venerdì 15 ottobre 2004

mostri dal Novecento
Foucault, nazismo, freudismo

Repubblica 15.10.04
Ma chi decide sulle nostre vite?
Esce Bíos di Roberto Esposito, lo abbiamo intervistato
Dal nazismo alla democrazia, ecco come è stata declinata
Una parola su cui Foucault aveva riflettuto oggi torna di attualità
ANTONIO GNOLI

Napoli. È da un po' che fra gli addetti ai lavori circola la parola "biopolitica". A dispiegarne la portata fu negli anni Sessanta Michel Foucault. Poi quella parola, che nel corso del Novecento ha avuto varie e drammatiche declinazioni, ha subito un lungo inabissamento, per riemergere in questi anni incerti, quando la politica, con i suoi costrutti teorici, con la sua storia, è sembrata aver perso il proprio baricentro. A Giorgio Agamben va il merito di aver riaperto la questione. Toni Negri ha fornito della biopolitica una lettura militante. Infine Roberto Esposito, con un importante libro che esce in questi giorni da Einaudi - Bíos, sottotitolo Biopolitica e filosofia, (pagg. 214, euro 18,50) - offre la prima importante sistemazione, sia in chiave storica che concettuale.
Allora professor Esposito perché dovremmo credere che la "biopolitica" è oggi un modo per entrare nelle questioni più pertinente di altri?
«Per la semplice ragione che, sempre più spesso, non si vive e non si muore in base a ciò che si fa, ma a ciò che si è biologicamente. Se si pensa a tutta la vicenda delle decapitazioni operate dai terroristi da un lato, e dall´altro alle torture, senza voler stabilire un parallelo fra le due cose, vediamo che oggi si fa politica iscrivendola sui corpi, attraverso il sangue».
Un ruolo non secondario svolgono i media.
«Indubbiamente, quando vediamo le immagini di una decapitazione circolare in internet dobbiamo concludere che sono saltate le tradizionali categorie politiche moderne».
Perché?
«Perché quello che ci si presenta è una combinazione di barbarie premoderna e di postmodernità, di spettacolo di sangue e di circolazione delle immagini sugli schermi di tutto il mondo».
Alcuni studiosi, fra cui lei, fanno coincidere l´esperienza biopolitica con i grandi totalitarismi del Novecento, in particolare con il nazismo.
«Il nazismo è il punto culminante della biopolitica. È l´idea che si tenta di realizzare nei laboratori scientifici, con esperimenti medici, per cui la vita è definibile solo in base a un criterio biologico: cioè con il richiamo al corpo, alla razza e al sangue».
Con quali conseguenze?
«Nel momento in cui il nazismo stabilisce una soglia tra una vita che va salvaguardata integralmente, perché essa riassume i valori massimi, e una vita che può invece essere sacrificata in nome d´una visione ariana, siamo dentro alla tanatopolitica. La conseguenza allora è che la vita si rovescia nel suo contrario, nella morte».
La biopolitica si colloca nel punto in cui le categorie moderne della politica - sovranità, ordine, diritto, libertà - entrano in crisi. È così?
«In un certo senso. Anche se è proprio con Hobbes, cioè con il filosofo che ha dispiegato la politica nei punti alti della modernità, che il problema biopolitico della conservazione della vita viene posto».
Ma non risolto.
«Diciamo che Hobbes risolve la questione in chiave politica, istituendo un grande dispositivo sovrano che implica categorie di diritto individuale, di libertà e rappresentanza. Fra vita e politica c´è ancora la mediazione delle istituzioni».
Ma le sembra davvero ridimensionata questa mediazione?
«Nel Novecento è venuta spesso meno».
A parte i totalitarismi, la politica ha continuato a rivendicare le sue mediazioni. In fondo si parla di diritti individuali, umani, eccetera...
«Ma l´effetto è sempre più ridotto. In realtà in tutto il mondo i punti caldi della politica stanno a ridosso immediato della vita. Non solo o semplicemente nel rapporto tanatopolitico di vita e morte, vita e guerra, ma anche alla base della questione sanitaria, della fame nel mondo, dello sviluppo della qualità della vita. Oggi ritengo che l´unica vera forma di legittimazione nella politica sia data proprio dalla vita».
