martedì 24 febbraio 2004

Cina

Liberazione 24.2.04
Europa e Stati Uniti alle prese con l'esuberante economia cinese. Volano le esportazioni in tutti i settori: dall'acciaio alle Nike copiate, dalle bevande al hig tech
"Made in China", sfida al mercato globale
di Maria R. Calderoni


Tanti tanti tanti tanti tanti piccoli cinesi. Alt. Non dire mai più che la Cina è vicina. Infatti la Cina non è vicina. La Cina è qui. Siamo belli che circondati. Basta guardare. Dati 2001, fonte Ocse: in Italia la Cina esporta bevande e tabacchi, cibo e bestiame, carburanti e lubrificanti, oli animali e vegetali, grassi e cere, prodotti chimici e affini, beni manifatturieri (a volontà), pelli, pelli lavorate e conciate, pellicce, prodotti in gomma sughero e legno, carta e simili, tessili, abbigliamento (a bizzeffe), prodotti minerali e metallici, ed eccetera.
Se non vi dispiace non solo bambole (il 75% della produzione mondiale di giocattoli è cinese, comunque), pantofole, Nike copiate, accendini-sorpresa, pigiami e magliette di ogni marca e seize. Dalla stessa fonte Ocse, si evince appunto che da noi arrivano "made in China" ferro e acciaio, macchinari e attrezzature da trasporto, macchinari specialistici, industriali, da ufficio, per processione dati automatica, per telecomunicazioni, per audioregistrazione, veicoli stradali, attrezzature da trasporto ed eccetera.
Non solo noi. In buona compagnia in Europa (un complessivo 17 per cento di business commerciale) siamo con Francia e Germania (quest'ultima totalizza un 4 per cento di import "giallo"); l'Asia assorbe un 54 per cento, l'America latina il 2,4.
Gli Usa, poi, guarda quelli. Loro toccano il 20,4 per cento (sono dati del 2001, sicuramente oggi sottostimati), un export-import Cina-Usa valutato in 150 miliardi di dollari l'anno. Dati strabilianti (e anche "destabilizzanti", dal punto di vista di certi "falchi"). «Nel 2002, su base annua quindi, le importazioni americane di reggiseni, vestaglie e magliette dalla Cina sono aumentate rispettivamente del 232%, del 540% e del 219%. Cifre che hanno letteralmente provocato grida di dolore da parte di gruppi di interesse nazionali, spingendo i politici a intervenire».
Tutt'altro che semplice, terribili scatole cinesi. Perché «se è vero che il Pentagono tende a vedere la Cina come una minaccia, è anche vero che con la Cina sono in ballo interessi commerciali molto forti: giganti come Boeing, Motorola, Citibank e Wal-Mart detengono infatti sempre più quote del mercato cinese».
Virgolette d'obbligo. Sono righe tratte infatti da Aspenia, il trimestrale edito dall'Aspen Institute, il cui ultimo numero si intitola "Il tempo della Cina" ed è interamente dedicato a decrittare il Macro Fenomeno che di nome fa Repubblica popolare cinese. Un numero anch'esso strabiliante per i dati, le ricerche, le analisi, le tesi che contiene. In sostanza, uno sguardo lungo e spregiudicato sull'ex Pianeta misterioso dell'altra sponda del Pacifico, 4 mila anni di storia, 1 miliardo e 350 milioni di persone - un quinto dell'umanità - il 50 per cento delle quali al di sotto dei 30 anni, Repubblica popolare a partito unico, quello che si chiama ancora (ancora, ancora!) Pcc (Partito comunista cinese).
Un immenso, dinamico ibrido i cui connotati Aspenia tratteggia così: «Una potenza economica globale, il Sistema del capitalismo comunista», una gigantesca nazione dove «pragmatismo politico, "cultura della convenienza", logica dei consumi occidentale incuneata in una struttura socialista fortemente ideologica», fanno della Grande Cina «un Paese politicamente definito "socialismo di mercato alla cinese", e culturalmente "socialismo postmoderno"». Il tutto sotto la guida della "quarta generazione" marxista-leninista con alla testa Hu Jintao.
