vede in ciò una contraddizione?
«Non so se vi sia una contraddizione. La mia impressione è che in questo tipo di cultura è radicato un forte pessimismo antropologico. Il riferimento a cui penso è Machiavelli. Essi sono convinti che l´individuo preso a sé può coltivare tutte le elementari virtù civiche della convivenza ordinata all´interno della collettività. Ma quando l´individuo è coinvolto in fenomeni di gruppo tende a perdere la propria identità e si fa strumento di operazioni che non capisce e che mirano a irreggimentarne la vita quotidiana».
Insomma quello che temono è il conformismo. «Che essi trovano più forte e pericoloso nel comunismo che non nel fascismo».
L´accenno a Machiavelli fa pensare a un realismo di fondo, ma anche a un tono da invettiva che in loro prende a volte la cifra della satira.
«È una cultura che si pone il classico problema di come stare al mondo nel momento in cui non si accetta una problematica di tipo religioso. Lo scettico, il conservatore, il pragmatico, il liberal, da una parte sanno che lo stare al mondo non è un privilegio, dall´altro però si sentono estranei alla logica dell´utopia e quindi non vogliono inseguire sogni di palingenesi».
La loro si potrebbe dire è anche una reazione al populismo. A questo proposito lei ha scritto di recente un libro sull´argomento (L´Italia populista, edito da il Mulino). Si può parlare in relazione all´Italia di un populismo più di destra che di sinistra?
«Posto che il populismo è un fenomeno trasversale, effettivamente è più la destra che ne ha colto i frutti. I temi della antipartitocrazia, cioè della diffidenza verso la classe politica in generale, le critiche al potere, l´arroccamento autarchico, i toni plebei, la presenza di un leader carismatico sono aspetti ai quali la destra si dimostra più sensibile della sinistra. Sicché dal qualunquismo si è passati al laurismo, e poi a certe posizioni del Movimento sociale che al Sud ha cercato in anni passati di mettersi a capo della protesta popolare».
E l´attuale Lega?
«La Lega fa involontariamente sua quella vena letteraria e populista che attraversa il fascismo degli anni Trenta e che non ritrovi assolutamente nella cultura di destra degli anni ‘60, ‘70, e ‘80. Questa vena - tesa ad esaltare l´oleografia delle virtù popolari, a vederne l´eroismo, a porre l´intima connessione fra il capo e la folla - ricompare in maniera tumultuosa e a un livello politico più che culturale. Tutto questo va ricondotto alla presenza di altri elementi che sono interni al funzionamento della democrazia come mistica dell´espressione diretta del popolo».
Non trova, a proposito di populismo, che la vena narrativa di Guareschi ne sia intrisa? Che i suoi personaggi, le contrapposizioni fra "chiese", quella cattolica e comunista, aprano a un populismo del buon senso?
«Un certo populismo è indiscutibile. Ma quello che mi colpisce è soprattutto l´idea di buon senso che circola nelle pagine dei suoi romanzi. Poco fa parlavamo di personaggi come Longanesi e Montanelli, che mantengono comunque certe forme di distacco quasi sprezzante nei confronti del popolo. Eppure essi non negano potenzialmente al popolo la virtù del buon senso. Solo che la vedono offuscata dalle ideologie e dalle febbri politiche che ogni tanto lo divorano. Guareschi, ma soprattutto Giannini sul piano politico, sono l´altro versante del discorso».
Ossia?
«Intravedono nella vita quotidiana un fondo vitale. Qualcosa che è lontano dalle utopie sovversive e che va nella direzione di un conservatorismo nemico del progressismo».
Conservazione e progresso sono polarità che useranno in tanti.
«Non c´è dubbio. Ma nel discorso che si sta facendo il progressismo è visto come lo snaturamento del buon senso e abbandono irrazionalistico al sogno della grande trasformazione. E questa opposizione avverrà in modi diversi: su un registro più popolare con Guareschi, più culturalizzato con Prezzolini e per certi versi con Longanesi».
Ma questa idea del buon senso, che è un po´ la faccia popolare della tradizione, non limita il discorso sulla cultura di destra.
«A me viene in mente il ruolo che ha svolto la casa editrice Rusconi negli anni Settanta, la cui speranza almeno nel progetto editoriale fu duplice: cercare di riconquistare a livello popolare il buon senso, ma al tempo stesso far emergere una sorta di contro élite culturale che facesse muro a quella marxista. Tra le scelte editoriali c´era la pubblicazione di Decadenza dell´analfabetismo, un testo raffinato di Bergamín, che richiamava la necessità di non staccarsi dal popolo».
Un ruolo ispiratore alla Rusconi lo svolgerà il filosofo Augusto del Noce che da cattolico tradizionalista cercherà il confronto con la cultura marxista, provando a minare le basi della sua egemonia.
«Anche questo tentativo di Del Noce che per un verso è molto sofisticato dall´altro è indirizzato a un livello più elementare. Secondo me i vari filoni della cultura di destra, a eccezione di alcune frange marginali, partono dal presupposto che il popolo italiano abbia nel fondo conservato un nucleo di valori positivi spendibili sul piano della costruzione della buona società e che solo la febbre ideologica, la catastrofe bellica con annessa guerra civile, abbia finito con il manipolare».
È in gioco uno scontro tra chi deve detenere il potere culturale?
