Liberazione 5.12.04
Il secolo cinese
di Salvatore Cannavò
Anche l'Italia, capitanata da Ciampi e dal presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, è sbarcata in Cina alla ricerca di affari e profitti. La spedizione italiana che ieri è atterrata a Pechino, forte di oltre 200 imprenditori, segue infatti la scia dei viaggi commerciali che ormai vedono la capitale cinese come tappa obbligata. Un viaggio analogo è stato compiuto lo scorso mese dal presidente francese Chirac mentre nei prossimi giorni anche il cancelliere tedesco, Schroeder, è in visita a Pechino (ed è il suo sesto viaggio).
Il fatto è che la Cina continua a crescere inesorabilmente: il suo Prodotto interno lordo nel 2004 è salito del 9%, nel 2005 le previsioni annunciano un +8,1% a fronte di una crescita media europea di meno del 2% e con un'inflazione piuttosto contenuta (+2,5%). Come ricordava ieri lo stesso Ciampi nell'articolo scritto per Il Sole 24 Ore, negli ultimi venti anni il Pil di quel paese si è quintuplicato e l'ammontare complessivo degli investimenti mondiali in Cina ammonta a 500 miliardi di euro. Di questa cifra l'Italia possiede solo 320 milioni, lo 0,32% del totale, una cifra modesta che gli imprenditori italiani vogliono cercare di colmare.
Ma dietro questi risultati non ci sono le aperture al mercato operate dai dirigenti cinesi quanto la politica del lavoro, o meglio la "non politica", che il governo di Pechino ha deciso di seguire. Il "miracolo cinese" è dovuto a salari miseri e a condizioni di lavoro al limite della schiavitù. Basta citare il particolare riportato ieri da Repubblica: nella fabbrica della Fiat-Nanjing a Nanchino il direttore aziendale è anche... il capo del sindacato. Ma basterebbe osservare il numero e la frequenza degli incidenti sul lavoro che falcidiano gli operai cinesi, e i minatori su tutti, per rendersi conto delle ignobili condizioni del lavoro che sorreggono l'enorme crescita del gigante asiatico.
Questa dimensione ipertrofica rende la Cina un soggetto economico sempre più importante e quindi un attore geopolitico di prima grandezza. Un ruolo che il governo di Pechino assolve con estrema spregiudicatezza: mentre firma i contratti per gli Airbus europei non disdegna di fare lo stesso con la Boeing statunitense; apre un canale economico diretto con l'America latina, mettendoci dentro un rinnovato rapporto con Cuba, e tratta con Germania e Francia la fine dell'embargo militare seguito al massacro di Tien An Men; firma accordi per lo sfruttamento del petrolio iraniano e fa lo stesso con il gas del Kazakistan.
Un tale protagonismo non può non avere effetti e ripercussioni nei confronti della più grande potenza mondiale, gli Usa, che si appresta a inaugurare il secondo mandato di George W. Bush. La politica statunitense non è ancora stabile nei confronti della Cina. A una fase piuttosto aggressiva - bombardamento dell'ambasciata cinese a Belgrado, il caso dell'aereo-spia, le tensioni su Taiwan - è seguita una leggera distensione motivata da un elemento finanziario decisivo: gli Usa hanno bisogno di un apprezzamento della moneta cinese, lo yuan, per sostenere il proprio deficit commerciale. Per questo blandiscono i vertici cinesi con l'obiettivo di un loro sempre maggiore inserimento nell'economica globale. Ma si tratta di un rapporto ambiguo e contraddittorio. In realtà i due colossi sono destinati a contrapporsi: la crescita progressiva dell'economia cinese ha leggi proprie da rispettare che non collimano con quelle che regolano i bisogni dell'economia statunitense. Anche per questo è lecito attendersi un nuovo spostamento a destra dell'amministrazione Bush (come, del resto, lasciano intendere i continui cambiamenti all'interno del suo governo).
Assistiamo a un fenomeno curioso: in fondo, nel corso della contrapposizione ideologica e politica che ha caratterizzato il dopoguerra e che ha visto gli Usa affrontare l'Unione Sovietica e la Cina, ha prevalso una politica della "coabitazione". La contrapposizione con l'Urss non ha mai avuto conseguenze esplosive - tranne i numerosi conflitti locali - mentre le relazioni con la Cina comunista furono regolate, in funzione antisovietica, con il viaggio di Nixon a Pechino nel 1971. Oggi, invece, si profilano nuove contrapposizioni. La vicenda Ucraina - che nasconde sullo sfondo un conflitto tra l'allargamento della Nato e la politica espansiva russa - fa dire al Corriere della Sera che siamo «quasi» in «guerra fredda», mentre Usa e Cina disegnano due blocchi economici destinati a entrare in rotta di collisione. Lo spessore di questa relazione è ampiamente simboleggiato dal probabile acquisto cinese dell'Ibm, simbolo incontrovertibile del capitalismo informatico. Ma si tratta di una rotta di collisione in cui la politica e l'ideologia non c'entrano per nulla: c'entrano invece interessi contraddittori fra due economie - una compiutamente capitalistica, l'altra in corso di formazione - in concorrenza tra loro e bisognosi di spazi per espandersi. All'inizio del secolo scorso si chiamavano imperialismi e il loro conflitto diede vita allo scontro più sanguinoso che l'umanità abbia conosciuto. Il secolo cinese si apre all'insegna di uno scenario simile.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»