venerdì 10 dicembre 2004

un libro sul rapporto Hegel Marx

Il manifesto.it 9 dicembre 2004
Un legame sul filo del pensiero
«Un parricidio mancato». Un libro sul rapporto tra Hegel e il giovane Marx
Materiali viventi Il filosofo Roberto Finelli imbastisce una scena psicoanalitica per sottolineare il rapporto intellettualmente contradditorio e mai risolto tra Hegel e Marx
di ROBERTO CICCARELLI

C'è stato un uomo che ha passato un intero secolo sotto la leva. Fu arruolato a sua insaputa come sentinella nella lunga notte del socialismo reale e della sua filosofia di stato, il «materialismo dialettico». Durante il servizio militare ha svolto molti lavori - filosofo, economista, organizzatore politico - in cui era particolarmente eccelso quando veniva ritratto nel suo studio londinese o nelle biblioteche in cui amava studiare, ma che sono diventati momenti di una liturgia in cui i numerosi funzionari zelanti del suo culto ne celebravano le virtù sul campo di battaglia. Oggi il suo doppio confino, quello orientale dietro la cortina di ferro, e quello occidentale della «guerre civile fredda» che si è svolta nelle strade dell'Occidente, è ormai solo un ricordo. Karl Marx è finalmente libero di lasciarsi alle spalle il sole dell'avvenire e di raccontare la sua vita a partire dai libri che ha scritto. Questo è d'altronde il filo rosso del volume di Roberto Finelli Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx (Bollati Boringhieri, pp. 320, € 28). Giovane filosofo schierato nelle file dell'intellighenzia tedesca più radicale, quella degli Hegelinge, gli hegeliani di sinistra, Marx era uno dei più acuti intellettuali critici della società prussiana pre-1848. La sua parola d'ordine era: «la filosofia è morta con Hegel, ora generalizziamola alla società». Una rivolta generazionale, prima ancora che politica, che criticava la religione (cristiana) e lo stato (feudale) perché privavano il popolo tedesco della sua facoltà di autodeterminazione.

Il volto giovanile di Marx ripreso sulla copertina del volume sembra rivolgersi verso una singolare scena edipica: la lotta contro il padre teorico e spirituale, Hegel, e la successiva conciliazione con la sua figura che per Finelli avviene solo dopo il 1848 quando, reduce dal fallimento europeo della rivoluzione, Marx maturava il suo lutto, tornava a studiare Hegel e lo superava con la critica dell'economia politica del capitale. Come nella psicoanalisi freudiana, qui Edipo è vittima del suo complesso. Il giovane Marx non è affatto autonomo da Hegel e progetterà il parricidio. Fallendolo. Un vero e proprio atto mancato che, secondo Finelli, condizionerà in senso aporetico e paradossalmente spiritualistico la concezione materialistica della storia.

E lui, Marx, studente prodigio di filosofia laureatosi il 15 aprile 1841 nell'Università di Jena con una tesi su Eraclito, con la carriera accademica ormai sfumata ma pronto ad una giornalistica brillante e polemica, tanto da meritarsi le ire della censura prussiana, cosa ne pensava? Mai avrebbe ammesso quel debito anzi, come tutti i figli ribelli, tendeva a liberarsi all'opprimente eredità. «Al giovane Marx - racconta Finelli nello studio della sua casa romana - l'ansia eroica di commettere il parricidio, e di farsi valere come colui che aveva superato il più grande spirito della filosofia contemporanea, aveva chiuso gli occhi davanti alla complessità del pensiero del padre, pur dopo essersene alimentato nella raffinatezza categoriale della sua dissertazione di laurea».

La critica antihegeliana

Questa vicenda non rimane tuttavia imprigionata nei confini del triangolo edipico. Quella psicoanalitica è una narrazione che viene utilizzata da Finelli per restituire gli aspetti concettuali della vicenda teorica del giovane Marx, non ultimi quelli storici che lo hanno legato ad una certa immagine del marxismo in Italia, e non solo. La tesi di Finelli sul piano della storia del marxismo contemporaneo è infatti radicale. Siamo nell'Italia degli anni Cinquanta e Sessanta, a Messina, e a Roma. La scena è quella universitaria. Galvano Della Volpe e Lucio Colletti, i principali teorici del marxismo filosofico italiano, teorizzavano un Marx che aveva superato Hegel già nei suoi primi scritti. Ma così facendo, pur allontanandosi dal marxismo storicistico italiano, Della Volpe elaborava un marxismo che si voleva empirico e scientifico, ma che in effetti sottaceva un umanesimo metafisico e fusionale. Quello di Feuerbach che Marx usò per liberarsi di Hegel. Senza riuscirci.

Il punto dello scandalo rimane dunque sempre lui, Hegel, colui che aveva impostato per primo, pur mantenendo un piede nel pre-moderno con la sua teoria dei ceti, della polizey e delle corporazioni, il rapporto moderno tra l'individuo e la comunità che è sempre mediato da astrazioni che si fanno istituzioni e realtà. La critica anti-hegeliana condotta da Della Volpe e Colletti in Italia, o da Löwith in Germania con il suo affresco storico Da Hegel a Nietzsche, spinge invece a leggere Hegel come l'autore di un pensiero teologico-cristiano dissimulato sotto una veste razionale. E di conseguenza Marx come il dissolutore della cortina teologica calata sulla storia della filosofia da Hegel.

