martedì 6 gennaio 2004

Pietro Citati
sui sogni e il mondo mitico

(citato al Lunedì)

una segnalazione di Sergio Grom e di Tonino Scrimenti

La Repubblica 2.1.04 (pagg. 1 e 37)
LE IDEE
Se il mondo dei sogni diventa un deserto
I TIRANNI DEL SOGNO
Il mondo onirico, da Sigmund Freud a James Hillman

La teoria diversissima di Carl Gustav Jung
il narratore misterioso che si sveglia dentro di noi
Mentre lo studioso americano mette in guardia dagli "imperatori dell'anima"
Il padre della psicanalisi bandisce nella sua Interpretazione ogni traccia di mito
di PIETRO CITATI


L'interpretazione dei sogni è percorso da una fitta serie di citazioni e di allusioni letterarie, Sofocle, Virgilio, Shakespeare, Goethe, che rivelano come l'immersione onirica risvegliasse il fortissimo senso mitico di Freud. Queste citazioni - non i discorsi e le definizioni intellettuali - hanno il compito di esprimere la sua intuizione dell'inconscio. Forse egli aveva combattuto con Dio, come Giacobbe con l'angelo: aveva tentato di scoprire i segreti degli dèi dell'Olimpo, della luce, della coscienza, e la totalità della vita. Ma aveva fallito. Non gli era restato che scendere nelle tenebre dell'Ade (*). Laggiù abitavano gli dèi della notte: Ade, Persefone, i Titani, le Furie, le Madri che Faust aveva visitato nelle profondità della terra. Questi erano gli unici dèi che egli potesse conoscere: lì viveva il numinoso, il tremendum, l'indimenticabile e l'indistruttibile, verso il quale provava un'infinita venerazione e un infinito terrore. La sua via era segnata. Come l'archeologo, doveva discendere strato per strato, dissotterrando la città sepolta, fino all'ultima Troia: come il minatore, doveva scavare pozzi sempre nuovi, nei quali incontrare i pensieri del sogno.
Il fatto paradossale è che questa intuizione mitico-sacro dell'inconscio, intessuta con tanta sottigliezza ed eleganza, resta confinata nelle allusioni letterarie dell'Interpretazione dei sogni. Nei sogni, che Freud racconta e che in gran parte estrasse dalle sue notti, manca quasi ogni traccia di mito e di numinoso. Gli innamorati delle grandi fantasie oniriche romantiche dovranno cercare altri testi: Jean Paul, Nerval, Jung. La ragione è duplice. Da una parte, scrivendo il suo libro, Freud censurò violentemente i propri sogni per pudore, discrezione, timore, desiderio di rispettabilità, resistenza dell'ego. Tutti i sogni sessuali, specialmente quelli dove affiorava l'attrazione edipica verso la madre, non giunsero nel libro. Era la colpa suprema, di cui non poteva scrivere in pubblico. I peccati che confessò analizzando la sua attività onirica, o che rivelò senza volerlo, sono soprattutto peccati dell'ego: odio verso il padre, rancore verso i fratelli e gli amici, invidia, ostilità verso i colleghi, desiderio di riuscire (rinnegando persino la propria razza), colpe verso i malati - peccati, forse, anche più vergognosi, ma che non sfioravano il recinto sacro della psiche.
La seconda ragione è più significativa. L'inconscio freudiano, non è quel mare tenebroso e continuo, quell'Acheronte pigro o convulso, quell'indivisibile flusso, che ci hanno raccontato Dostoevskij, Proust e Kafka. Il sogno è composto di microscopici frammenti, di unità impercettibili, di minime tessere, che poi l'inconscio incastra fra loro, fino a formare un conglomerato ingegnoso. Così, leggendo L'interpretazione dei sogni, il brivido oscuro che ci aveva lasciato l'Ade scompare. Il dio dell'inconscio non sembra un Titano o una Furia, e nemmeno le Madri. Assomiglia piuttosto a figure che incontriamo nella vita del giorno: un tessitore davanti al suo telaio, un artigiano che compone mosaici e tarsie, un giocatore di scacchi che calcola i movimenti delle sue pedine, e persino un cinico truffatore, tanto mente, si maschera ed è privo di scrupoli. La sua attività è formale e combinatoria. Mentre Freud lo spia, eccolo lì che lucidamente, geometricamente, con una regolarità e una precisione da orologio, occulta, omette, condensa, traduce, deforma, trasforma, sposta. Che il tremendo dio dell'Ade si comporti come un meticoloso artigiano, questa è la grande scoperta che Freud insegnò al ventesimo secolo.
