martedì 4 gennaio 2005

micromega è una rivista di sinistra?
filosofia della negazione: ci serve ben altro..!

Repubblica 4.1.05
L'unità tra psiche e corpo ovvero l'uomo è ciò che mangia un'anticipazione da "micromega"

Dal pensiero di Aristotele Pitagora ed Epicuro a Feuerbach, Nietzsche ed Hegel
Come i filosofi si sono accostati alla tavola e al suo rapporto con l'essenza umana
In Hegel il processo della fame è alquanto complesso e diviso per fasi diverse
Epicuro teorizzava che solo i piaceri necessari possono e debbono essere soddisfatti
Pitagora con le sue proibizioni alimentari voleva sintonizzarsi con il "divino"
MASSIMO DONÀ

Nel 1850 uno dei più irrequieti allievi del grande Hegel recensiva assai favorevolmente uno scritto di Moleshott sull'alimentazione, interpretata come ciò che avrebbe reso possibile il costituirsi e perfezionarsi della cultura umana. In base a tale prospettiva sembrava che il progresso di ogni popolo dipendesse in primis da un imprescindibile miglioramento dell'alimentazione.
Significativo è in questo senso anche il titolo di un interessante scritto del filosofo in questione: Il mistero del sacrificio o l'uomo è ciò che mangia (1862). Secondo il quale si trattava appunto di rinvenire e sperimentare l'unità inscindibile fra psiche e corpo.
Infatti, era proprio per pensare meglio che sembrava necessario migliorare l'umana alimentazione.
Il filosofo in questione mal sopportava la pretesa ultimatività del sistema hegeliano, e soprattutto riteneva quanto mai necessario sottoporre a dura critica ogni forma di illusione religiosa.
Un vero e proprio capovolgimento della prospettiva idealistica fu insomma quello cui venne data vita da parte di Ludwig Feuerbach (è di lui che stiamo parlando!) - il quale, nato nel 1804 a Landshut, in Baviera, avrebbe poi studiato teologia a Heidelberg. Anche se, sotto la decisa influenza dell'hegelismo, avrebbe ben presto abbandonato la teologia per la filosofia.
Abbiamo voluto riferirci subito a Feuerbach per introdurre un tema quanto mai spinoso e delicato: quello dei rapporti tra cibo e filosofia. Con chi, altrimenti, avremmo potuto iniziare? Con chi, se non con colui il quale ebbe il coraggio di affermare che l´uomo non è pensiero, linguaggio, coscienza, anima, o qualche altra determinazione metafisica. bensì, innanzitutto e soprattutto, ciò che ingerisce, magari mosso da un istinto animale come quello della fame?
Beh, la posta in gioco non è da poco; è evidente. Si tratta infatti di tornare a fare i conti con l'antichissima questione dell'essenza dell'uomo. Una questione molto controversa, cui sono state date risposte di volta in volta molto diverse tra loro - ma mai così radicali, e soprattutto così «spiazzanti». Certo, perché a mangiare non è solo l'uomo. Anzi. tutti gli esseri animati mangiano. Tutti gli animali, sicuramente - anche certe piante tropicali «mangiano», in qualche modo.
L'affermazione di Feuerbach, dunque, sembra implicare la volontà di caratterizzare la natura umana non per distinzione (non, cioè, distinguendola da quella degli altri animali), ma per identificazione (riconducendola a ciò che vi sarebbe di comune tra l'uomo e gli animali).
Ma è davvero così?
Davvero l'uomo mangia come qualsiasi altro animale?
Certo, Aristotele definiva l'essere umano «animale dotato di logos».
Ma non va neppure dimenticato che, a definirsi animale, è, in Aristotele, un uomo che è tale solo «nel» e «per» il logos da cui è originariamente costituito. D'altronde, è proprio «nel» e «dal» logos che viene riconosciuta la sua originaria animalità. La duplicità costituente la natura umana non si dà cioè come semplice risultato di un'addizione. Mai l'animalità è nell'uomo realmente separabile dalla sua co-originaria logicità. (...)
Il fatto è che quello del cibarsi è sempre e comunque un atto «logico». Anzi, si costituisce come un vero e proprio concetto. Come negarlo? Ossia, un concetto che, solo in quanto esprimente la vita di un vivente privo di logos, può alludere ad un atto in sé ripetitivo, sempre uguale a sé, e privo di caratterizzazioni distinguenti - se non altro all'interno di una medesima specie animale.
Là dove, nell'essere umano, invece, il medesimo atto mancherebbe in toto di tale prevedibile monotonia. E dunque esprimerebbe già in se stesso quella logicità che siamo soliti vedere giustapposta o comunque astrattamente distinta da esso. (...)
Perciò il mangiare è nell'uomo tutt'altro che una funzione puramente animale. Anche il mangiare, nell'uomo, è elemento logico e distinguente. Perciò in Cina non si mangia come in Inghilterra, e neppure in Messico ci si sfama come in Romania. Perciò gli uomini «si distinguono» anche per il modo in cui mangiano. Perciò l'uomo può essere sempre anche «in ciò che mangia». O meglio, può essere definito nella propria essenza specifica come il sempre diversamente mangiante.
Come quel mangiante che, nell'atto del cibarsi, non si ripete affatto.
Perciò l'uomo può distinguersi come mangiante, e, nel mangiare, può distinguersi anche rispetto agli altri esseri viventi.
Perciò, rilevare che, al contrario dei pitagorici - che non mangiavano carne - Nietzsche amava alquanto la trippa e i salami piemontesi (da lui assaporati durante la nota permanenza a Torino), significa non solo offrire qualche curiosa notizia sui gusti culinari dei filosofi, ma, assai più radicalmente, determinare una caratteristica peculiare di quelle determinate esistenze.
