Europa 10 aprile 2004
Gli Aztechi in mostra a Palazzo Ruspoli a Roma
di Simona Maggiorelli
La religione, la scienza , la scrittura, come strumento divino nelle mani di pochi. Ingegnose architetture urbane e possenti immagini di templi sugli altopiani del Messico centrale. Nell’arte azteca il segno di una natura sovrastante e incontrastabile che ha potere assoluto di vita e di morte sugli esseri umani. Un potere che il popolo azteco cercava di mitigare attraverso continue offerte di statue votive e riti apotropaici. Ma è anche vero che nel percorso della mostra romana s’incontra la rotonda bellezza di statue della fertilità e la morbidezza di conchiglie scolpite nella dura pietra. Colpisce che l’esaltazione della vita e della bellezza in terracotte policrome sia sempre accompagnata dall’immagine di coltelli di ossidiana per disumani sacrifici di prigionieri. Ossa incise e dipinte, di uomini, donne, fatti prigionieri e sacrificati. E l’assoluto orrore di occhi spalancati e fissi su un orizzonte misterioso e oltremondano. Uno sguardo atterrito che promana ininterrotto dalle monumentali statue in pietra disseminate nelle sette sezioni di Palazzo Ruspoli a Roma dove, fino al 18 luglio è allestita la mostra I tesori degli Aztechi. Una rassegna , curata dal direttore del Museo Nacional de Antropologìa di Città del Messico Felipe Olguìn con Carla Alfano, che riunisce nel palazzo romano della Fondazione Memmo 350 reperti provenienti dal museo di Città del Messico e dal sito archeologico del Templo Mayor, la più grande piramide della capitale azteca, Tenochtitlan ( “luogo del fico d’india, dai frutti abbondanti che sorgono su una pietra”) rasa al suolo nel giro di tre mesi dai conquistadores spagnoli nel 1521. Un tempio scoperto alla fine degli anni ’70, sotto un quartiere popolare di città del Messico, e da cui provengono una quarantina di pezzi- statue, oggetti sacri, calendari, codici scolpiti- scampati alla devastazione degli uomini di Cortès e ai successivi roghi dei missionari; reperti di recente riportati alla luce grazie a una serie di nuove campagne di scavi. Frammenti di una civiltà azteca, che fino al XVI secolo era rimasta chiusa, senza scambi con popoli di diversa cultura. Una cultura che la mostra romana ci racconta rimasta intonsa, fedele a se stessa, con sviluppo quasi circolare dello stesso stile artistico attraverso i due secoli di vita e di storia degli Aztechi, dal 1300 al secondo decennio del 1500, quando, nonostante una lunga tradizione militare e la fama di popolo sanguinario che aveva sottomesso gran parte delle altre popolazioni autoctone, furono rapidamente sterminati dalle armi e dalle malattie virali portate dagli europei.
Europa 10.4.04
La retrospettiva di Alighiero Boetti a Bergamo
di Simona Maggiorelli
Con la sua riflessione sul dialogo e sulla complessità del rapporto con altro, con la sua appassionata esplorazione delle culture diverse da quella del logos occidentale, l’opera di Alighiero Boetti, si presenta oggi con una forza di straordinaria attualità. A dieci anni dalla sua scomparsa la Galleria di Arte Contemporanea di Bergamo gli dedica una personale composta da un centinaio di opere, alcune delle quali inedite. Quasi tutto, s’intitola la rassegna, aperta fino al 18 luglio. Una retrospettiva che il direttore della Galleria bergamasca, Giacinto Di Pietrantonio, ha voluto ordinata cronologicamente, per ripercorrere e poter seguire passo dopo passo l’evoluzione dell’artista nell’arco di trent’anni, dall’arte povera degli anni 60 fino alle sperimentazioni degli anni 90. Al centro, il tema del superamento dei confini e il ruolo della comunicazione nella civiltà della riproduzione di massa, a cui Boetti opponeva l’utilizzo di tecniche artistiche sempre nuove e cangianti, tanto da far pensare di trovarsi davanti alle realizzazioni di artisti diversi. Così ecco i giochi di grafismi, le esplosioni di colore, ma anche gli inediti incontri fra pittura e video, scultura e installazione, che anticipavano già negli anni 80 quello che sarebbe stato poi il boom dell’interdisciplinarità e della multimedialità del decennio successivo. Fulcro della retrospettiva e, in parte anche origine del titolo della mostra, una serie di arazzi colorati, densi di immagini, intitolati semplicemente Tutto e commissionati ad artigiani afgani durante il lungo periodo in cui Boetti visse in Afghanistan. E poi grandi opere a parete, che tentano di rendere l’emozione del volo e la scoperta di paesaggi sterminati, opere di grande libertà e leggerezza. Accanto ai disegni dei primi anni sessanta e ai primi esperimenti con materiali industriali di recupero - da Zig Zag e Mimetico a Niente da vedere, niente da nascondere del 1969 che esplorano la serialità delle forme, l’ordine, il disordine, il rapporto fra intero e frammento - fino al Fregio della Biennale di Venezia del 1990 , alle intense esplorazioni del colore di opere come Storia naturale della moltiplicazione, Cimento dell'armonia e dell'invenzione, preziosi arazzi come mappe e testi ricamati, ma anche grandi lavori tracciati a biro, e in tecniche miste su carta, con lettere. Alla forma classica di un dizionario, si rifà il catalogo della mostra, organizzato per lemmi e voci (in totale 52), redatte da critici come Angela Vattese e il direttore della Biennale Francesco Bonami, ma anche da antropologi come Marc Augé studioso dei non luoghi e poeti come Nanni Balestrini. Da settembre prossimo fino a fine anno, la mostra sarà alla Fondazione Proa di Buenos Aires.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»