giovedì 5 febbraio 2004

Emanuele Severino sul caso di Maria

Corriere della Sera 3.2.04
LA LEGGE DI MARIA
di Emanuele Severino


La chiamerò anch'io Maria, come i giornali. E, lo dico subito, mi auguro che non si arrivi al trattamento sanitario obbligatorio: non tanto perché riguarda chi non è in grado di decidere, mentre Maria ha deciso, ma perché esso dovrebbe essere applicato con la forza. Una donna dunque che grida e si divincola da chi la vuole afferrare per salvarla in una sala operatoria. Una violenza, questa di voler far vivere a ogni costo chi non ne vuol più sapere, che in fondo ha lo stesso volto e lo stesso cuore della violenza esercitata quando si uccide. Siamo sicuri, prima di muoverci, che a noi stiano a cuore proprio Maria e non piuttosto i nostri princìpi morali, religiosi, politici, perché ancora una volta siamo incalzati dall'ombra spaventosa del suicidio? E se quelle grida e quel divincolarsi non ci fossero, chi saprebbe capire se il silenzio di chi si lascia trascinare a una vita non voluta non tradisca un dolore ancora più profondo di quello di chi grida e si divincola? Ma è discutibile che si tratti di suicidio. Non lo sarebbe stato quando non esistevano sale operatorie. Non diciamo che sia suicidio, oggi, se, per farsi operare, Maria dovesse andare in capo al mondo o in cliniche al di fuori delle sue possibilità economiche. Chi se la sente di escludere che per Maria farsi amputare una gamba costituisca una pena ben maggiore del disagio che dovrebbe sopportare andando in capo al mondo o entrando in una clinica costosa? E se, come sembra, per Maria quella pena è maggiore di questo disagio, perché dovremmo pensare che stia tentando il suicidio? La domanda rimane aperta. Ora, è vero, noi scriviamo e lei muore. Ma, se ha deciso così, è perché, come tutti coloro che si uccidono, sente in un certo modo, cioè secondo una certa cultura che, come ogni altra, proviene, più o meno direttamente, da scritture, da libri (anche non letti). Per questo non credo che sia di cattivo gusto ricordare un mirabile Dialogo di Leopardi, quello che immagina tra Porfirio, che vuole uccidersi, e Plotino che lo esorta a non farlo. Porfirio, il grande discepolo dell' ultimo grande filosofo greco. A Plotino, che gli ricorda Platone, Porfirio dice subito: «Ti prego, Plotino mio, lasciamo da parte adesso Platone, e le sue dottrine, e le sue fantasie». E il Plotino di Leopardi sembra dargli ascolto. Ma l'argomento più forte che egli adduce è che Porfirio, uccidendosi, non ama coloro che lo amano e quindi il suo uccidersi è «il più schietto, il più sordido, o certo il men bello e men liberale amore di se medesimo, che si trovi al mondo». Che è un argomento ben debole, perché Porfirio potrebbe rispondere che è altrettanto sordido l'«amor di sé», cioè l'egoismo di coloro che, credendo di amarlo, non vogliono soffrire per la sua morte, in cui egli vede la fine delle proprie pene. Per Maria l'argomento è ancora più debole, perché non sappiamo da chi e come essa sia amata. E se, come sembra, il marito da cui è separata e che magari l'ama ancora, è d'accordo con lei, allora nessun Plotino potrà rimproverarle quel che rimproverava a Porfirio. Ma perché rifiutare le «fantasie» di Platone? Anche se la distanza tra Porfirio e Maria è abissale, perché voler ad ogni costo che Maria abbia della vita e della morte il senso dei benpensanti del nostro tempo, così sicuri della superiorità delle loro idee rispetto a quelle degli altri? Di fronte alle sue convinzioni sull'aldilà, il trattamento sanitario obbligatorio e tutte le leggi di questo mondo hanno ben poca importanza.