una segnalazione di Annalina Ferrante
La Repubblica 2.1.04
Il poeta dell'amore e della coscienza di sé
a settecento anni dalla nascita
Fu il primo a rivendicare l'autonomia dell'intellettuale
Occupa interamente la scena ali celebreranno l'autore del Canzoniere
Intervista a Marco Santagata: "Lui più di altri sa parlare alla sensibilità dei moderni"
PISA
di FRANCESCO ERBANI
Francesco Petrarca nacque poco prima che spuntasse il sole del 20 luglio 1304, settecento anni fa. Nacque ad Arezzo, in una casa di Vico dell'Orto, dove il padre, che tutti chiamavano Ser Petracco, e la madre, Eletta Canigiani, si erano rifugiati perché a Firenze era prevalsa la parte dei guelfi neri e il povero Petracco, di parte bianca come Dante, era stato condannato ingiustamente al taglio di una mano, alla confisca di tutti i beni e all'espulsione dalla città.
Petrarca iniziò in esilio la sua vita. Sarebbe diventato il maggior poeta dell'amore e della coscienza di sé e la sua fama avrebbe brillato in assoluto più di ogni altro suo collega, influenzando la lingua della lirica fino alle porte del Novecento e anche oltre. E fu anche colui che con più limpida consapevolezza avrebbe rivendicato l'autonomia del suo mestiere, delle proprie conoscenze letterarie e filologiche, inaugurando l'albo di una nuova categoria professionale, quella degli intellettuali.
Su Petrarca si è cimentato per decenni Marco Santagata, professore a Pisa. Ha scritto saggi per riviste scientifiche e due libri molto diffusi (Per moderne carte e I frammenti dell'anima, editi dal Mulino nel '90 e nel '92). Ha curato un Meridiano Mondadori con il Rerum vulgarium fragmenta (il Canzoniere) e un altro con il Codice degli abbozzi, che documenta le redazioni precedenti del Canzoniere, e i Trionfi (il primo torna in libreria a gennaio con una nuova premessa e un aggiornamento bibliografico). Tre anni fa, quasi per scrollarsi da un'ossessione, ha scritto un romanzo, Il copista (Sellerio), una malinconica fantasia sugli ultimi anni di vita del poeta, un gioco in cui il protagonista è Giovanni Malpaghini, l'uomo che lo assistette nel ricopiare una per una le sue poesie.
È con Santagata che tentiamo di capire se e come, settecento anni dopo, Petrarca parli alla sensibilità dei moderni. «Certo», risponde Santagata, «lui più di altri, perché occupa interamente la scena della sua poesia con la propria soggettività. Potrebbe sembrare un impoverimento e invece nei secoli l'ambiente petrarchesco si è rivelato un territorio sconfinato che ha consacrato il suo artefice quale caposcuola della poesia moderna. Lui sottrae il discorso amoroso ai condizionamenti del tempo e costruisce uno spazio dell'io con le proprie contraddizioni, le proprie ansie, e con l'accidia, che altro non è se non la depressione, e che lui tratta come una malattia, un morbo con una componente peccaminosa».
Ne riparleremo. Ma intanto una premessa: Petrarca è ancora studiato?
«Non so quanto venga letto. Ma negli ultimi anni è il nostro autore sul quale all'estero maggiormente si indaga».
Più di Dante?
«Più di Dante, sì».
E da cosa dipende questo interesse?
«Dal fatto che si tende a retrodatare l'Umanesimo, comprendendo a pieno titolo anche Petrarca, anzi facendone un capostipite».
Ed emergono novità?
«Continuamente. Petrarca è un cantiere aperto e soprattutto il Petrarca latino, che ora si tende a raccordare strettamente con quello che predilige il volgare. Scrivere lirica d'amore è ai suoi occhi un'operazione umanistica. Petrarca è convinto che presso i latini esistesse una poesia ritmica espressa in una lingua popolare, diversa da quella codificata da Cicerone. Quando raccoglie i suoi versi sparsi compie un'operazione umanistica, la stessa che lo spinge a riunire le Familiares».
Ma il Petrarca latino, lei diceva, è ancora da indagare a fondo.
«Abbiamo ancora molto lavoro da compiere soprattutto per offrire testi attendibili. È lì il cantiere più operoso».
E il Petrarca volgare?
«Noi non abbiamo un'edizione critica del Canzoniere. La fortuna di possedere il codice autografo, un codice in cui Petrarca ricopiò le proprie poesie, ha in qualche modo frenato lo scrutinio e la raccolta di tutti gli altri manoscritti per ottenere una edizione critica».
E questo è un problema? Non sarà solo un capriccio di filologi?
«Esistono edizioni molto curate e corrette. Però un'edizione critica del Canzoniere, ma anche dei Trionfi, sarebbe impresa memorabile».
Torniamo al Canzoniere. Lei è convinto che non si tratti di una raccolta, ma di un'opera compiuta. Meglio, di un romanzo. Perché?
«Il Canzoniere è il grande libro che testimonia la svolta del poeta, cioè il ritrovamento dell´integrità intellettuale, la riunificazione del suo io scisso a causa della passione amorosa: il saggio è colui che è tutto compiuto in se stesso, mentre l'innamorato è in parte alienato da sé, il suo animo è frammentato, disperso. Ha presente il sonetto d'apertura del Canzoniere?»
«Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono»?
«Ecco: quelle "rime sparse" rappresentano lo stato di dissociazione. La passione d'amore è un'esperienza irrazionale, sulla quale si abbatte negativamente un giudizio etico. La guarigione avviene riacquistando l'autocontrollo, la padronanza di sé. Il Canzoniere realizza questa tesi. O almeno dovrebbe realizzarla».