Se proibiva di mangiare il gallo bianco, animale sacro per la cadenza perfettamente sincronizzata del proprio canto, e quindi i pesci, allo stesso modo il grande matematico Pitagora proibiva di danneggiare qualsivoglia animale nella misura in cui quest'ultimo non avesse arrecato danno all'uomo. Ed è evidente: tale divieto corrispondeva, più che ad un costume puramente naturale, ad una generale volontà di sintonizzarsi con un «divino» vissuto come permeante di sé l'intero universo. Lo racconta molto bene Giamblico: all'ora di pranzo i pitagorici consumavano in prevalenza pane, miele o miele misto a cera; mentre a cena focaccia, pane, vino, companatico, verdura cotta e cruda. Talvolta poteva esservi della carne - sempre, però, di un animale che fosse lecito sacrificare. Pesce, invece, mai.
Il misuratissimo Leibniz, poi, tentava di non eccedere mai né nel cibarsi né nel bere; proprio come Campanella, il quale invitava sì alla temperanza nel mangiare e nel bere, ma sempre anche nelle altre attitudini etico-morali. Comunque, per il filosofo-teologo calabrese si trattava di tener bene a mente che cibo e bevande vanno concepite innanzitutto come «medicine». Da cui l'idea di un cibarsi inteso come un vero e proprio modo per curarsi.
Ma, già al tempo della scuola pitagorica, molti sarebbero stati i filosofi capaci di proiettare sul cibo e sulla sua assunzione un vero e proprio orizzonte di «senso»; rinviante a un modo d'essere mai scollegabile o astrattamente distinguibile dalla pura meccanica dell'apparato fisiologico. E in numero forse non minore sarebbero stati poi quelli capaci di individuare nel cibo una vera e propria fonte di piena felicità. Paragonabile a quella già riservata a Zeus.
Epicuro - tanto per fare un nome - avrebbe sicuramente fatto carte false pur di poter corrispondere al grido della carne, ossia al monito di una carne risolutamente urlante. Ma, se per un verso, sempre ai suoi occhi, la carne grida, è anche vero che solo i piaceri necessari possono e debbono essere soddisfatti. Insomma, l'epicureismo non è mai stato un semplice fautore dei piaceri smodati; tanto meno di quelli connessi al cibo e al vino assunti in quantità particolarmente esagerate. In tale prospettiva, il cibo e la sua assunzione alludevano a qualcosa che, solo ad un certo punto e per una fase ben delimitata dell'esistenza, avrebbe potuto aver a che fare con la mera sussistenza fisica (da cui la considerazione di tutto il resto come «mero supplemento»). Piaceri necessari erano infatti tutti quelli originariamente corrispondenti alla verità del «piacere». Perciò, la necessità atta a legittimare un determinato piacere è in Epicuro perfetta espressione di una sostanziale idea dell´esistenza. In base alla quale, ad esempio, solo quelli connessi alla mera sussistenza possono dirsi piaceri «naturali» - e per ciò stesso mai superflui o in qualche modo astrattamente voluttuari.
D'altro canto, anche per un filosofo come Spinoza il desiderio smodato di buona carne e di buon vino sarebbe stato da condannare non in quanto tale, ma solo perché animato da astratte e dunque incontrollabili passioni. E dunque non «regolato» da una misura originariamente logica. Buono e conveniente era per lui, infatti, sempre e innanzitutto il semplice conformarsi alla potenza di un´azione regolatrice e mediatrice che mai il puro appetito avrebbe potuto consentire o in qualche modo rendere possibile.
Ma soprattutto il teorico della dialettica, ossia il grande Hegel, pur lasciandosi non di rado andare a veri e propri resoconti culinari, estranei in quanto tali a qualsivoglia giustificazione filosofico - teoretica (si ricordino a questo proposito le suggestive pagine del suo Diario di viaggio sulle Alpi bernesi), avrebbe rigorosamente evitato di soffermarsi a giudicare le pietanze. Certo, egli annota di aver assaggiato vino italiano, carne d'agnello e di vitello, nonché carne di marmotta; ma anche pane bianco vallese, burro e miele.
Eppure, nessuna considerazione di gusto gli sfugge mai, se non in senso negativo - come accade a proposito della carne di marmotta. Come la natura tutta, insomma, neppure il cibo sembra interessarlo davvero.
E neppure l'atto del mangiare sembra rivestire per lui un qualche significato, se non in relazione alla funzione dal medesimo rivestita nel contesto di una ben più generale architettonica spirituale.
Eppure vi sono pagine straordinarie, dedicate, sempre dal teorico della dialettica, al rapporto originario con il cibo da parte dell'animalità; ci stiamo riferendo alla Enciclopedia delle scienze filosofiche - in cui, quello che potrebbe apparire come puro meccanismo fisiologico, sostanzialmente estrinseco rispetto alla soggettività del vivente, si rivela custode di una complessità concettuale-filosofica assolutamente stupefacente. dal medesimo peraltro sempre e comunque implicata, e valevole appunto quale momento essenziale di un'articolazione universale e originariamente spirituale - dove, lo Spirito è tale, per l'appunto, solo dopo essersi fatto logica, e quindi natura. E quindi anche «animalità» - ossia istinto.
D'altro canto, la fame, per Hegel, è innanzitutto un istinto; un istinto che isola le cose inorganiche e le assimila consumandole.