venerdì 19 marzo 2004

scambio di persona?

Repubblica 19.3.04
QUELLE COSE CHE NON RIFAREI
intervista a Piergiorgio Bellocchio

Fortini ci smosse con una bella lettera
Con Grazia Cherchi l'intesa era perfetta
Vent'anni fa chiudeva "Quaderni Piacentini". Ecco il bilancio autocritico del fondatore
di SIMONETTA FIORI


Piacenza. Tutto, apparentemente, è come vent´anni fa. Piergiorgio Bellocchio con la sua faccia da ragazzo appena invecchiato, classe 1931, febbrile e irrequieto, molte sigarette, malmostoso verso il mondo intero, a cominciare da se stesso. L´eremo è quello piacentino, non la mitica sede di via Poggiali dove si facevano i Quaderni - ora una sorta di casa-biblioteca dove l´ex direttore conserva i suoi "oggetti smarriti", libri ormai introvabili - ma un affollato condominio a cinque minuti dalla stazione, perché «in un´Italia che s´è arricchita sono tra i pochi che si sono impoveriti». Della nobile e un po´ altezzosa famiglia culturale piacentina - Fortini, Cherchi, Fofi, Berardinelli e tanti altri - il più coerente ed appartato: un lungo silenzio interrotto da rigorose collaborazioni giornalistiche, da alcuni libri raffinati (Dalla parte del torto, Eventualmente, L´astuzia delle passioni) e nel 1985 dalla rivista Diario, scritta interamente da lui e da Berardinelli. «Avrei voluto titolarla Prima di crepare: mi parve di eccedere nel pessimismo, in realtà non lo fui abbastanza».
Tutto, apparentemente, come prima. L´ultimo numero dei Quaderni piacentini usciva nel 1984 e ora il convegno promosso "a vent´anni dal funerale" vuole mantenerne l´impronta: niente autocelebrazioni, sobrietà grafica nella locandina, i "padri storici" confusi ad anonimi relatori sotto i trent´anni, così come nei primi numeri della rivista gli inediti di Bertolt Brecht erano mescolati alle poesie di Vico Paveri, ferroviere di Piacenza. Squilla il telefono, sono figli e nipoti dei Quaderni Piacentini, fili spezzati che si riannodano, amici ritrovati. Un´avventura generazionale, ma anche un romanzo famigliare: una rivista che per oltre un ventennio - 1962-1984 - ha inciso su umori, gusti, inclinazioni della "nuova sinistra".
All´origine ci fu il suo incontro con Grazia Cherchi.
«Sì, Grazia: anche lei di Piacenza, anche lei borghese benestante e anche lei intellettuale irrequieta. L´avevo conosciuta nella seconda metà degli anni Cinquanta, lettrice onnivora e fervorosa. Anch´io all´epoca leggevo un libro al giorno, ma soltanto sdraiato sul letto: oggi m´addormenterei».
Cosa vi legava?
«C´era confidenza, amicizia, collaborazione. Un´intesa lieve, nutrita d´affetto: la ricordo allegra e quieta fino all´ultimo, nonostante gli esiti della Tac. Eravamo complementari, ci si capiva. Anche nella direzione dei Quaderni Piacentini: era bravissima nel coltivare i rapporti con i collaboratori, un autentico talento, che poi avrebbe sviluppato nell´editoria».
E lei, Bellocchio?
«No, io mi stufavo. Dinanzi al collaboratore riottoso, subito m´arrendevo. Non so psicologizzare. Preferivo occuparmi di cose pratiche, campo in cui Grazia non eccelleva. Contabilità, distribuzione, spedizioni: mi ricordo ancora i tagli nelle mani a furia di far pacchi».
Una rivista anomala: senza una redazione, ma con una felice tradizione conviviale.
«Jon Halliday, un caro amico inglese, diceva che la nostra era una rivista fondata sui pranzi. Ospitavamo spesso anche Giovanni Pirelli, che in fondo ci era grato: eravamo gli unici a non chiedergli soldi».
E poi c´erano i fratelli Bellocchio.
«Ero il più grande. Quando mio padre morì mi ritrovai capofamiglia, giovane e avventuroso. Marco frequentava il centro sperimentale di cinematografia, Alberto era sindacalista della Cgil e Antonio faceva il magistrato. Con i beni di famiglia decisi di finanziare i Quaderni Piacentini - i primi due numeri tra il marzo e l´aprile del 1962 - e poco dopo il film di Marco, I pugni in tasca: pensavo che ciascuno avesse diritto di giocarsi le sue chances. Mio padre era un avvocato colto e di grande liberalità: non gli sarebbe dispiaciuto».
Con quali ambizioni fondaste la rivista?
«Volevamo pungolare, rompere, creare nuovi linguaggi, noi interpreti d´un marxismo critico che mescolava la scuola di Francoforte con il materialismo di Sebastiano Timpanaro e l´originale riflessione di Cesare Cases. Fummo una voce rilevante della "nuova sinistra", indagavamo i fermenti oltre confine, anticipammo il Sessantotto. Erano anni drammatici e fervidi. L´Italia stava cambiando faccia. E sulla scena internazionale c´era la guerra algerina, la decolonizzazione in Africa, la nuova sinistra americana, la rivoluzione cubana, il Vietnam. Abbiamo certo fatto errori, preso qualche abbaglio. Non ci siamo mai fatti molte illusioni sul sistema sovietico, per questo abbiamo investito troppo sulla Cina: drammaticamente sbagliando».
Prima ancora l´incontro con Fortini: burrascoso l´epilogo, ma fecondo il sodalizio.
«Con Grazia e i miei fratelli, alla fine dei Cinquanta, avevamo fondato un circolo a Piacenza, Incontri di cultura, a cui parteciparono intellettuali di ispirazione eterogenea, Ernesto De Martino ed Enzo Paci, Danilo Dolci e Carlo Bo. Venne soprattutto Franco Fortini, con cui si stabilì un rapporto importante, centrale».
Lettera agli amici piacentini, scritta nel 1961, è un´ideale introduzione ai Quaderni.
«Soltanto in seguito Franco volle darle quel titolo, perché forse siamo stati quelli che meglio l´avevano compresa e messa a frutto. Eravamo in pieno boom economico, anche in Italia s´affermava l´industria culturale. Fortini ci invitava a resisterle, rimanendo estranei all´"imbestiamento collettivo". Bisognava scegliere tra "progresso neocapitalistico, elettronico, riformistico" e "ricerca della verità": il primo portava "scatti di stipendio, volumi di filologia, premi letterari"; la seconda procurava integrità morale. Scegliemmo questa seconda».
Ma questo radicalismo non fu una scelta sbagliata? Tra gli errori della nuova sinistra non ci fu anche l´assoluta refrattarietà alla cultura riformista?
«Sì, ci fu un certo eccesso nel criticare il centro-sinistra e il suo programma di riforme. Soltanto in seguito avrei recuperato l´anima liberalgobettiana da cui poi discendo: negli anni Cinquanta ero vicino ai radicali di Pannunzio. Il nostro atteggiamento si rivelò impolitico, anche nella successiva demolizione del Pci. Non capivamo allora che occorre essere sì intransigenti nel modo di chiedere, ma non bisogna domandare la luna: Matteotti, che pagò il proprio rigore con la morte, era un socialista di destra».
Voi volevate cambiare il mondo.
«Il nostro è stato un peccato di ingenuità: credevamo che fosse possibile un salto più lungo. L´entusiasmo intorno a Kennedy, Krusciov, il Concilio Vaticano II, ci sembrava una melassa indigesta. O forse eravamo troppo preoccupati di venire meno a certi principi. In conclusione, siamo stati abbastanza miopi: ma di presbiopia è piena la vita».
Alcune vostre rubriche entrarono nella leggenda, come Libri da leggere, libri da non leggere.
«Non sono orgoglioso di quella rubrica, che avrebbe richiesto maggiore cautela. Buona l´idea originale, che però non era nostra ma dei surrealisti».
E il seguito?
«Finimmo per stroncare libri che non avevamo letto come la Lolita di Nabokov o La vita agra di Bianciardi: errori colossali. Presto divenne un tiro al bersaglio, ma non sempre la mira era giusta. E c´è chi ne porta ancora le ferite: Enzo Siciliano non mi ha mai perdonato. Attaccammo anche il Gruppo 63, ma in fondo a Sanguineti o a Guglielmi non dispiaceva essere della partita. Ricordo ancora le lettere rabbiose di chi si sentiva escluso: dai libri da leggere ma anche dai libri da non leggere».
Stroncavate mostri sacri come Moravia, Pasolini, Eco.
«Sì, tuttavia non siamo mai stati maramaldi. Ho bocciato Il nome della rosa perché era brutto, non perché avesse successo. Ma non ho avuto particolari problemi con Eco: il vero guaio sono gli echiani, i suoi seguaci».
Eravate spocchiosi?
«Sì, un po´ arroganti. La parola giusta è iattanza, ostentazione di presunte sicurezze».
Altre autocritiche?
«Pur essendo la meno dottrinaria tra le riviste politiche di allora - toglievo tutte le citazioni di Marx dalla testata degli articoli - oggi mi piacerebbe trovare qualche inchiesta in più e qualche teoria in meno».
Siete stati accusati di ritardo nel denunciare le derive terroristiche del movimento.
«Obiezione ingiusta: la rivista rappresentò una voce di moderazione rispetto alle istanze rivoluzionarie. Eravamo la destra dell´estrema sinistra. Cercavo tuttavia di comprendere le cause del terrorismo. Il mio era un atto d´accusa verso una classe dirigente incapace».
Parole molto aspre, forse troppo. E oggi?
«Non ho più le parole».
Rimpianti?
«Forse in questi anni avrei potuto scrivere di più. Ma se anche molti altri avessero seguito il mio esempio, vivremmo meglio. Meno oberati da carta inutile».

