martedì 25 gennaio 2005

guerra
nuovi barbari a Babilonia

La Stampa 25 Gennaio 2005
Quel che (non) resta di Babilonia
SULLE ROVINE DELL’ANTICA CITTÀ, IN IRAQ, UNA BASE MILITARE AMERICANO-POLACCA: ECCO L’ELENCO DEI DANNI IRRIMEDIABILI
Maurizio Assalto

Perché un campo nel sito più importante? Invernizzi: «Faceva comodo così, è terreno demaniale, non si doveva espropriare i contadini»
Bergamini: «Ho visto le foto aeree: spaventose. Molto peggio della prima guerra del Golfo»
Un rapporto stilato dall’archeologo John Curtis, del British Museum, fa inorridire la comunità degli studiosi: descrive l’equivalente, sul piano culturale, delle teste mozzate esibite dai fanatici di al Zarqawi
«BABILONIA diventerà un monte di rovine, una dimora di sciacalli, un oggetto di stupore e di scherno, senza abitanti». Quando Jahvé degli eserciti dettava questo vaticinio al profeta Geremia, neppure la sua immaginazione onnisciente poteva prevedere che la vendetta divina si sarebbe consumata ancora a distanza di 26 secoli, mille e più anni dopo la scomparsa di ogni insediamento umano da quella che era stata la splendida capitale di Hammurabi e di Nabucodonosor e della leggendaria Semiramide, dei giardini pensili e della Torre di Babele. Quel che tutti temevano, da quando nell'aprile del 2003 il sito a pochi chilometri da Baghdad venne occupato dai «liberatori» americani per stabilirvi una base militare, è ovviamente avvenuto, e ora ci sono le prove, puntuali e documentate: un rapporto di 14 pagine fitte di accuse, anche se purtroppo non esaustivo, stilato dal responsabile del Dipartimento del Vicino Oriente al British Museum, John Curtis, che a fine dicembre è stato il primo archeologo occidentale a rimettere piede, su invito dei colleghi locali, nell'area riconsegnata formalmente all'autorità provvisoria irachena.
I soldati in armi, con i loro mezzi blindati, sulle rovine di Babilonia. Una follia, uno sfregio, «come impiantare una base militare intorno alla Grande Piramide in Egitto, o a Stonehenge in Gran Bretagna», si legge nel rapporto, che il quotidiano londinese The Guardian ha potuto esaminare in anteprima costruendovi un servizio in più pagine con foto e commenti. Babilonia, va ricordato, non è soltanto il sito più importante, per estensione e per quantità di strutture riportate alla luce, di tutto l'Iraq. È anche un simbolo, un nome dal suono magico e evocativo: per gli iracheni di oggi - tanto è vero che Saddam Hussein aveva costruito qui uno dei suoi innumerevoli palazzi, riedificando altresì, con criteri discutibili, le strutture antiche, in una sorta di Disneyland mesopotamica a uso dei turisti - come per la tradizione greca e ebraica e per quella islamica.
«Che il nemico non la traversi»
In una delle immagini a corredo del rapporto si vedono i soldati polacchi, che dal settembre del 2003 sono subentrati agli americani alla guida della forza multinazionale di stanza a Camp Babylon. Con i loro stivali martellano i mattoni del pavimento originale del VI secolo a.C. della Via delle Processioni (nei testi antichi, con involontaria ironia, Ai-ibur-shabu, «che il nemico non la traversi»), la strada che portava verso il tempio della divinità poliade Marduk, signore delle tempeste. In primo piano un cartello scritto a mano, con il pennarello: «Take care and protect Babylon, please». Una flebile supplica, lasciata lì dai responsabili del locale museo. Inutilmente. In un paio di zone in cui il pavimento è tornato alla luce i mattoni sono frantumati, intuibile effetto del passaggio di uno o più veicoli pesanti. «Se è così», aggiunge Curtis, «è probabile che anche i mattoni ancora ricoperti dalla terra siano ugualmente danneggiati». Senza contare che sono state riscontrate abbondanti tracce di perdite di carburante, che si infiltra nel terreno aggredendo le strutture sepolte più antiche.