Per Finelli la teoria del genere umano di matrice feuerbachiana che rimanda nel giovane Marx ad un'idea di comunità di natura spiritualistica e fusionale in cui il «tu» è, senza differenze e conflitti, la continuazione e l'integrazione dell'«io», è invece arretrata rispetto alla teoria del riconoscimento descritta nella Fenomenologia di Hegel. L'umanesimo del giovane Marx non trascurava soltanto la fondamentale istanza della differenziazione e quella del concetto del «negativo», ma l'intera concezione hegeliana del soggetto basata sul riconoscimento, quella doppia azione del «diventare se stessi attraverso il rapporto con l'alterità» che permette al soggetto di non cancellare l'alterità e di riconoscerla come parte fondamentale della propria identità, permettendole di universalizzarsi senza rimanere prigioniera del proprio sé.

L'incomprensione della complessità del rapporto Hegel-Marx spinse tanto il marxismo storicistico «a rimanere legato - ribadisce Finelli - ad un populismo di fondo, all'esaltazione di un soggetto che trovava nel lavoro la sua identità positiva e collettiva e che si faceva principio di un possibile sviluppo civile unitario, nazionale e popolare», quanto il «galileismo morale» di Della Volpe e Colletti a compiere un'analoga rimozione. «Non analizzavano il processo del lavoro - osserva Finelli - alla luce di quello di valorizzazione del capitale», secondo quel concetto chiave per Marx di «determinazione formale» distinto da quello di «determinazione materiale». Era il destino generale del marxismo filosofico italiano, quello «di rimanere un marxismo senza Capitale».

Le ragioni di questo equivoco erano, oltre che filosofiche, anche politiche, naturalmente. Il marxismo italiano, infatti, pur con le eccezioni rappresentate da figure come Raniero Panzieri o, sul versante filosofico, da Cesare Luporini, rimaneva chiuso in un orizzonte nazionale, refrattario alle esperienze più innovative della cultura europea degli anni `50 e `60, quelle dell'esistenzialismo di Sartre, della Scuola di Francoforte, senza parlare di Nietzsche e della psicoanalisi. Almeno fino al 1968. «Quella cultura - ricorda Finelli - era fondamentalmente impermeabile e forse ostile alla tematica dell'antiautoritarismo come affermazione di una nuova teoria della soggettività. Lo storicismo era una teoria dell'omogeneità del soggetto di classe come soggetto politico che non faceva i conti con quanto, soprattutto in Francia e in Germania, si andava innovando sul piano della teoria del soggetto».

Quello di Finelli è dunque un libro che ha un'ambizione: riaprire il dibattito sul marxismo filosofico italiano, e non solo italiano, ripartendo proprio là dove Lucio Colletti lo ha interrotto pretendendo di chiuderlo. E poi segue una precisa drammaturgia che non corrisponde a quella preparata negli anni Sessanta da Louis Althusser che vedeva in Marx la presenza di due periodi, uno prima e l'altro dopo Hegel, separati da una «rottura epistemologica». Anche Althusser, ricorda Finelli, era tentato, ma in direzione opposta rispetto a Della Volpe e Colletti, di mettere in sordina l'influenza di Hegel su Marx.

La maturità filosofica

Siamo sulla scena del parricidio compiuto, quella dove il Marx maturo nel suo esilio londinese analizza il capitale come ciò che permette agli uomini di stare insieme a costo però della loro spersonalizzazione in quanto funzioni della produzione e non come individui. Sono passati vent'anni, e Marx ha abbandonato il «paradigma della contraddizione» per quello dell'astrazione per cui il capitale sussume progressivamente nella sua logica totalizzante l'intero mondo del concreto, dei valori d'uso e della forza lavoro, colonizza il mondo delle cose e dei corpi asservendoli alla sua logica di accumulazione dell'astratto, lasciando loro soltanto la possibilità di vivere in una dimensione di superficie, neutralizzati dalla catastrofe degli affetti, privi di un linguaggio che non sia quello logico-matematico o digitale. «Per studiarne la logica oggettiva e impersonale - precisa Finelli - Marx pone il capitale come il soggetto dell'intera modernità che riduce i soggetti e le classi a maschere portatrici di funzioni economiche. Mi sembra che questa teoria dell'astrazione in processo lo abbia obbligato ad una sociologia economica delle classi sociali, lasciando in sospeso la questione della loro organizzazione politica».

Il dramma del Marx della maturità è che sul piano politico continua ad argomentare secondo il paradigma della giovinezza, quello del «genere umano» e della sua organicità, nonostante la conquistata teoria del capitale. Quella sua teoria della rivoluzione soffriva della mancanza di un'elaborazione politica della contraddizione economica. Un dramma in cui si rifletterà tutta la concezione successiva della costituzione della classe la quale ribadiva la sua natura comunitaria: «Il problema del passaggio dalla classe in sé alla classe per sé - conclude Finelli - è infatti inficiato da una concezione troppo facile ed immediata della partecipazione politica del singolo al collettivo».

E' l'immagine di un Marx complesso e contraddittorio, quella di un uomo in libertà e di un filosofo che fa coesistere una doppia teoria della soggettività e consegna al marxismo successivo l'empasse terribile di una teoria della modernità avanzata e di una della soggettività arretrata che lo spinge a soggiornare ancora nel pre-moderno. Un Marx uno e bino.