mercoledì 23 giugno 2004

Cina

Corriere della Sera 23.6.04
Diario Cinese
LO SVILUPPO CHE RESPINGE LA DEMOCRAZIA
Un viaggio nel Paese del boom economicoDa Tienanmen al «miracolo» Ora la Cina aspetta la politica
C’è il boom, la generazione dei contestatori è al potere nella stampa e nel business Ma il Partito è indietro sui tempi dell’economia e la corruzione alimenta il dissenso
di Francesco Giavazzi


PECHINO - Sulle impalcature di bambù dei grattacieli in costruzione a Shanghai è appesa la gigantografia di Fang Hongin, il nuovo direttore di Dragon Tv, la televisione di Stato di Shanghai. Alcuni anni fa, a Pechino Fang conduceva il talk show televisivo più seguito in Cina, con il quale ogni settimana esplorava i limiti di tolleranza delle autorità; ma quindici anni fa, nella primavera del 1989, Fang manifestava a Tienanmen insieme a decine di migliaia di studenti che chiedevano più democrazia, almeno all’interno del Partito comunista cinese. A Tienanmen c’era anche Guo Shuqing, oggi vicegovernatore della Banca centrale, una delle persone dalle quali dipende la decisione se mantenere il cambio fisso con il dollaro, oppure rivalutare il renminbi. Anche Hu Shuli appartiene a quella generazione: dopo le prime esperienze nella stampa del partito, la giornalista che l’ Economist ha definito «la donna più pericolosa della Cina» oggi dirige Caijng , una rivista economica che ogni due settimane pubblica inchieste sulle collusioni e la corruzione di imprenditori privati e funzionari pubblici. Ma sarebbe sbagliato pensare che il successo di alcuni dei giovani di Tienanmen, e queste esperienze di informazione apparentemente libera, siano il segno di un Paese che sta entrando nella democrazia. Le autorità cinesi consentono che Caijng si occupi della corruzione (in realtà, non rivelando molto di nuovo e limitandosi a registrare ciò che i cittadini osservano quotidianamente).
Ma nel contempo le stesse autorità escludono che nel 2008 il nuovo Parlamento di Hong Kong possa essere eletto, una brutta notizia per chi sperava che Hong Kong potesse costituire un laboratorio per la transizione democratica di tutta la Cina. (Per la verità le autorità hanno escluso elezioni nel 2008, ma hanno lasciato intravedere la possibilità di elezioni la volta successiva, nel 2012). Ho piuttosto l’impressione che Fang Hongin, Hu Shuli, lo stesso Guo Shuqing, partiti da Tienanmen, abbiano via via assimilato una filosofia che Yongtu Long, colui che negoziò l’ingresso della Cina nel Wto (l’Organizzazione mondiale del commercio) descrive con queste parole abbastanza crude: «Il primo diritto umano è uscire dalla povertà. In quindici anni abbiamo sottratto alla povertà 200 milioni di persone; 700 milioni di cinesi oggi vivono in abitazioni servite dalla corrente elettrica, un lusso dal quale quindici anni fa erano escluse. Per questo la nostra priorità è la crescita; tutto il resto, francamente è secondario».
Crescere non significa solo uscire dalla povertà. Venticinque anni fa, prima delle riforme di Deng Xiao Ping, la distribuzione del reddito in Cina era più egualitaria che in Svezia; oggi vi è molta disuguaglianza. Non solo tra città e campagne, tra le province occidentali e quelle che si affacciano sulle coste dell’Oceano Pacifico, ma anche nelle città più ricche, dove ogni giorno arrivano migliaia di contadini alla ricerca di un lavoro (il flusso dalla campagna alla città è stimato in 120 milioni di persone nei prossimi dieci anni). Oggi il grafico che descrive la distribuzione del reddito cinese assomiglia più al Brasile che alla Svezia. Ma più disuguaglianza vuol dire anche più opportunità: diventare ricchi oggi in Cina continua a essere molto difficile, ma non è più impossibile, altrimenti non sarebbero tanto numerosi i ragazzi che la sera affollano i bar del centro di Shanghai, ormai più simili ai pub londinesi di South Kensington che a quelli di Milano.
Ma davvero la Cina può fare a meno della democrazia? In un articolo pubblicato alcuni anni fa, «Le democrazie illiberali», Fareed Zakaria allora direttore della rivista americana Foreign Affairs , contesta la priorità data alla democrazia, intesa come la possibilità di scegliere la classe politica tramite libere elezioni. Il mondo è pieno di Paesi apparentemente democratici, nei quali governi «democraticamente eletti» calpestano le libertà individuali: dal Perù alla Sierra Leone, dal Pakistan alle Filippine, alla Russia di Vladimir Putin. Le elezioni servono a poco se poi i governi democraticamente eletti limitano l’indipendenza della stampa e della magistratura. «C’è più libertà a Shanghai che a Mosca» dice una collega di Tsinghua, la migliore università cinese. Probabilmente ha ragione anche se, accanto alla democrazia illiberale di Putin, vi è la straordinaria esperienza dell’India, un Paese che cresce altrettanto rapidamente della Cina, ma che nelle elezioni del mese scorso ha messo in dubbio questo modello e soprattutto la nuova diseguaglianza che esso comporta. Molti ritengono che dopo il cambiamento di governo, la crescita indiana rallenterà: è probabile, ma forse gli elettori hanno guardato più lontano e si sono chiesti quale società vogliono lasciare ai loro figli.