Il rapporto si occupa anche della Porta di Ishtar, la replica in scala ridotta, voluta da Saddam, dell'antico accesso alla città dedicato alla grande dea dell'amore. Di qui transitano ogni giorno i militari - fino a seimila, su un campo arrivato a 150 ettari - dopo avere pericolosamente lambito la grande statua di basalto del Leone di Babilonia, che sta lì dalla metà del II millennio a.C. L'originale della Porta, con i suoi meravigliosi mattoni smaltati e invetriati nelle sfumature del verde, del giallo, del blu, è stato ricomposto al Pergamon Museum di Berlino - come molti dei reperti recuperati nell'antica città dall'archeologo tedesco Robert Koldewey, che la scavò tra il 1899 e il 1917 - ma in situ si trova ancora qualche cosa: le fondamenta sotterranee, che sebbene non fossero mai state visibili erano tuttavia ricche di iscrizioni e decorate con bellissime figure di draghi a rilievo (come quelli di Berlino) ottenute da mosaici di mattoni. Implacabile, Mr Curtis registra dieci differenti aree in cui le figure risultano danneggiate, «a causa di una o più persone che hanno cercato di rimuovere un mattone decorato».
Altro punto dolente, la ziqqurat Etemananki: ossia il colossale complesso a piattaforme quadrate sovrapposte, dedicato a Marduk, che ha originato il ricordo biblico della Torre di Babele. Fondato dai sovrani della prima dinastia babilonese, nel XII secolo a.C., ripreso 600 anni dopo dall'iniziatore dell'impero neobabilonese Nabopolassar e completato da suo figlio Nabucodonosor II - il sovrano che regnò dal 605 al 562, cambiando il volto della città e facendone la più splendida e più estesa capitale dell'antichità pre-ellenistica - l'Etemananki misurava 91,50 metri di lato per un'altezza all'incirca pari sviluppata su sette livelli uniti da un camminamento esterno. Ora non ne rimane quasi niente, fuori terra (forma e misure le dobbiamo alle accurate descrizioni di Erodoto e a un testo cuneiforme redatto in età seleucide): tutti i mattoni cotti sono stati depredati nel corso dei secoli e reimpiegati per costruire le città e i villaggi vicini, come Hilla; resta soltanto un nucleo di mattoni crudi, non riutilizzabili, circondato da un canneto. Però ci sarebbe ancora molto da scavare (i tedeschi sono tornati a lavorare nella ziqqurat per un breve periodo negli anni 70) e probabilmente molto da riportare alla luce. Non fosse che qui i militari hanno scavato diverse trincee. «Una grande quantità di vasellame e numerosi frammenti di mattone con iscrizioni cuneiformi di Nabucodonosor sono stati osservati sui bordi del materiale sterrato», annota Curtis.
Anche vicino al cosiddetto Warsaw Gate, dove passano quotidianamente le truppe polacche, sono state scavate un paio di trincee lunghe 20 metri, e anche qui l'archeologo del British Museum ha potuto notare i frammenti con le antiche iscrizioni. In uno di questi si legge: «Io sono Nabucodonosor re di Babilonia, figlio maggiore di Nabopolassar re di Babilonia, che provvede all'Esagil e all’Ezadil». Beffarda ironia dei nomi, ancora una volta: il grande sovrano Nabu-kudurri-usur - come suona in accadico, «o dio Nabu, proteggi la discendenza» - davvero non è riuscito a scongiurare la sorte più insultante per la sua città-capolavoro.
Sembra pazzesco. E lo è. Ma è incredibilmente vero. In tutta l'area di Babilonia migliaia di tonnellate di materiale archeologico mescolato alla sabbia sono servite a riempire i sacchi posti a difesa delle installazioni militari. E quando questa pratica sciagurata è stata fermata, altre migliaia di tonnellate di terra portata da fuori hanno irrimediabilmente contaminato il sito per le future generazioni di archeologi: forse non si potrà più ricavare niente dal Palazzo meridionale di Nabucodonosor, uno dei tre che il sovrano si fece costruire in città, né si potrà mai individuare il luogo dei famosi giardini pensili. Non basta. Intere zone sono state livellate e ricoperte di ghiaia - che, assicura il rapporto, sarà impossibile rimuovere senza provocare ulteriori danni - e quindi trattate con prodotti chimici, per impiantarvi parcheggi per gli automezzi blindati e eliporti.
Postazione strategica
Dall'Inghilterra all'America all'Italia, la comunità scientifica ha reagito inorridita alle rivelazioni di Curtis. Gli affronti al patrimonio archeologico sono l’equivalente, su un altro piano, delle teste mozzate esibite dai fanatici di al Zarkawi. Ancora una volta l'aspetto inumano - nel senso più profondo - della guerra si rivela emblematicamente nella sua insensibilità verso la cultura, nel suo accanirsi non soltanto contro gli individui in carne e ossa, ma contro l'umanità nella sua essenza.
