giovedì 15 aprile 2004

Guido Ceronetti: i miti

La Stampa 15.4.04
Guido Ceronetti


E se fossero state verità viventi, attuali sempre, messaggi degli Dei agli uomini, quelli che abbiamo rimosso perfettamente, riducendoli a miti, che nelle nostre lingue significano semplicemente prodotti d’immaginazione, verità poetiche, dunque il contrario di quel che consideriamo obbligatoriamente vero? E’ tanto se accettiamo come verità il mito che è stato accolto dalla psicanalisi con valore di simbolo e come definizione psicologica. Uno degli esempi classici di questo capovolgimento del senso del mito per metterlo a disposizione della mentalità appiattita dalle correnti positivistiche, idealistiche e nichilistiche del pensiero contemporaneo ce lo dà il povero Edipo. Appena si dice Edipo la mente, anche la più rozza, associa il nome ai sogni d’incesto con la madre e agli atti incestuosi di figli maschi con la loro mamma descritti dagli analisti. Ma il vero Edipo sarebbe caduto dalle nuvole: questa volgarizzazione triviale del suo mito gli farebbe alzare il bastone bianco. I filologi sanno bene che Edipo è altro, e molto di più, ma per renderlo tollerabile al linguaggio, alla comprensione d’oggi, di massa e televisione, Edipo dev’essere identificato con chi, nelle cronache, violenta la madre e poi va in discoteca a riderne con le anfetamine.
Mi domando - cercando infaticabilmente, anche se il mio passo non è più da maratoneta, mani e fili per tirarmi fuori dal labirinto della storia, al di là di quel che appare e dei fatti bruti - se nei lontani miti non sia contenuta qualche spiegazione per niente rigettabile o da collocare nei magazzini culturali (loculi per una quantità di sepolti vivi), di quanto abbiamo visto e vediamo accadere sotto i nostri occhi, e rispondo di sì, può venirne un aiuto, una consolazione... E neppure mi sento solo in questo: se tante ondate di ricerca, di pensiero rivelativo battono con voracità contro le mura ipotetiche, invisibili e sommerse di Atlantide significa che Atlantide è Qualcosa e che ci possiamo sentire cittadini di Atlantide anche alla Magliana, alle Vallette, alla Bovisa o nel Bronx peggiore, per corrispondenze di destino, perché il mito atlantideo s’incastra con le confuse linee del nostro tracciato esistenziale. Gli abitanti di Atlantide, raggiunta una mai vista potenza tecnologica, perirono tuffati in un oceano di crimini, ubriachi di potenza e incapaci di districarsi dalle spire dei loro misfatti, in un’aria appestata... Non importa collocare Atlantide dove affondò il Titanic o nel triangolo delle Bermude: è qui, è il nostro brodo quotidiano, i suoi giornali sono i nostri da novanta centesimi, le sue mura sono le nostre case...
E come mai si corrispondono perfettamente le età brahmaniche del mito indiano e le età esiodee nelle Opere e i Giorni? Ellade e Gange? Infrolliti, accecati dalla fissazione al tempo lineare, abbiamo trasferito la verità del tempo ciclico nelle bare culturali - ma guarda, il tempo ciclico non è morto! Esiodo visse otto secoli prima della nostra éra, e spartiva le età del mondo in aurea, argentea, bronzea, eroica e ferrea. E qui commenta: «Mai io avrei voluto trovarmi con la quinta stirpe di uomini: ma o morire prima o nascere dopo. Ora infatti è la stirpe di ferro: né mai di giorno cesseranno di distruggersi per la fatica e per la pena, né mai di notte: e gli Dei daranno pensieri luttuosi, e Zeus distruggerà anche questa razza di umani, quando ai nati biancheggeranno le tempie...».
I cicli dei vati indiani sono quattro: satya (oro), treta (argento), dvapara (bronzo), kali (ferro). Insieme formano un mahayuga, un Grande Ciclo. L’epoca contemporanea, che nei calcoli dell’India non è limitata agli ultimi due secoli, o all’ultimo, è di fine-kaliyuga, il punto terminale di un Ciclo, immensa, incalcolabile voragine di tempo. E vivere in kaliyuga finale non è un’allegria, mentre la potenza di Atlantide che abbiamo costruito per dominare la fatica, il male e la morte ci sta sgranocchiando e calpestando con denti e zampe di infuocato drago.
Ed è altrettanto vero, visto in questa cruda luce, quanto Dostoevskij dice nell’Idiota: che la bellezza salverà il mondo. Non lo salva dalla sua finale degenerazione e disgregazione etico-fisica, ma come sogno. Il sogno immortale della Bellezza genera Età dell’Oro, ne anticipa, ne presagisce la presenza nell’Invisibile, è un faro che mai si spegne, un farmaco contro la paura.