Dopo aver pubblicato L'interpretazione dei sogni (1900), Freud allontanò da sé le ombre e gli dèi dell'Ade e del passato, usciti «dalla fossa oscura dei sogni», dove - confuso, sognante ed estatico - per qualche anno aveva rischiato di perdersi. Uccise la parte morbida e femminile di sé; e si irrigidì, affidandosi ai guardiani della coscienza. D'ora in poi, avrebbe contemplato l'inconscio dalla rocca della coscienza: senza mescolarsi più tra le ombre desiderose di sangue, perdendo quel contatto immediato con la tenebra. Non fu solo. Quasi vent'anni dopo, il suo amico-nemico, Carl Gustav Jung, percorse la stessa strada, mentre elaborava una teoria diversissima dalla sua. Tutti gli archetipi, le vegetazioni, i pensieri e le intuizioni casua li che si annidano nel profondo, anche Jung cercò di portarli alla luce della coscienza e del giorno.
* * *
Nel suo bel libro: Il sogno e il mondo infero (Adelphi, traduzione di Adriana Bottini, pagg. 316, euro 22), James Hillman si ribella contro coloro che chiama «gli imperatori dell'anima».
Quegli imperatori erano i suoi maestri, Freud e Jung. Settanta anni dopo che essi avevano consigliato di illuminare la psiche, Hillman si accorge che il profondo, almeno in Occidente, si è isterilito. Il mondo moderno possiede una sterminata quantità di inconscio razionalizzato, trasformato, alterato, falsificato. Ma pochissimo inconscio autentico, come al tempo dei greci e dei cristiani, quando esistevano gli dèi della luce e della notte. Qualsiasi discesa sistematica nella tenebra, qualsiasi volontà di chiarirla completamente, uccide il nutrimento oscuro della nostra anima. Così Hillman non si propone di portare il sogno nel mondo diurno, traducendolo nella lingua dell'io. Non tenta nessuna conoscenza scientifica della vita onirica.
Come gli antichi, Hillman lascia l'anima nella sua ombra. Allora il profondo veniva alla luce da solo, senza l'intervento umano, continuando a parlare la sua lingua misteriosa: ora in un mito, ora in un sogno, ora in un'intuizione, ora in una previsione, ora nella immagine centrale di un libro. Così, nei tempi moderni Proust e Kafka temettero di disseccare e cancellare con l'intelligenza la parte più preziosa dell'ombra: il suo abisso, il suo velluto, il suo «setoso geranio», la forza inquietante, la vischiosità, l'irradiazione. Nella Ricerca e nella Metamorfosi persuasero l'inconscio a riflettere su sé stesso e a parlare di sé stesso, esprimendosi e trovando una forma letteraria: sebbene continuasse a restare inconscio. L'ombra aveva irradiato la propria luce: la luce della notte. Senza possedere il genio artistico di Proust e di Kafka, Hillman segue il loro cammino, liberandosi da qualsiasi pensiero e pregiudizio che appartenga alla realtà e alla ragione. Capisce che «la coscienza diurna nasce nella notte e della notte reca i segni sopra di sé». Non cerca di conoscere i sogni: ma di vivere i sogni, abitare i sogni, diventare, lui stesso, un grande sogno.
In quel momento, capisce che i sogni appartengono al mondo infero, e inizia la sua discesa nel regno della notte e della morte. Laggiù, come Freud aveva scoperto e forse dimenticato, tutto è pieno di dèi: una folla di dèi, che ora parlano a voce alta, ora squittiscono e stridono come pipistrelli. Laggiù vivono Ade e Dioniso - lo stesso dio. Ade possiede una mente così armoniosa e una parola così persuasiva (diceva Platone), che le anime non vogliono più lasciare il suo regno: mentre l'immaginazione notturna di Dioniso trabocca di forme animali, di metamorfosi fantastiche, di danze orgiastiche e musiche, che Hillman non può a nessun costo dimenticare.
Egli sa che discendere nell'Ade è un'impresa pericolosa. Bisogna affrontare il dolore, il lutto, la lacerazione, il terrore, gli impossibili abbracci dei morti, la tragica esplorazione di tutto ciò che è nascosto: l'esperienza del vuoto e dell´invisibile. C'è continuamente il rischio di perdersi, sopraffatti dalla onniavvolgente spettralità - quella che Ulisse conobbe nell'Odissea e tenne lontana da sé. Ma Ade, come dicevano i greci, è anche Plutone: il dio della ricchezza. «Dai morti - aveva detto Ippocrate - proviene il nutrimento, e la crescita e il seme». Senza l'esperienza della morte, la nostra vita perde qualsiasi profondità: mentre, se conosciamo gli spettri e il vuoto, essa diventa ricca, piena, sovrabbondante di doni terreni e celesti.