In verità le voci filtravano da tempo. Giovanni Bergamini, direttore presso il Museo Egizio di Torino ma archeologo orientalista, aveva captato qualche cosa quando, in ottobre, aveva tenuto a Amman un corso per il personale iracheno che dovrà occuparsi del ripristino del patrimonio: «Ho visto una serie di immagini aeree, il confronto con le stesse zone fotografate nel '74 è spaventoso: colline spianate, terreni sforacchiati... Tutti si sono concentrati sul saccheggio del museo di Baghdad, nell'aprile del 2003, ma il dramma è più diffuso. Per quanto riguarda Babilonia, è molto peggio che dopo la prima guerra del Golfo: il sito era abbastanza tutelato, grazie anche alla presenza di una sede della Direzione delle Antichità. Praticamente non aveva subito danni: tanto è vero che negli anni successivi ha continuato a ospitare un festival artistico, ogni primavera, con cui il regime cercava di darsi un po' di prestigio».
Anche Roberto Parapetti, architetto del Crast di Torino che aveva avuto l’incarico di elaborare un progetto per la valorizzazione del Palazzo meridionale di Nabucodonosor e della Porta di Ishtar, era stato informato, durante un recente congresso a Boston dell'American Institute of Archaeology. «Ho incontrato Donny George, uno dei massimi rappresentanti delle Antichità di Baghdad. Mi ha parlato dei danneggiamenti, diceva che adesso la cosa più importante è tenere sotto controllo i siti, per impedire ulteriori saccheggi. Dai primi di gennaio a Babilonia c'è un corpo di guardia di 240 poliziotti locali». Basterà? Il peggio, comunque, è già accaduto. Gli strati più antichi della città, quelli risalenti all'epoca di Hammurabi (XVIII secolo a.C.) e prima ancora, sono sepolti a 40 metri di profondità sotto la falda acquifera e forse non si recupereranno mai, come teme Bergamini; quelli più recenti, relativi all'età neobabilonese, o sono già stati asportati o sono ora seriamente compromessi.
Ma, appunto, come è potuto accadere? Perché, con tanto territorio disponibile, gli Stati Uniti (che, come si ricorderà, non hanno mai sottoscritto la Convenzione dell'Aia del 1954 per la tutela del patrimonio culturale mondiale in caso di guerra) hanno stabilito una base militare proprio sul sito più significativo di tutto l'Iraq?
La risposta è semplice, secondo Parapetti: «Babilonia è considerata una postazione strategica, a metà strada tra Baghdad e Kerbala». Anche Antonio Invernizzi conosce bene la zona, per esservi stato spesso con le missioni del Crast, uno dei gruppi archeologici più attivi in Mesopotamia, apprezzato in tutto il mondo: «Si sono sistemati lì perché gli faceva comodo. Babilonia non ha villaggi a ridosso, è terreno demaniale, quindi non era necessario espropriare nessuno». In definitiva gli americani si sarebbero comportati come le antiche popolazioni della Mezzaluna fertile, che ricostruivano le loro città sulle rovine degli insediamenti precedenti, dando origine ai tell, per non sottrarre terreno alle coltivazioni circostanti.
Se Hammurabi vedesse
Uno scrupolo perfino lodevole, non fosse che... Lo stesso rapporto Curtis, del resto, riconosce che, almeno inizialmente, la presenza militare era servita a tenere lontani i predatori. E Invernizzi ricorda che a volte perfino le operazioni di guerra possono essere utili all'archeologia: come accadde durante il conflitto Iran-Iraq, a cavallo tra gli anni 70 e 80, quando le truppe di Saddam che avevano occupato il sito di Seleucia, scavando le trincee difensive, avevano sterrato una rara statua bronzea ellenistica di Eracle, subito affidata ai responsabili delle Antichità e nell’85-86 esposta a Torino, Firenze e Roma nella storica mostra «La terra tra i due fiumi». Però quella fu un'eccezione. La regola, in questi casi, è diversa.
Naturalmente gli interessati respingono le accuse. Il comando polacco, letto il rapporto di Curtis, ha ribadito di avere soltanto protetto il sito dai vandalismi, e subito il viceministro della Difesa iracheno, Ziad Cattan, ha fatto eco, confermando che «non sono stati provocati danni a Babilonia da truppe americane o polacche» e aggiungendo di avere chiesto a Varsavia di non ridurre di un terzo, come annunciato, il suo contingente di 2500 uomini dopo le elezioni del 30 gennaio. C'è da domandarsi, allora, che cosa abbia visto l'archeologo britannico, che cosa abbiano visto i suoi colleghi iracheni che ne hanno avvalorato la testimonianza, arricchendola di dettagli. Chissà se Hammurabi, il padre del celebre Codice, può osservare quel che accade, da qualche parte del gorgo buio in cui confluiscono gli uomini del passato e i loro dèi. Forse sta già brandendo il taglione.