L´impressione però è che la biopolitica serva più a spiegare le decisioni negative della politica che non quelle positive.
«È vero solo in parte. È vero, per esempio, se si valuta la posizione del migrante. Le grandi operazioni di polizia internazionale guardano al migrante come a una figura senza identità giuridica, fornita solo della sua nuda vita. Non è vero, se si pensa che larga parte dei discorsi politici hanno al centro la conservazione e la sicurezza biologica della vita».
Proverei a insistere su questo punto. Non sono tanto sicuro che le grandi questioni che la politica deve affrontare siano svolte senza l'ausilio e la mediazione delle grandi istituzioni.
«Riflettevo su ciò che sta accadendo negli Stati Uniti. Ora, a parte alcune notazioni che riguardano il rilevamento delle impronte, un provvedimento chiaramente biopolitico determinato anche da uno stato di necessità, pensi alle prossime presidenziali. Ebbene, è indubbio che i gruppi sociali ed etnici - ispano-americani, irlandesi, italiani - hanno sempre più peso rispetto alle istituzioni dello Stato. La politica in Occidente si fa sempre più in base a caratterizzazioni etnico-sociali. E sempre meno utilizzando il rapporto tra cittadini e Stato. La società e lo Stato si intrecciano, si accavallano, si confondono. Così come sotto un altro profilo, pace e guerra, polizia e apparato militare, lasciano cadere o ridimensionano quelle distinzioni che costituivano la spina dorsale della modernità».
Mentre lei accennava al rilievo che oggi rivestono i gruppi etnico-sociali, veniva in mente quella scena originaria, fra gli altri descritta da Freud in Totem e Tabù, nella quale il potere è visto nascere come una congiura dei figli contro il padre. Trova che lì ci sia un elemento biopolitico?
«Ritengo di sì. Le due categorie di fratellanza e di paternità cadono in un ambito biologico. Ora, quella scena originaria è interpretata da alcuni in chiave laica: finisce il regime sovrano dei padri e nasce la democrazia dei fratelli. Personalmente la vedrei in maniera più problematica».
In che senso?
«Quei fratelli oltre a uccidere il padre, lo divorano e con ciò lo incorporano. Questo vuol dire che la democrazia nasce introiettando un elemento bio e tanatopolitico. I valori morali che ne conseguono nascono dal complesso di colpa determinato da quella uccisione e da quel divoramento. Questo significa anche che tutta la scena democratica, della quale si parla come una fonte che si autolegittima, è qualcosa che ha in sé un fondo oscuro».
Qui si giunge a un punto essenziale: la biopolitica mostra l'elemento negativo insito nella democrazia.
«Più che mostrarci gli elementi negativi, ci fa vedere le faglie interne alla democrazia. Se la democrazia è usata in senso formalistico, la biopolitica decostruisce quel formalismo. E ci dice: guardate, quegli individui che rappresentano una testa e un voto sono una scena che nasconde un´altra scena più forte, attraversata dai conflitti e dai rapporti di forza. Da un lato, la biopolitica non nega la democrazia ma la decostruisce, dall´altro essa assegna alla democrazia il suo ruolo più importante: la legittimazione non delle forme ma della vita».
È una idea di democrazia che va ben oltre l´universo dei valori che conosciamo e pratichiamo.
«E perché? Non è detto che la democrazia debba essere necessariamente un metodo astratto di gestione o di distribuzione del potere. Anzi, la biopolitica ci dice che la democrazia funziona solo se si riferisce effettivamente ai contenuti di vita, al modo di essere di persone costituite da corpi e da carne, oltre che dalla possibilità astratta di votare per un partito o per un presidente».