Tra gli psicologi del ventesimo secolo, credo che Hillman sia l'unico, vero politeista - e da questo deriva la vastità di immagini e di relazioni che nutrono i suoi libri. Ogni figura divina ed umana contiene, per lui, una quantità innumerevole di figure: ognuna è sempre sul punto di andare a pezzi o di moltiplicarsi: e lui gioca con queste figure che si perdono e si ritrovano, animato da un piacere che non si esaurisce. Non è mai fermo. Ogni minuto, cambia atteggiamento e posizione. Incarna molte forme: guarda da tutte le parti, verso la notte e verso la luce, verso la realtà e verso il vuoto: muta punto di vista: e ci appare sempre dove non l'aspettiamo. Sta sui confini, dove si incontrano ciò che è famigliare e ciò che è straniero, ciò che è vivo e ciò che è morto. Il principio di non-contraddizione, che domina ancora il pensiero di Jung, gli è estraneo. Il suo maestro è Eraclito, nel quale gli opposti coincidono. Tutto ciò dà una mobilità brillante e nervosa al suo stile. E una straordinaria letizia. Quando parla dell'Ade, dove Omero trovò soltanto squallore e terrore, ci sembra stranamente allegro. Non ci comunica nessun brivido funerario, ma soltanto gioia, come avesse trovato nella morte lo scintillio e il brillio della vita.
* * *
Non tutto, nei sogni, è Ade. Non tutti i sogni sono funerarii e spettrali. Quando sogniamo, scorgiamo anche le superfici della vita diurna: quella che abbiamo appena abbandonato, da pochi minuti o da poche ore o da pochi giorni. Gli psicologi, che cercano soprattutto profondità, sono ingenerosi verso i sogni superficiali: persino uno scrittore frivolo come Hillman. In queste fantasie oniriche non ci sono simboli. Non c'è ombra né tenebra. Non ci sono fondali misteriosi. Non c'è quello che Freud chiamava lavoro onirico: cioè quel processo di «coagulazione, condensazione, intensificazione, riduzione, ripetizione», che attrae Hillman.
Verso un'ora qualsiasi della notte (di solito non verso l'alba, quando giungono, dicevano gli antichi, i sogni veri, quelli usciti dalle porte di corno), si sveglia in noi un Narratore misterioso. Racconta storie compatte, continue, abbondanti, fluide: non prova nessuna fatica, né pena né intoppi, perché viene dominato dalla gioia esorbitante dell'affabulazione. Possiede un estro fantastico, una ricchezza di invenzioni, di trovate e di particolari, che non finiscono di stupirci. Dai narratori del giorno lo distinguono due doni. In primo luogo, le sue figure rivelano un'incredibile leggerezza e trasparenza: perché i sogni e i fantasmi (diceva Omero) sono simili alle immagini riflesse allo specchio. In secondo luogo, egli non conosce la necessità. Ama il caso: e il particolare assurdo, insensato, follemente comico, che ci fa ridere fino alle lacrime. A volte, né Basile né Hoffmann possono rivaleggiare con lui.
Non sappiamo quale sia il suo nome. A prima vista, ci sembra il narratore delle Mille e una notte: poi ci accorgiamo che i racconti che l'Oriente produsse, come una flora prodigiosa, dal nono al diciannovesimo secolo, sono molto più esoterici delle nostre storie notturne. A volte, ci sembra un narratore di avventure come Stevenson, o un librettista come Da Ponte, o un autore di operette, farse napoletane e musical: o un clown - il nostro clown personale. Racconta volentieri di notte, chiuso in una mente umana come nella più sicura delle prigioni o dei salotti, perché si sente protetto dall'oscurità, soffice e morbido come il pelo di un gatto siamese. Nessuno, nemmeno un meticoloso psichiatra, può smentirlo. Quando inventa una storia particolarmente spiritosa, comprendiamo all'improvviso chi ci ha accompagnato, sia pure con intermittenze, nelle ore della notte. È Ermes, il dio che guida i morti e i sogni: il dio piccolo, losco, leggero, bugiardo, che si abbandona giocando al suo piacere di fantasticare.

(*) "Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo" è il motto (tratto dall'Eneide) premesso da Freud all'Interpretazione dei sogni