mercoledì 23 giugno 2004

la ragione filosofica, per la sua povertà
ha sempre avuto bisogno della stampella della «magia»

Corriere della Sera 23.6.04
ANTICIPAZIONE
Un saggio indaga i legami mai recisi tra il pensiero razionale e quello esoterico. Con alcune scoperte sorprendenti
Mente di filosofo, cuore di mago

Aristotele: l'idea dell'etere lo avvicina ai motivi ricorrenti del pensiero magico
Sant'Agostino: scorge netta trinità il mestiero mistico che concilia l'Uno e il molteplice
Immanuel Kant: nella sua estetica la bellezza suscita la scintilla divina che tutto tiene
di CESARE MEDAIL


Chi più di altri, tra i filosofi, ha contribuito alla riscossa della magia, dopo che l’Illuminismo pareva averla sconfitta? Sembra un paradosso, ma fu proprio Immanuel Kant, simbolo della svolta antimagica del tardo Settecento: fu lui a sancire i limiti di una ragione alla quale è preclusa ogni costruzione metafisica. Lo sosteneva Schopenhauer, primattore di quella rivincita magica: fu la coscienza dei limiti razionali, infatti, a spianare la via al grande «salto oltre la ragione». Che a rilanciare il pensiero magico sia stato Kant può apparire contraddittorio; ma la storia delle idee è fitta di momenti paradossali, i più affascinanti, se chi li racconta sa cogliere i retropensieri, i fili di raccordo più o meno esili sospesi fra mondi che si vorrebbero lontani, se non antitetici. E’ il caso del filosofo Massimo Donà, autore di "Magia e Filosofia" (Bompiani), un saggio controcorrente dove si dimostra che «per secoli non vi sono state linee di confine fra magia e filosofia» e che «la magia non è estranea al pensiero contemporaneo», come avverte Armando Torno nella prefazione.
Oggi siamo portati a considerare magia l’esercito di terapeuti invasati, santoni mercenari e cucinieri di malefìci, ai quali milioni di persone ricorrono per reazione a un mondo dove il dominio della tecnica azzera ogni anelito trascendente. Ma è un antico malinteso. Il vero mago, spiega Donà, rimedia alle risposte sempre parziali della ragione, aiuta l’uomo a salvarsi dal naufragio esistenziale e volge a suo vantaggio le potenze di una realtà dove tutto - il divino, l’umano e il mondo - è legato da una «forza» universale, di cui si trova traccia fin dai sistemi magico-religiosi egizi o caldei e che ritroviamo, più o meno mascherata, nella modernità.
Che cosa vuol dimostrare Donà? Che magia e filosofia sono due aspetti diversi, a volte divergenti ma mai in opposizione, di una stessa ricerca, della stessa ansia di indagare i misteri ultimi; una tesi che si rafforza guardando alle grandi rotture fra magia e filosofia avvenute nei secoli. Che spesso si rivelano apparenti.
Prendiamo Aristotele, il cui razionalismo empirico aveva depurato il sapere di ogni riferimento misterico: dagli orfici a Pitagora, fino a Platone. Eppure, di quella tradizione, qualcosa gli restava: come l’idea di un etere - perfetto, ingenerato, incorruttibile - che circola fra gli elementi, li tiene insieme e garantisce l’unità del tutto. Idea propria del pensiero magico, che sopravvisse all’Illuminismo aristotelico per riesplodere secoli dopo con i neoplatonici (Porfirio, Proclo, Giamblico).
Un’altra grande rottura con l’universo magico coincise con l’avvento del Cristianesimo, che rifiutò aruspici, astrologi, negromanti e sibille, proclamando la responsabilità individuale contro il determinismo pagano. La condanna delle pratiche magiche (e relative teorie) fu una costante, da Costantino al Medio Evo. Eppure, enunciando il mistero trinitario nel suo capolavoro De Trinitate , Agostino diede la più mirabile delle risposte a quello che per i maghi era il mistero per eccellenza: come conciliare l’Uno, il principio assolutamente unico, con la realtà molteplice. Il Dio di Agostino, infatti, per quanto unico, racchiude nella Trinità il principio dinamico che genera la molteplicità delle forme naturali; e la presenza del divino nella natura fu cantata negli inni al creato innalzati dallo stesso Agostino nel De vera religione o da Francesco nel Cantico delle creature .
