Corriere della Sera 23.6.04
DOCUMENTI L’epopea delle aviatrici sovietiche che combatterono nel cielo di Stalingrado durante la Seconda guerra mondiale
E le streghe tornarono, sulle macchine volanti
di Silvio Bertoldi
«Streghe della notte»: così, con una definizione forse più ammirativa che denigratoria, i tedeschi ribattezzarono le aviatrici russe del 588° reggimento da bombardamento, che nel 1943 imperversavano nei cieli di Stalingrado, durante le notti fiammeggianti che incombevano sull’assedio della Werhmacht. Nessun esercito in guerra, dal 1939 al 1945, ha avuto reparti aerei da combattimento composti esclusivamente da donne. Tranne i russi e credo che, a tutt’oggi, non fossero in tanti a saperlo. I russi arruolarono nell’Aeronautica militare le volontarie provenienti dagli aeroclub del tempo di pace, le equipararono agli uomini, formarono con esse tre reggimenti (bombardamento notturno, caccia, bombardamento in picchiata) e le impiegarono «alla pari» su tutti i fronti, dal 1941 al 1945, l’anno che vide i reparti delle squadriglie femminili superstiti atterrare vittoriosi a Berlino.
Non vi fu nulla di simile nell’aviazione americana né in quella inglese. E, tranne il caso notissimo dì Hanna Reitsch, la donna che collaudò la V2 e infranse il blocco aereo di Berlino per raggiungere Hitler nel bunker, nemmeno in quello tedesco. Soprattutto colpisce l’assoluta uguaglianza di impiego, di doveri e di perdite delle aviatrici russe: i sacrifici «maschili» che affrontarono, il prezzo di sangue che pagarono, la loro consapevolezza di battersi per difendere la patria invasa.
Di questa straordinaria e unica avventura dell’eroismo femminile probabilmente avremmo continuato a non sapere nulla se Marina Rossi, titolare della cattedra di storia della Russia all’Università di Trieste, con anni di ricerche e con la raccolta delle testimonianze di quelle veterane ancora in vita, non ne avesse ricostruito la storia, con un libro affascinante.
Così sappiamo che tutto cominciò grazie all’entusiasmo d’una giovane donna molto bella, molto intelligente, che studiava musica e canto e che all’età di 19 anni, nel 1931, decise che solo il cielo sarebbe stato il suo destino. Si chiamava Marina Raskova, era figlia di musicisti, dunque niente la portava all’ambiente che sarebbe stato il suo. Ma quelli della sua giovinezza erano in Russia anni di grande fervore per il volo, fiorivano gli aeroclub, frequentati anche da ragazze affascinate dalle imprese degli assi che volavano con i Tupolev, gli Ilyuscin, i Jakovlev. Marina Raskova si iscrisse, ebbe il brevetto di navigatrice e riuscì a farsi ammettere all’Accademia aeronautica, prima donna nella storia del suo Paese. Divenne ufficiale, allo scoppio della guerra era maggiore e aveva alle spalle un lungo palmarès di trasvolate e di voli Mosca-Estremo Oriente, che ricordano quelli dei nostri Ferrarin e De Pinedo.
Ottenne dalle autorità militari di poter dar vita al primo reparto femminile d’aviazione, successivamente cresciuto fino a tre reggimenti, addestrati a Engels, in una base segreta sul Volga. Il loro primo impiego fu nei cieli del Donec e del Donbass, quindi su Voroscilovgrad, su Stalingrado e nel Caucaso. Si alzavano in volo di notte, su allarme, i riflettori della contraerea tedesca le inseguivano nel buio, quando le centravano venivano abbattute. Con i loro apparecchi da caccia scortavano le colleghe dei bombardieri, sfidando in duelli aerei i Messerschmidt tedeschi, talvolta vincendo, talvolta precipitando in fiamme. Toccò anche a Marina Raskova, caduta il 4 gennaio 1943 sul fronte di Stalingrado, in una tremenda bufera di neve: ma già nel marzo successivo due appartenenti alla sua squadriglia la vendicavano, attaccando 42 bombardieri germanici e abbattendone due.
Le superstiti hanno raccontato la loro vita: «Di sera arrivavano la benzina e le bombe e tutta la notte eravamo impiegate a bombardare». Era una esistenza durissima, sempre con l’alea della morte, ma restavano donne: «Le nostre mani e le nostre gambe gelavano, le giacche di pelliccia non riuscivano a scaldarci. Eppure, durante le soste in aeroporto si scherzava, si rideva... chi suonava il piano, molte scrivevano diari. Le mie compagne erano ragazze belle, intelligenti, che amavano sognare».
Quei diari parlano anche di prove fisicamente al limite: «Dieci volte andata e ritorno, dieci volte! Dieci volte ti sparano, ti illuminano con i riflettori, vedi come ti ammazzano gli amici, rientri, riparti... Lo sfinimento era tale che anche i piloti e gli ufficiali di rotta si addormentavano in volo oppure non riuscivano a dormire per qualche giorno... Per farci rimanere sveglie ci concedevano a volte 100 grammi di vodka o di qualche altra bevanda alcolica».
Il crollo del comunismo ha contribuito a cancellare molte memorie di una guerra che, iniziata patriotticamente, era stata mitizzata dalla deformante ideologia staliniana. Delle «streghe della notte» sono rimasti forse solo i loro ricordi e quel patetico raduno che ogni anno il 2 maggio, nell’anniversario della fine della guerra, le riunisce nel giardino del teatro Bolscioi a Mosca. In patria ebbero allora riconoscimenti, medaglie, alcune di esse la decorazione di «eroe dell’Unione Sovietica». Fuori della Russia, il silenzio.
Di donne aviatrici di guerra, solo Hanna Reitsch era destinata a conservare la sua fama anche dopo il crollo tedesco. Delle «streghe della notte» l’unico a sapere pare fosse stato il re d’Inghilterra, il padre di Elisabetta II. In segno di ammirazione, mandò al governo russo un certo numero di orologi d’oro perché fossero consegnati in suo ricordo alle aviatrici. Non li videro mai.
Il libro: Marina Rossi, «Le streghe della notte», ed. Unicopli, pagine 191, 16 euro
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