La Cina è priva di strumenti politici che consentano di porsi queste domande. È per questo motivo che io penso che Pechino non possa mettere in soffitta il problema della democrazia. Anzi, penso che questo sia il nodo dal quale dipende il futuro del Paese. Innanzitutto perché il regime, nonostante le battaglie di Caijng e nonostante la pena di morte, ha dimostrato di non essere in grado di ridurre la corruzione, oggi il fenomeno del quale i cinesi più si lamentano. La diseguaglianza può essere accettata, ma non se è il frutto della corruzione. E poi perché senza cambiamento politico il Paese rischia di perdere la propria deriva.
Francesco Sisci, il direttore dell’Istituto italiano di cultura in Cina, è uno degli osservatori più attenti del Partito comunista cinese: molti leader della nuova generazione, lo stesso Guo Shuquing, erano suoi compagni di università nella Pechino degli anni ’80: «Dopo la scomparsa di Deng il Partito e la Cina non hanno più un dittatore benevolente con l’autorità necessaria per decidere. L’Ufficio politico del Comitato centrale oggi comprende oltre venti persone e ogni decisione richiede l’unanimità. Per quelle più importanti serve un consenso ancor più vasto, che può coinvolgere fino a 3 mila membri del Partito». In questi mesi l’attività principale del Partito è la preparazione dei documenti che saranno discussi e approvati dal prossimo congresso, convocato per l’autunno del 2007. Può una potenza economica del XXI secolo procedere con questi tempi? La divaricazione tra i tempi della politica e quelli dell’economia fa sì che il Partito non riesca più a controllare un Paese che ormai procede in modo autonomo.
Come nei secoli in cui l’imperatore e la corte di Pechino erano deboli, le province vanno avanti da sole. Il Partito non è più in grado di ridistribuire il reddito tra province ricche e povere, ma ha anche perduto la possibilità di controllare la crescita. Io non penso che l’economia cinese sia surriscaldata: come lo può essere un’economia che ha di fronte a sé un’offerta di lavoro praticamente infinita, dove non esistono i sindacati e i salari sono determinati dal reddito contadino che è poco oltre il livello di sussistenza? Ma anche se lo fosse non vi sarebbe quasi nulla che il governo centrale potrebbe fare per rallentare la crescita. In un’economia nella quale non esiste il mercato finanziario, i tassi di interesse sono pressoché irrilevanti; per rallentare la domanda bisogna controllare direttamente il credito. Ma il direttore della filiale di Guangzhou della China Construction Bank, la più grande del Paese, non risponde al suo presidente che sta a Pechino, ma al governatore della sua provincia. L’unico strumento rimasto al governo centrale è il tasso di cambio: Pechino potrebbe decidere di rivalutare, ma non lo farà. Innanzitutto perché l’economia non è surriscaldata e poi perché i cinesi sono ben consci del fatto che gli squilibri dell’economia mondiale non nascono a Pechino ma a Washington, e lì vanno corretti.
Le difficoltà del processo decisionale all’interno del Partito, e per riflesso del governo, inducono qualcuno a dire che «l’unico modo per andare avanti è delegare il potere tramite un’elezione: se l’eletto non va bene, alle prossime elezioni lo cambiamo». Ma il cambiamento fa paura. «In trenta anni, dal 1949 al ’79, abbiamo fatto ogni sorta di esperimenti. Il risultato? La povertà e 50 milioni di morti», mi dice un amico cinese; «nel 1976, quando le manifestazioni della Primavera di Pechino hanno aperto la strada al ritorno di Deng al potere, abbiamo detto basta: il capitalismo sarà un sistema imperfetto, ma è meglio dei morti e della povertà. Oggi nessuno ha più voglia di pensare a un cambiamento». Come non capire un mio coetaneo che nell’anno in cui io mi iscrivevo all’università veniva mandato a «rieducarsi» in campagna? E tuttavia la chiave del futuro della Cina secondo me è proprio questa: come trovare il modo di passare alla democrazia.