Sostiene Aspenia.
L'occhio lungo dentro questa Cina ne vede, di cose: belle, brutte, bellissime, bruttissime, abbaglianti, oscure, contraddittorie, fantastiche, potenziali e no, tutte comunque ardue e colossali... Va bene. Gli esperti di prim'ordine che hanno collaborato al numero "cinese" della rivista concordano però, tutti, su un punto, piuttosto essenziale: «L'economia cinese è cresciuta a un tasso annuo dell'8-9% quasi per due decenni, conseguendo, come hanno riconosciuto le Nazioni Unite, il più grande e più rapido successo nella guerra alla povertà della storia dell'umanità».
Un enorme balzo della tigre in meno di quarant'anni, ma ancora insufficiente. Nonostante il record e l'immane sforzo, i poveri-poveri in Cina sono ancora il 10 per cento della popolazione (non meno di 150 milioni). Grandi dislivelli, anche drammatici, caratterizzano ancora le condizioni tra città e aree metropolitane e i territori interni, soprattutto le campagne; e tra regioni e regioni, con non pochi conflitti e tensioni sociali (cui non sarebbe estraneo, secondo gli analisti di Aspenia, un diffuso fenomeno di corruzione, soprattutto nei ranghi della burocrazia di Stato).
Una condizione non difficile da comprendere (e tutt'altro che da sottovalutare, proprio per le implicazioni sociali, umani e culturali che può significare). E possiamo aggiungere - per capire l'ordine di grandezza dei problemi della Cina di oggi, anno 2004 - che sono ancora almeno 700 milioni i contadini in condizione di pura sopravvivenza sull' immensa terra dell'ex Impero celeste.
Ciò semplicemente vuol dire che, nonostante l'enorme balzo della tigre, quasi il 70 per cento della popolazione cinese vive ancora in quelle sterminate aree rurali (o semi-urbanizzate) che sono rimaste indietro (praticamente escluse) dal nuovo standard industriale.
Un enorme problema, con 700 milioni sulla scena...
La Cina - questa la conclusione - resta un paese povero. Una nazione ancora debole (e tutt'altro che militarizzata).
Però una nazione in marcia: a differenza dell'India che «pur avendo un miliardo di abitanti non è riuscita vincere la battaglia contro la povertà», la Cina sta lì a dimostrare che «il fattore cruciale, nel destino dei Paesi, è la politica, non la popolazione».
E' anche errato, erratissimo parlare di "miracolo" cinese. Per il semplice fatto che il miracolo non c'è. Infatti la sbalorditiva transizione cinese è iniziata da oltre vent'anni - Aspenia la data dal 1979 - quando ha preso corso quello che la rivista definisce la "demaoizzazione", con la conseguente apertura al mercato (sia orientale che occidentale).
Il "caso" cinese; come si sa, è sotto esame, grandi dispute sono in corso, soprattutto nel mondo comunista. Ma è un argomento che qui non vogliamo trattare. Ci basta qui raccontare un po' quello che c'è, dentro il "miracolo" lungo vent'anni della Repubblica popolare cinese. Almeno 170 nuove città da 1 milione di abitanti create nell'ultimo ventennio; almeno 400 milioni di cittadini che si possono definire di ceto medio di tipo occidentale (Europa e Usa messi insieme), dei quali oltre 200 milioni decisamente affluenti (ricchi); almeno un milione e mezzo di studenti in ingegneria e materie scientifiche nelle università (sfornati 50 mila ingegneri all'anno, contro i 30 mila in Usa). C'è dentro un insonne e, per forza di cose, mastodontico, fervore di R&S, di Ricerca e Sviluppo; e ci sono dentro numeri da capogiro in fatto di potenzialità.