UN CONVEGNO
LA TRIBÙ SNOB DELLA SINISTRA


A VENT´ANNI dalla morte, un convegno sui Quaderni piacentini che si propone una chiave critica: Ridefinire la politica, sabato, al Teatro de Filodrammatici a Piacenza. La giornata è dedicata alla memoria di Grazia Cherchi. Vi partecipano alcuni dei padri nobili e dei collaboratori - Bellocchio, Fofi Berardinelli, Luca Baranelli, Carlo Donolo, Marcello Flores, Marco Revelli - mescolati a giovani studiosi curiosi di quella esperienza: i più antichi s´interrogheranno sull´oggi, i giovani sulla rivista. Un´occasione per ripercorrerne la storia: i primi due fascicoli uscirono nel marzo e nell´aprile del 1962: tiravano circa 250 copie e costavano cento lire. L´impronta di novità proveniva dai commenti sociali: tra i collaboratori - oltre ai direttori Bellocchio e Cherchi - figurano Fortini, Giovanni Giudici, Fofi, Edoarda Masi, Mario Isnenghi, Alberto Asor Rosa. Il salto di qualità a partire dal 1965: tra i contributi più rilevanti, Un colloquio con Ernesto De Martino di Cesare Cases, la rassegna di Renato Solmi su La Nuova sinistra americana, più tardi Considerazioni sul materialismo di Timpanaro, e poi il saggio Contro l´Università di Viale. Le pubblicazioni cessarono nell´84.