Non ci riesce?
«È una tesi difficile da tradurre in pratica. Quando riunisce tutti i testi che compongono il Canzoniere, e che risalgono anche a molti anni prima, Petrarca non sa come concludere la raccolta affinché sia ben chiaro il fine penitenziale, il riscatto dalla passione. In un primo tempo si affida solo al calendario liturgico. È un calcolo un po' complicato, posso procedere?».
Certamente.
«I sonetti sono 366, uno in più rispetto ai giorni dell'anno. L'innamoramento per Laura ha una data, 6 aprile 1327, venerdì di Passione prima della Pasqua: muore Cristo e nasce l'amore. Cominciando dunque dal 6 aprile e calcolando un sonetto al giorno, si arriva al numero 264 che cade il 25 dicembre. Qui Petrarca colloca una cesura. Terminano i versi "in vita di Laura", iniziano quelli "in morte": nasce Cristo e comincia il processo di redenzione del poeta, che avanza per le altre 102 composizioni fino alla canzone alla Vergine, la numero 366, che coincide con un altro 6 aprile».
E questo non è sufficiente a dimostrare la riacquistata saggezza?
«Evidentemente no. Con un guizzo che possiamo datare negli ultimi anni di vita, Petrarca modifica l'ordinamento dei trentuno componimenti finali. Chiude il cerchio della sua redenzione, colloca in quel punto i sonetti e le canzoni che più palesemente rendono chiaro il cammino di riscatto, arretrando quelli che lo fanno apparire più dubbio».
Quella di Petrarca è dunque una costruzione intellettuale. Il suo è un artificio letterario.
«Petrarca allestisce un grande libro. E questo gesto rompe con la tradizione dei rimatori cortesi, i poeti a lui contemporanei o immediatamente precedenti, i quali avevano posto al centro dei propri versi la figura della donna. Il loro io, rispetto alla donna, era poco più che un locutore. Inoltre quella poesia conteneva una componente sociale, incorporava il rituale di una società nobiliare».
E qual è la novità che introduce Petrarca?
«La donna delle rime cortesi non si concedeva, ma il desiderio frustrato produceva poesia. Petrarca rovescia questo meccanismo. In apparenza la donna suscita il desiderio, ma in realtà esiste solo perché è investita dall'amore-desiderio. Neanche lei si concede, ma colui che desidera va a occupare tutto lo spazio che fino ad allora era riservato alla raffigurazione della donna, ai rituali del corteggiamento».
E quindi Petrarca costruisce la propria autobiografia poetica?
«Sì, ma in modo diverso da come possiamo intenderla noi. Petrarca usa la letteratura per offrire un'immagine di sé, però mescolando dati reali e dati fantastici. Il suo modello è Sant'Agostino, così come lo raffigura nel Secretum, intento a spronarlo verso una poesia che racconti se stesso e non più gli altri».
Ed è qui, secondo lei, la modernità di Petrarca?
«Petrarca si astrae dalla storia del suo tempo. Non la ingloba, come fanno i poeti a lui contemporanei. La sua poesia non ha dimensione sociale, ma solo interiore».
Il rapporto di Petrarca con la storia, così come lei lo descrive, ha forti analogie con le sue scelte linguistiche. Gianfranco Contini sostiene che le parole petrarchesche sono «sostanze non attualizzate».
«Il vocabolario di Petrarca è molto più ricco di quello di uno stilnovista, ma è chiuso, circoscritto. La sua poesia non si consuma in pubblico e la lingua è concepita perché sia destinata a durare. È senza tempo».
Questo spiega la fortuna di Petrarca nel corso dei secoli?
«Il petrarchismo è un fenomeno poetico consistente. Investe l'Europa e non solo l'Italia. Ma nasce a una certa distanza di tempo dalla morte del poeta e paradossalmente è pre-petrarchesco, perché riproduce quella funzione sociale, legata alle corti rinascimentali, che Petrarca aveva bandito».
E oltre il petrarchismo?
«Oltre il petrarchismo resta Petrarca, con il quale si cimentano anche Giovanni Pascoli e Gabriele D'Annunzio, Umberto Saba e Andrea Zanzotto».
La fortuna di Petrarca dipende anche dal fatto che la sua personalità sia poliedrica - diplomatico e persino politico, oltre che poeta e filologo. In che modo partecipa alle drammatiche vicende dell'Europa di quegli anni?
«Petrarca svolge un ruolo politico autonomo solo quando sostiene l'esperimento di Cola di Rienzo, il quale nutre il progetto di una restaurazione della romanità. E lo fa con sincerità di intenti, al punto da mettersi in contrasto con la famiglia romana dei Colonna, che lo aveva a lungo protetto. Per il resto mette al servizio di diversi potenti il prestigio acquisito. Svolge compiti di ambasceria, ma impone sempre la propria figura di intellettuale, la propria personalità, la conoscenza dei classici. E conserva intatta la propria autonomia».
Che differenza c'è fra lui e Dante?
«Dante si muove intorno alle sopravvivenze feudali, a un mondo che scompare. Petrarca si lega invece agli ambienti curiali, si ferma ad Avignone, che in quegli anni è la capitale d'Europa, una città dove si elabora la nuova cultura centrata sul recupero dei classici. Va a studiare giurisprudenza a Bologna, ma invece di diventare notaio intraprende la carriera ecclesiastica, proprio nel momento in cui si consuma la crisi del mondo universitario. Petrarca è un libero professionista, il primo intellettuale a vivere del proprio mestiere di letterato».
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»