«Da molti punti di vista, la Cina è destinata a sostituire gli Stati Uniti come nuovo motore della crescita mondiale». E giù una selva di "numeri". Cina odierna come primo consumatore mondiale di materie prime, per esempio il 25 per cento del cotone, soia e acciaio, il 16 dell'alluminio, il 35 del carbone (e da qui al 2030 il consumo di petrolio è destinato ad aumentare del 100%, vale a dire la Cina sarà il primo consumatore mondiale di oro nero, con quel che segue).
Non basta. Secondo i dati industriali (2003), la Cina è stato il più forte produttore «di otto su dodici dei prodotti più diffusi dell'elettronica di consumo, con la produzione di circa la metà della produzione mondiale di lettore Dvd e macchine fotografiche digitali, più di un terzo di drive Dvd-Rom e personal computer; e circa un quarto di cellulari, tv a colori e palmari».
Ancora ancora. «In un suo studio recente, l'Ifc - l'ente della Banca mondiale che finanzia il settore privato - prevede che il valore dell'elettronica della Cina aumenti, di qui al 2005, da 34 a 80 miliardi di dollari. Verrà superata l'Europa (che arriverà a 73 miliardi) e cominceranno a essere insidiate le posizioni di Stati Uniti e Giappone».
E hi-tech e auto alla "cinese". Cellulari passati «in poco più di due trimestri da 190 milioni a 250 milioni, ed erano appena 85 milioni nel 2002; utenti di telefonia fissa da 300 milioni a 350, e due anni e mezzo fa erano poco più di 150 milioni; abbonati a Internet da 35 milioni a 42, erano 10 milioni nel 2000». Inoltre, «da parte sua il settore auto ha sfiorato un incremento dell'85%, dopo un progresso del 20% nel 2001 e del 56 nel 2002».
Telefonini iradiddio, nel solo 2002 ne sono stati venduti 65 milioni (China Mobile è ormai il primo operatore assoluto nel mondo di telefonia mobile per numero di abbonati). E quanto a Internet «si prevede che nel 2005 su 100 navigatori, 30 saranno cinesi (a fronte di 25 europei e 20 americani)».
La Cina è qui. I suoi salari restano bassissimi (anche in pieno boom tecnologico; purtroppo), giusto 1 centesimo di quelli Usa, ad esempio. E per far fronte al dramma della disoccupazione - quella vecchia e quella nuova, quella secolare e quella "moderna" - quella ad esempio arrivata dalle migliaia di fabbriche pubbliche fallite, o tragicamente in perdita, che hanno lasciato sul campo da 3 a 3 milioni e mezzo di senza lavoro - la leadership cinese della "quarta generazione" deve perciò poter camminare in fretta - molto in fretta - se vuole vincere la colossale, ineluttabile sfida.
La sfida di riuscire a creare almeno 20 milioni di posti di lavoro nel giro di pochi anni, praticamente da subito. La sfida di riuscire a creare, per poter proseguire sul cammino di macro sviluppo intrapreso, 300-350 milioni di nuovi posti di lavoro nel giro di 10-15 anni (per la serie la terra trema).
Sostiene Aspenia.
C'è poi da mettere in conto "l'istinto americano". Come unica "Potenza strategica" in grado di tenere testa agli Usa, il gigante Cina è da tempo nel mirino della Casa Bianca. Gli analisti di Aspenia la mettono così: «Gli Stati Uniti, come polo dominante dell'attuale sistema internazionale, hanno un interesse di fondo a che la crescita economica della Cina rallenti (il corsivo è nostro) nei prossimi anni». Magari a prezzo «di una nuova "guerra fredda" che potrebbe, fra l'altro, scaricarsi sul controllo di risorse energetiche di cui la Cina è fortemente carente».
E la leadership cinese della "quarta generazione"?
Lo sa.