Se per secoli, dunque, magia e filosofia hanno camminato parallele, ora il pensiero magico scorre parallelo alla religione. Al di là della caccia alle streghe. Nel Rinascimento, la cornice platonico-ermetica non fu in antitesi con il cristianesimo: paganesimo e religione apparivano come momenti di un unico percorso che porta ai misteri ultimi. Non a caso, a cominciare dalla pittura, fu data evidenza al ruolo simbolico dei Magi, messaggeri dell’antica sapienza; una sorta di passaggio di consegne all’Uomo-Dio, che molti salutarono come il più grande dei maghi, autore di un processo alchemico inaudito: la trasfigurazione dell’umano e del divino nell’Incarnazione. Così, Marsilio, Pico, Nicola Cusano, i rinascimentali che riscoprirono il filone neoplatonico nel Corpus Hermeticum attribuito al mitico Ermete Trismegisto, intesero il mondo, l’uomo e Dio come un unicum dove tutto si lega grazie alla forza universale dell’«amore», che il vero mago deve saper usare per ricondurre la realtà divisa all’unità divina.
Si direbbe quasi che il pensiero magico si trasformi lungo i secoli, permeando di volta in volta modelli filosofici estranei o avversi. Se osserviamo, per esempio, il grande momento di rottura rappresentato dalla svolta empirico-scientifica del Seicento, troveremo ancora tracce di magia. Lo stesso Francesco Bacone, anticipatore del metodo induttivo, prendeva le distanze dai misteri, ma considerava la magia una scienza, subordinata alla metafisica. Copernico non temeva di invocare Ermete, e Keplero intuiva segrete corrispondenze fra le strutture della geometria e quelle dell’universo. Insomma, negli stessi protagonisti della svolta razionalista si udiva una eco della tradizione magica, come nel caso del primo grande scienziato moderno, Isaac Newton, che ricorse all’alchimia insoddisfatto della chimica. Il padre della gravità si rivolse all’Ars Magna per ricavare un’immagine «in scala» delle attrazioni che governano il macrocosmo, convinto che le trasmutazioni dell’alambicco riflettessero le leggi universali.
Come abbiamo visto all’inizio, il filosofo che mise i paletti attorno alle ambizioni del pensiero razionale, aprendo la via al «salto oltre la ragione», fu proprio Kant, simbolo della rottura antimagica dei Lumi. Eppure, anche il grande di Königsberg trovò un posto non secondario, l’Estetica, per il pensiero magico: quando afferma che dall’esperienza della bellezza può emergere la scintilla divina. La bellezza consente di sperimentare l’«unità originaria che tiene tutto insieme»: così, nel magico operare dell’artista, Kant vede una via di salvezza. Siamo al poeta-mago, idea che avrebbe attraversato il romanticismo da Goethe a Novalis, a Shelling: come nell’alchimia, l’artista trova la via dell’Assoluto nell’atto creativo che trasmuta se stesso e la materia.
Nella cavalcata di Donà sfilano giganti del pensiero moderno (Fichte, Hegel, Nietzsche, Heidegger), per i quali la componente irrazionale non è solo retropensiero; sfilano rapidi militanti dell’esoterismo come Gurdjieff, Guénon, Evola per finire con Castaneda, che carpì agli stregoni messicani un sistema cognitivo fondato sulla forza che agirebbe nell’universo; e con Elémire Zolla, che ripropone ai moderni le infinite risorse inscritte nella sapienza degli antichi maghi e quindi dei mistici, rivivendole nella propria personale esperienza contemplativa. E ancora Freud e Jung, i cui metodi razionali li portano a scoprire l’inconscio, a scendere cioè nella dimensione oscura, primordiale, terreno magico per eccellenza.
Resta solo da chiedersi perché l’altro volto dei filosofi, quello magico, continui a manifestarsi anche presso chi lo respinge. La risposta, forse, viene da lontano, perché l’ansia di andare oltre la finitezza dei sensi è inscritta nei cromosomi dell’ homo sapiens fin da quando, nelle grotte di Altamira e Lascaux, dipingeva figure animali che fungevano da porta, da tramite con le potenze invisibili.