domenica 3 ottobre 2004

un convegno sulle immagini

Repubblica 3.10.04
Immagini
Hanno occupato il mondo e trasformato le nostre vite
dall'arte al cinema
Aby Warburg e Alfred Hitchcock, due modi di affrontare la storia dello sguardo
Un convegno ad Alghero discutendo di immagine, verità e comunicazione In che misura siamo condizionati da quello che vediamo?
ANTONIO GNOLI

Le immagini coinvolgono la nostra vita, ne fanno parte in vari modi. In esse a volte ci perdiamo, con esse ci identifichiamo, anche quando non vorremmo e proviamo a sottrarci al loro potere. Le immagini hanno una relazione con la verità e con il comunicare. Ma non sappiamo quanto siano vere e che cosa davvero ci comunicano.
Che cosa si prova di fronte a una immagine come il crollo delle Twin Towers o alle due Simone liberate? Un flusso di emozioni scorre davanti ai nostri occhi. Ma è giusto dire "davanti"? Quanto siamo noi che guardiamo o quanto siamo guardati da quel nucleo imprescindibile e misterioso che si lega allo sguardo?
Una molteplicità di accadimenti si tesse e si articola nelle forme visibili. Proviamo a pensare in che cosa siamo immersi, con quale tempo visivo ci riconosciamo o siamo riconosciuti. Ed è come se il soggetto, quell´entità filosoficamente certa fino a mezzo secolo fa, non avesse più un codice di accesso alle cose. Una password per entrare nel mondo. Il mondo è una sequenza infinita di immagini.
Immagini di gioia, o di tristezza. Immagini fredde o travolgenti. Immagini che coinvolgono il nostro passato o aperte sul nostro futuro. Immagini irrappresentabili. Immagini indelebili che segnano un mondo o un´epoca. Immagini vere o false. O semplicemente virtuali. Immagini che ci parlano della realtà o che la nascondono, o la stravolgono. Feticci, simboli, emblemi. Segni. E poi l´arte e il suo contrario. Immagini ferme e in movimento. Foto, cinema, televisione. Comunque le giriamo, le immagini coinvolgono la nostra esistenza. Diamo loro un senso oppure lo ricaviamo da esse.
Il mito amava parlare per immagini. La filosofia ne ha fatto un percorso argomentato della sua storia. È Platone, con il mito della caverna, ad aver dato all´immagine e al suo rapporto con la verità la risonanza più acuta.
A volte, si parla e si racconta per immagini. Esse attraversano la scienza, l´arte, la poesia, la letteratura. Le immagini possono comunicare con una intensità sconosciuta. Quando Proust deve alludere al ricordo, è l´immagine della madeleine che lo evoca e lo richiama. Perfetta epifania di un mondo che non c´è più, ma che ancora persiste: ecco il potere dell´immagine sul soggetto. Che ossessionò fra gli altri Aby Warburg e Alfred Hitchcock, nomi non evocati a caso.
Ma dove risiede la legittimità delle immagini, in che cosa consiste la sua forza? Le immagini pongono un problema di verità e di comunicazione. Rinviano a un interdetto e a una origine: iconofilia e iconoclastia. Due sponde ermeneutiche che il mondo contemporaneo conosce benissimo nelle sue numerose varianti. Se ne è discusso in un convegno che si è tenuto giorni fa ad Alghero - organizzato da "spazidelcontemporaneo", con l´ausilio dell´assessorato alla Cultura e al Turismo. Vi hanno partecipato Massimo Donà, Giulio Giorello, Vincenzo Vitiello, Paolo Flores d´Arcais, Silvano Tagliagambe, Sebastaiano Ghiso, Domenico Fiermonte, Andrea Tagliapietra e Enrico Ghezzi. Più che un convegno, a dire il vero, è stato un piccolo e interessante festival filosofico che gli organizzatori vorrebbero trasformare in appuntamento annuale. Del resto la filosofia in Italia moltiplica la sua presenza nelle piazze: dopo Modena, Rimini, Milano (con il Pier Lombardo), anche Roma sta pensando per il prossimo anno ad allestire una casa delle filosofie. È un segnale del modo in cui il pubblico segue, con attenzione e intensità, autori e temi spesso non facili. La riprova la si è avuta ad Alghero dove la parte del dibattito nella quale il pubblico si è lasciato coinvolgere, è stata altrettanto importante degli interventi dei relatori. Che hanno avuto il pregio di essere molto liberi e poco accademici.
Si è insistito, lo ha fatto Massimo Donà, sull´idea che l´immagine è sempre qualcosa di originario. Qualcosa che ha a che fare da sempre con la verità. Ma in che senso? C´è la verità da un lato e la sua immagine dall´altro, oppure l´immagine e la verità sono tutt´uno? Ma se immagine e verità sono la stessa cosa che ragione c´è di distinguerle? E poi: stiamo parlando della verità o delle verità possibili o molteplici? Se la verità è una e una sola - diciamo il Dio dei monoteismi - essa non può essere rappresentata. Il divieto di dare l´immagine di Dio si spiega con il fatto che Dio può solo essere l´immagine di se stesso. Ma, d´altra parte, solo se quel Dio riesce a vivere nella ricchezza molteplice delle immagini esso trova se stesso nell´altro. Il miracolo trinitario del cristianesimo, come ha ancora osservato Donà, nasce qui, da questo evidente paradosso.
