martedì 6 gennaio 2004

Lev Tolstoj e la famiglia: «Scappare, bisogna scappare!»

La Stampa 6.1.04
DRAMMA E UTOPIA CONIUGALE DELL’AUTORE DI «ANNA KARENINA»
Le furie di Tolstoj nella prigione del matrimonio

Da giovane aveva idealizzato la donna, forza della natura e dell’eros
ma visse la famiglia in modo rabbioso: «Scappare, bisogna scappare»
di Giovanna Zucconi


TOLSTOJ era un tipo impaziente, a ventiquattro anni scriveva «ormai sono vecchio», chissà se avrebbe più combinato niente di buono, a trentaquattro pretese di sposarsi dopo un fidanzamento di appena una settimana, e non con la ragazza che gli era destinata ma con un'altra delle sorelle Bers, Sof'ja, che aveva sì e no diciotto anni. Nello sdrucito appartamento dentro le mura del Cremlino dove abitava la famiglia del dottor Bers, fra divani sfondati e lampadari così bassi che sfioravano la testa dell'ospite, lì, mano nella mano, durante quel fulmineo fidanzamento, il conte Lev Nikolaevic Tolstoj fece in tempo a sottoporre la sognante fanciulla moscovita a un rito crudele. E la rovinò per sempre. E, forse, rovinò per sempre anche se stesso, quella felicità familiare che aveva desiderato tanto, e alla quale aveva intitolato un libro già anni prima.
La costrinse a leggere i suoi diari, diari esaurientissimi, precisissimi, le svelò ogni piega della sua anima e del suo corpo, chissà se per consegnarsi a lei o per imprigionarla nell'assolutismo spietato della verità. Le rivelò ogni dettaglio dei suoi amori passati, la zingara Katja («la sera in cui seduta sulla mie ginocchia mi raccontò che mi amava, che concedeva favori ad altri ma non permetteva a nessuno all'infuori di me certe libertà che dovrebbero essere coperte dalla cortina della modestia»), la spigliata dama di corte, la vicina Valerija Arsen'eva, alla quale scrisse sedici lettere d'amore ma che finì per non sposare, e soprattutto la contadina Aksin'ja Bazykina, dalla quale ebbe un figlio che divenne cocchiere nella tenuta di Jasnaja Poljana: la snella Aksin'ja dalle gonne variopinte che Lev Nikolaevic continuò a incontrare durante le sue cavalcate fra i campi e i boschi, la bella Aksin'ja che le donne del villaggio indicarono con malizia alla giovane sposa appena arrivata, «quella è la ganza del padrone», mentre stava lavando il pavimento della villa coniugale. Gelosia. Implacabile. Madame Tolstoj non se ne liberò più, lui decenni dopo ancora annotava che in lei «si sono risvegliati antichi fermenti» di rabbia e di dolore, lei nei suoi diari registrava i furori, il tormento, e gli sforzi per placarlo. La lettura reciproca dei diari fu un rito coniugale che continuò, chissà se per sincerità estrema o costringendo all'insincerità anche la più privata delle scritture: quello che non voleva che la moglie leggesse, lettere o manoscritti, lui con infantile ingenuità lo nascondeva in un cassetto del divano in pelle verde imbullonata con chiodini dorati sul quale era nato, e sul quale sarebbero nati quasi tutti i loro tredici figli.
Nel giugno del 1863, nove mesi dopo le nozze, nacque il primo, Sergej, e cominciarono i litigi fra i due sposi: lui pretendeva che lei allattasse il bambino, lei si rifiutò. Durante la gravidanza, Sof'ja aveva fatto un sogno. Sognò che in un enorme giardino entrava Aksin'ja, vestita come una signora, di seta nera. «Mi prese una tale rabbia che presi il suo bambino e cominciai a farlo a pezzi. Gli strappai le gambe, la testa, tutto, ero in preda a un furore terribile. Venne Lëva (vezzeggiativo di Lev, n.d.r.), io gli dissi che mi avrebbero deportata in Siberia, ma lui raccolse le gambe, le braccia, tutte le parti e disse che non era nulla, una bambola. Guardai, e infatti invece d'un corpo erano trucioli e camoscio». Lasciamo perdere le interpretazioni, troppo facili, e lasciamo anche Sof'ja per anni ancora a disperarsi e rimproverare al marito di non amare i suoi figli, «che se fossero invece i figli di una contadina…». Quello che conta è una parola: bambola.
Molti anni prima, durante l'infanzia dello scrittore, le bambine di casa Tolstoj giocavano alle bambole con il piccolo «Lëva-piagnone», lo cullavano, lo fasciavano come un bambolotto. Molti anni dopo, sua moglie avrebbe scritto furente che lui si dedicava per intero non alla sua famiglia ma al popolo, che era capace di astratti amori collettivi ma non di presenza domestica: «…io non posso occuparlo per intero come lui occupa me. Ma se io non lo occupo, se sono una bambola, se sono unicamente la moglie, non una persona, non posso e non voglio vivere così». Sarebbe vissuta così, soffocando nel ruolo, tutta la vita, dal matrimonio nel 1862 fino alla morte in fuga di lui, nel 1910. Soffocava anche lui, nella felicità domestica alla quale si era imposto di credere. Sollevandosi dal letto, ormai morente, disse con voce forte e convinta: «Scappare, bisogna scappare!». E all'inizio della sua lunga vita, nel suo primissimo ricordo, c'era già quella stessa sensazione di imprigionamento, «sono legato, vorrei liberare le braccia e non posso». Strillava il poppante fasciato, urlava l'ottantenne moribondo. Spasmi di libertà.
Solo per qualche anno, subito dopo il matrimonio, Lev Nikolaevic si sarebbe detto felice, appagato, sereno. La conversione mistica, a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta, avrebbe poi ribaltato ogni utopia coniugale. Morivano uno dopo l'altro i figli, cinque su tredici, fra cui una bambina di cui il padre disse soltanto che sarebbe stata molto rimpianta in seguito: con le altre femmine, una volta adulte, fece di tutto per impedire che si sposassero. La moglie Sof'ja si rifugiava nella concretezza, pranzi e cene per quaranta persone ogni giorno, traslochi, mobili nuovi, migliorie immobiliari, e intanto combatteva perché i diritti d'autore del marito rimanessero in famiglia, e non ceduti al popolo come avrebbe voluto lui: copiava paziente i suoi manoscritti, e andò perfino dallo zar, sfidando i pettegolezzi, per implorare che non venisse censurata quella Sonata a Kreutzer in cui Lev raccontava di un marito che uccide la moglie adultera - ma poi ogni tanto fuggiva per strada in vestaglia, d'inverno. Però ritornava: a Jasnaja Poljana l'unica famiglia salda era, nonostante tutto, quella di Lev e Sof'ja, suoceri e fratelli e figli divorziavano, ostentavano adulteri, avevano figli da zigane e puttane…
Da giovane Tolstoj aveva idealizzato la donna, forza della natura e dell'eros, da vecchio inseguì (invano) un ideale di castità, quasi di ascetismo, considerava il sesso una contaminazione e i figli una prova abominevole della devianza umana dalla spiritualità. Nel primo autunno del nuovo secolo, in Crimea, confidò a Maksim Gor'kij che l'umanità è sì colpita da terremoti, epidemie, malattie, ma «in tutti i tempi la tragedia più dolorosa è stata e sarà la tragedia della camera da letto». Per Gor'kij, nessuno mai fu prigioniero della solitudine e del disprezzo più di quel vecchio scrittore, patriarca impaziente, profeta dell'amore universale.

giovannazucconi@libero.it