L'Unità 12.02.2004
Angelopoulos, magnifico storico
di Lorenzo Buccella
BERLINO L'affresco liturgico di una calligrafia che striscia sui fondali della grande storia. Dopo cinque anni di attesa, Berlino si fa lavagna per accogliere lo svolazzo visionario di una grande firma del cinema europeo. Theo Angelopoulos e il suo ultimo film che ieri ha calamitato per ben tre ore l'attenzione del concorso. "La sorgente del fiume", primo tomo di una trilogia che vuole scandire il diagramma di un bilancio storico e personale del secolo appena trascorso. Il novecento greco perlustrato attraverso la chiave drammaturgica di un legame d'amore che sboccia nel 1919, con l'esodo da Odessa causato dall'invasione dell'Armata Rossa per poi attraccare in un'America contemporanea. Sono le biografie individuali ad attorcigliarsi come edere al grande telaio della storia greca, scorticandosi nei suoi strappi drammatici, tra ritardi e accelerazioni. Il davanti e il dietro di una messinscena filmica che raccoglie singoli passi umani, li trasforma in modelli brechtiani, per poi farli inciampare nel bagno collettivo di conflitti e sopraffazioni. E così nella semplicità ossea, soltanto apparente, di questo viaggio che procede a stazioni, s'innesta una costellazione di referenze in grado di girare gli angoli alle immagini con risvolti sociali e politici.
Dopo la fuoriuscita da Odessa, nell'accampamento paludoso stanziato sull'estuario di un grande fiume, i profughi Heleni (l'italo-greca Alexandra Aidini) e Alexis (Nikos Poursanidis) potrebbero amarsi, se non fosse per il padre del ragazzo che, rimasto vedovo, s'invaghisce della stessa ragazza, pretendendola in sposa. L'ossessione del padre è tale da obbligare i due amanti a una fuga verso Salonicco ed è proprio su questo nuovo contesto urbano che calano le ombre degli sconvolgimenti degli anni '30. Unica consolazione per Alexis, il talento della sua fisarmonica che gli permette di campare con quattro soldi, tra altri musicisti costretti a usare un teatro come loro abitazione. Ma il morso più stringente della crisi che addenta il paese e la nascita di due figli imporranno alla coppia una separazione. Mentre un treno fa slittare orizzontalmente vagoni carichi di fascisti greci che sbeffeggiano Mussolini, lui salperà per l'America dei sogni, lei si sobbarcherà il peso di una guerra imminente. Invasioni e resistenze per una solitudine che col passare degli anni verrà traumaticamente acuita dalla perdita di tutte le persone a lei più care. E se Alexis, arruolatosi nell'esercito americano, muore a Okinawa, i due figli soccombono alla guerra civile, combattendo su fronti opposti con la divisa di un altro colore. Il dolore finale deborderà nell'urlo straziato di Heleni in cui viene risucchiata la coda tragica del film. E non è un caso, visto che la sintassi del film tira l'elastico di un destino, rintracciando il proprio archetipo nella tragedia classica.
Dall'Edipo Re ai Sette contro Tebe.
E se i sentieri narrativi sono la lingua sotterranea del film, come sempre, la bocca di Angelopoulos preferisce parlare per immagini. Una galleria di quadri in movimento che sotto un cielo grigio come il coperchio di una pentola alterna il «coro» di masse silenziose vestite in nero a filari di candide lenzuola. Grappoli di pecore impiccate a un albero e stanze chiaroscurali alla Rembrandt. E ancora abiti nuziali non consumati che rimangono nella profondità di paesaggi sommersi dalle acque di un'inondazione. Un vero e proprio palcoscenico visivo che per la sua natura ambulante storpia convenzioni spaziali e lascia scorrere dai pori un alito onirico. È un cinema che si fa visionario, adagiandosi all'interno di una scacchiera che moltiplica i suoi riflessi sugli specchi d'acqua e nei vetri delle finestre per andare ad abbattere le pareti della verosimiglianza. Con Angelopoulos si cammina lentamente, ma si viaggia lontano. Il tempo dilatato diventa la pancia di un cucchiaio che raccoglie e modella gli sguardi. A partire dai lunghi piani-sequenza che scivolano come eleganti lumache sullo schermo misurando i millimetri e portandosi dietro il guscio-mondo di un intero panorama. Simmetrie euclidee e giostre compositive per una punteggiatura che trova nella musica una nuova stampella d'appoggio. Più degli scarni dialoghi, sono proprio i violini e le fisarmoniche dei musicisti da strada a innervare le tappe del viaggio, disegnando gli zigomi a questa lunga e sofisticata elegia sul destino dell'uomo.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
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