«Sì, ed è la tesi classica che la destra ha sempre avanzato: il marxismo ha occupato larga parte del potere intellettuale e dopo la conquista è partita una strategia di condizionamento ideologico, psicologico, mentale. Di qui il programma di confronto con cui la destra tenta di ridimensionare quel potere intellettuale: non attraverso i vertici, quindi non attraverso la politica, ma attraverso la base».
A quale base sta pensando?
«Ce ne sono di due tipi. Quella cattolica fondata sul recupero di una posizione dottrinaria che guardi verso la direzione religiosa e quella laica che poggia sugli elementi di buon senso che dicevamo prima. E che dovrebbero portare l´individuo a prendere le distanze da chi gli promette il paradiso in terra, il regno ideologico della libertà».
I due piani, popolare ed elitario, proveranno mai a convivere?
«Proveranno agli inizi degli anni Settanta con due riviste: La destra, sponsorizzata dagli ambienti politici missini, ma diretta con forte autonomia da Mario Tedeschi; e Intervento, voluto da una figura del tutto anomala, anche se fiancheggiatrice, come Giovanni Volpe. Entrambe le riviste raduneranno tutto quello che a livello nazionale e internazionale è riconducibile alla cultura di destra».
Qualche nome?
«Compaiono Del Noce e Prezzolini, Eliade e Jünger. L´obiettivo è cercare di arginare quel processo di penetrazione del marxismo nel tessuto collettivo della società italiana».
Non mi pare che ci riusciranno.
«No, anche perché quelle riviste, nate con altri intenti, finiranno con il diventare delle torri d´avorio».
In un´analoga torre d´avorio finì il lavoro editoriale della Rusconi.
«L´esempio più clamoroso fu l´insuccesso, fortissimo dal punto di vista delle vendite, di una collana che si esaurirà dopo pochi libri. Ricordo che esordì con Le serate di San Pietroburgo di de Maistre, poi il saggio sul cattolicesimo di Donoso Cortés e infine La colonna e il fondamento della verità di Florenskij».
Perché libri del genere, pur straordinari, non attecchirono?
«Perché si puntava all´idea che esistesse un pubblico colto da incuriosire e orientare verso una letteratura alternativa a quella progressista, ma non riconducibile a una cultura militante di destra, o nostalgica. E non è un caso che Rusconi riesca meglio dove la polemica culturale è più diretta e accesa».
Ma soprattutto piazza un colpo straordinario: Il signore degli anelli. Una saga che verrà accolta e fatta propria dagli ambienti giovanili della destra fascista. Come mai?
«Perché sono ambienti che si nutrono di suggestioni culturali molto drastiche, che hanno letto Evola e che condividono la proposta di una radicale alterità rispetto al mondo moderno e che quindi non si accontentano di un tradizionalismo estetizzante o religioso, ma vogliono lanciare una proposta politica alternativa».
Ma che cosa è stato questo territorio del neofascismo dal punto di vista culturale?
«È un mondo che deve confrontarsi con il problema della propria assoluta minorità numerica e di prestigio. Che mostra una grande fame di letture e che si abbevera in larga parte a culture straniere. Adora il romanticismo fascista dei Drieu la Rochelle, dei Brasillach, del Céline. Cerca in Jünger, con il quale ha un rapporto difficile, l´idea che il pensiero è qualcosa di aristocratico, e in Eliade o in Guenon una diversa via d´accesso alla tradizione. Si disinteressano del pensiero italiano. A parte Evola, non leggono tutto quello che il corporativismo, il futurismo, il sovversivismo sindacale era stato prodotto dalla cultura fascista. Queste sono cose che interesseranno soprattutto De Felice e i suoi allievi».
Che relazione ha questo mondo con la violenza?
«Il neofascismo è l´affiliazione di un ambiente che aveva referenti diversi, che andavano dallo squadrismo alla produzione culturale di circoli sospesi tra l´ortodossia e la fronda. Nelle sedi missine la separazione era quasi fisica tra quelli che predicavano l´attivismo e l´anticomunismo e quelli che volevano fare corsi di formazione politica, leggendo i testi e non usando le spranghe. Il problema è che l´occhio esterno ha teso a vedere tutto come articolazioni funzionali di un ambiente che aveva un solo progetto».
Ma quel progetto, fra eversione e violenza, si impose nel clima degli anni Settanta.
«È vero, prevalse e mise a tacere ogni possibile alternativa. La conclusione fu che all´esterno l´immagine stereotipata che vinse fu quella di un movimento brutale, violento e incolto».
Non credo che fosse così stereotipata. Pensi, tanto per fare un nome, a Freda e al terrorismo nero.
«Non dimentichiamo che all’estrema sinistra accadeva qualcosa di analogo. Ma io non discuto sul fatto che il neofascismo abbia avuto una componente violenta e inquietante. Dico che non si può ridurla a questa. Il romanzo di Tolkien coincise con lo sviluppo di un certo radicalismo di destra. Da quella saga, giusto o sbagliato che fosse, molti giovani vagheggiarono la costruzione di un mondo comunitario che fosse un´alternativa in grado di salvare l’umanità dalla cultura del progresso che porta al disastro. Quindi, più che il lato bellico, guerriero, quella parte della cultura di destra riconobbe il valore del recupero delle forme di vita estranee alla modernità industrializzata e consumistica».
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