domenica 5 dicembre 2004

storia
una interpretazione della Rivoluzione francese

Corriere della Sera 5.12.04
Diritti dell’uomo e giacobinismo, l’eredità ambigua della Rivoluzione francese
Il 1789, culla della libertà e dei suoi nemici
di PIERRE MILZA

Il 1989 è stato l’anno del bicentenario della Rivoluzione francese e quello della caduta del Muro di Berlino. I due eventi non sono privi di correlazione. L’Europa, spaccata in due dalla guerra fredda combattuta fra democrazia e «dittatura del proletariato», scopriva, o riscopriva, con la ritrovata libertà, un sentimento di appartenenza a quella che Mikhail Gorbaciov aveva chiamato «casa comune». I popoli che si erano ribellati pacificamente ai loro governi satellizzati, e per i quali la storia era stata un lungo cammino dall’assolutismo al fascismo e dal fascismo al comunismo, potevano concedersi un regime rispettoso di quei «diritti dell’uomo» di cui la Rivoluzione francese sarebbe stata la prima a proporre il modello ai «popoli fratelli» del vecchio continente. È così, perlomeno, che si interpretava il rapporto del presente con il passato nel Paese che della presa della Bastiglia aveva fatto la sua festa nazionale. Le cose non sono evidentemente tanto semplici. Di quale «modello» si parla e di quale «rivoluzione» si tratta? Da gran parte della sinistra, anche quella della fine del XIX secolo, repubblicana e moderata, la Rivoluzione è stata a lungo considerata come un «blocco». Secondo Georges Clemenceau, poteva solo essere globalmente accettata o rifiutata. Innanzitutto, perché costituiva un formidabile movimento di liberazione dell’intero popolo e poi perché era stato necessario difenderla contro tutte le forme di reazione, sia all’interno sia all’esterno. Certo, non venivano negati né il Terrore rappresentato dalla ghigliottina né i massacri di massa perpetrati in Vandea e altrove. Ma si riteneva che tali «eccessi» fossero dovuti alla preoccupazione legittima ed esclusiva di salvare la Rivoluzione, dunque la democrazia.
Il discorso dei testi scolastici, formatosi all’epoca della Repubblica trionfante, ha diffuso ampiamente nel corpo sociale questa interpretazione del fatto rivoluzionario. La stessa destra repubblicana, considerando che la «vera Rivoluzione» fosse quella del 1789-1791 (gli anni delle conquiste fondamentali), interrotta dall’esperienza del Comitato di salute pubblica, ha finito con l’adottare più o meno l’idea che, se fra il 1792 e il 1794 c’era stato un dérapage , uno sbandamento, la causa più importante si dovesse ricercare nella risposta all’aggressione esterna.
Sostenendo il contrario di una storiografia dominata a lungo da universitari marxisti o marxisteggianti, i lavori di François Furet hanno dato un’interpretazione ben diversa del dérapage - l’espressione è sua ed è del 1965 - della Rivoluzione. La Rivoluzione non è un «blocco» più di quanto non sia una rottura con quel che precede. Si inserisce in un lungo processo che comincia con l’opera centralizzatrice della monarchia assoluta e si conclude in Francia alla fine del XIX secolo, con il trionfo della democrazia liberale. «Ciò che chiamiamo "Rivoluzione francese" - scrive Furet - quell’evento catalogato, collocato nel tempo, magnificato come un’aurora, è soltanto un’accelerazione dell’anteriore evoluzione politica e sociale».
Ammettiamo pure che la democrazia liberale, che si preoccupa di parità giuridica, uguaglianza delle possibilità di successo, rispetto della persona umana e della sovranità del popolo, di cui i francesi continuano - talvolta con una certa arroganza - a rivendicare la paternità, possa effettivamente essere scelta come «modello» per l’edificazione di una «casa comune» europea o planetaria. Ma allora dobbiamo anche riconoscere che la Rivoluzione francese, nella sua fase giacobina e terroristica, fu la matrice di un’ideologia e di una pratica di governo che costituiscono un dirottamento dei principi della filosofia dei Lumi, fino a trasformare questi ultimi nel loro contrario. I socialisti francesi del XIX secolo hanno rivendicato tale filiazione giacobina e dopo di loro, fin dal 1903, Lenin e anche Trotzkij. L’immagine del Terrore come strumento della lotta di classe contro la borghesia è al centro della loro ammirazione per Maximilien Robespierre e il giacobinismo. E qui siamo alle origini stesse del totalitarismo, nella versione bolscevica. Infatti, per i compagni di Lenin, non si tratta più soltanto di instaurare un governo di salute pubblica e di eliminare i «nemici di classe» in una prospettiva di difesa dalla controrivoluzione. Dal precedente giacobino, dai discorsi di un Robespierre, di un Saint-Just o di un Marat, essi traggono l’idea che il Terrore sia uno strumento positivo per instaurare un buon regime e rigenerare gli uomini e la società. Gli uni e gli altri raccomandano un attivismo rivoluzionario sterminatore, legato a un concetto manicheo della politica, all’assillo del complotto controrivoluzionario, all’apparizione di una religione civile, laicizzata, ma portatrice d’intolleranza quanto lo sono le religioni di cui essa pretende di infrangere l’influenza sulla società.
Quindici anni dopo il crollo del comunismo in Europa, questa matrice giacobina del totalitarismo leninista - e degli aspetti simmetrici del fascismo, di cui una delle radici attinge alla stessa fonte - non è completamente scomparsa dall’orizzonte ideologico dei contemporanei.
In Francia, come in Italia, i nostalgici del Terrore, i superstiti non pentiti dell’epoca in cui «mirare al cuore dello Stato» capitalista sembrava loro un atto di salute pubblica, continuano a legittimare azioni criminali in nome di principi che sono all’opposto degli ideali originali della Rivoluzione. Non lasciamo che si approprino ingiustamente del titolo di araldi della libertà.
(traduzione di Daniela Maggioni)