Anche per Vitiello l´immagine fonda la verità. Ma non c´è un prima e un dopo. Qui il senso del fondare, o meglio dell´origine, si ricava da una analisi che mette a frutto le riflessioni di Vico e Husserl. Nel corpo come immagine, nel gesto visibile che esso traccia risiede l´origine della verità. In quell´impasto di storia che è ancora natura e di natura che sta per diventare storia, sulle soglie della civiltà, l´immagine promette la sua potenza.
Ma l´origine di qualcosa o, più ambiziosamente, del tutto, è o no un gesto arbitrario, anche se necessario, si è chiesto Giulio Giorello. Si dice, si scrive, si racconta che l´origine dell´Europa sia nella Grecia e nella Roma antiche. Tanto nel logos filosofico, quanto nel diritto. Nella parola e nella forza. Ma siamo certi che lì sia rintracciabile il nostro certificato di nascita e non magari più indietro nel tempo in quella civiltà sumerica nata tra due celebri fiumi? È la provocazione con cui Giorello ha esordito nel suo intervento.
Al mercato delle idee filosofiche ciascuno sceglie a quali costellazioni affidarsi, a quali verità e immagini rifarsi. Si parte sempre da qualcosa. Che sia un origine collocabile nella storia o una pura congettura ontologica, o epistemologica come nella riflessione che Flores ha condotto sulle verità di fatto (sono sempre in grado, come essere finito, di darmi una conoscenza accertabile) si ha l´impressione che una nostalgia del fondamento abbia avvolto anche se involontariamente parte degli interventi.
Intendiamoci. Nessuno oggi può seriamente sostenere che il pensiero sia alla ricerca di un punto zero, senza incorrere in devastanti obiezioni. Ma è pur vero che quel pensiero ha lasciato una traccia, una immagine di sé dalla quale ciascuno a suo modo riparte. È dall´ambiguo lascito ontologico che molte delle riflessioni contemporanee dipanano i loro fili concettuali. E tutto questo si è profilato talvolta come una nostalgica esigenza di verità, in parte simile agli effetti della perdita dell´eden.
In che modo, ci si può chiedere, le immagini concorrono al formarsi di questa nostalgia? Se sono costitutive della verità, c´è il rischio che su loro ricada il peso di quella perdita. Esse "fondano" la nostra visione del mondo e insieme la allontanano drasticamente dalla nostra percezione. Si può capire il senso di una tale ambigua oscillazione richiamando due autori che nulla hanno in comune: Aby Warburg e Alfred Hitchcock.
È noto che Warburg coltivò a lungo il progetto di creare una sorta di "Atlante" delle immagini. Una simile idea, che sfociò nel progetto Mnemosyne, aveva in sé qualcosa di inaudito: le immagini, dall´antichità a oggi, potevano comunicare tra loro. E per mostrarlo Warburg concepì una specie di montaggio cinematografico che presupponeva che le immagini si contagiassero in maniera epidemica: ogni immagine sopravviveva spiegando il senso delle altre. Mnemosyne fu denso di conseguenze. La più vistosa fu di abolire le distanze temporali rompendo drasticamente con l´idea che le immagini hanno legittimità e importanza solo in una scala gerarchica.
Naturalmente Warburg non pensava che le immagini fossero indistintamente tutte uguali e che non intervenissero questioni di gusto, di estetica e di ricostruzione a rilevarne il peso. Ma quello che intuì fu che solo connettendole, quasi fossero un organismo vivente, una rete disposta orizzontalmente, esse avrebbero potuto sconfiggere la loro morte.
Ciò che Warburg non vide, che non poteva vedere, è che quella idea che le immagini sono disponibili si sarebbe concretizzata totalmente con il cinema, con la televisione e infine con internet.
Solo un uomo con l´esperienza di Hitchcock avrebbe voyeuristicamente saputo cogliere questo passaggio. Che potremmo riassumere così: nel momento in cui tutte le immagini sono virtualmente disponibili, allora non sono esse ad essere guardate, ma sono loro che di volta in volta guardano noi. L´immobilità del protagonista de La finestra sul cortile, suggerisce una palese costrizione che lo porta apparentemente a frugare nella vita di un condominio, in realtà ad esserne totalmente condizionato.
Non è questo in fondo il destino dei media? La disponibilità con cui le immagini scorrono e avvolgono la nostra vita ci fanno sospettare una ricchezza e una pienezza di sguardi che poche epoche in passato hanno conosciuto. Tutto è a portata dell´occhio. Ma il riflesso si sta facendo opaco. La proliferazione delle immagini indebolisce lo sguardo, ne fraintende il senso. Se ciò che c´è, esiste solo in quanto teatro di una scena fatta di immagini (il caseggiato hitchcokiano, il mondo letto e interpretato attraverso il cinema e i media), allora è molto più complicato rivendicare un primato della realtà. Dove essa occulti se stessa, a quale legislazione segreta risponda non è facile rispondere. E nessuna drastica dichiarazione di intenti a suo favore oggi potrà riconsegnarla ingenuamente alle nostre meditazioni.