martedì 4 gennaio 2005

ricorrenze
3 gennaio 1925: il discorso di Mussolini in Parlamento

Repubblica 4.1.05
Ottant'anni fa l'Italia perdeva la libertà
Il 3 gennaio 1925 il Duce tenne il discorso con cui liquidò lo Stato liberale
MASSIMO L. SALVADORI


La storia dell'Italia unita è stata segnata in maniera ricorrente da alcuni decisivi momenti di contrasto frontale tra gli schieramenti politici e sociali, in cui si pose all'ordine del giorno la questione di quale dovesse prevalere, concludendo una fase di crisi profonda o di equilibri fattisi troppo incerti e aprendo la strada ad un nuovo corso caratterizzato da una ristrutturazione del potere intorno ai vincitori. I maggiori e più significativi di questi momenti sono stati la svolta liberale che nel 1901, sconfitta la linea reazionaria, inaugurò l'età giolittiana; il 3 gennaio 1925, che mise fine al periodo di trapasso apertosi nel 1922 con l'ascesa al potere di un fascismo ancora relativamente debole e instabile e diede inizio alla sua trasformazione in una dittatura organica; l'aprile 1948, quando De Gasperi, che già nel maggio 1947 aveva escluso le sinistre dal governo, creò le basi della lunga egemonia democristiana; le elezioni del 2001, che hanno dato al centrodestra capeggiato da Berlusconi una forte maggioranza parlamentare.
Per cogliere in particolare il significato della svolta impressa da Mussolini il 3 gennaio 1925, occorre collocarla nel contesto della marcia compiuta dal fascismo dal 1919 al 1925-26. Questa fu contraddistinta da quattro fasi principali. La prima era stata quella dell'incertezza, della non raggiunta identità, quando il fascismo oscillava tra rivoluzionarismo nazionalistico, imperialismo, antisocialismo e al tempo stesso elementi di riformismo democratico persino radicale. La seconda fase vide il fascismo svilupparsi nel 1920 come guardia pretoriana armata degli agrari e, dopo l'occupazione delle fabbriche, anche degli industriali, contro l'"eversione rossa"; nel 1921 entrare in Parlamento grazie a Giolitti e trasformarsi in partito; nel 1922 darsi un'organizzazione sindacale, scatenare ricorrenti ondate di violenza, ottenere il crescente consenso dei conservatori di varia corrente illusoriamente convinti di poter utilizzare il fascismo come proprio strumento subalterno in un periodo di emergenza. La terza fase è da collocarsi tra il 28 ottobre 1922 e la fine del 1924: anni in cui Mussolini capo del governo fece un uso autoritario delle istituzioni liberali con l'appoggio della monarchia e delle forze (militari, magistrati, nazionalisti, liberali di destra, cattolici filo-fascisti, intellettuali come Croce ed Einaudi) che vedevano in lui l'uomo chiamato a restaurare "l´autorità dello Stato". La quarta fase - dal gennaio 1925 al novembre 1926 in un quadro di disfatta trasformatasi via via in rotta delle opposizioni - portò alla fine dello Stato liberale, alla formazione della dittatura e al monopolio politico del Partito fascista. Il discorso di Mussolini tenuto in Parlamento il 3 gennaio 1925 costituì l'inizio di quest'ultima fase.
Quel discorso? in cui Mussolini prese su di sé «la responsabilità politica, morale, storica» dell'assassinio di Matteotti del 10 giugno 1924, affermò retoricamente che «se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere» e, dopo aver ricordato che «quando due elementi sono in lotta e sono irriducibili, la soluzione è la forza», minacciò le opposizioni di far tornare tutto alla sua normalità in 48 ore - si collocò al culmine di un momento di gravissima crisi del fascismo, cui fece seguito un'incontrastata e definitiva vittoria che rivelò il crollo politico di tutte le opposizioni: dai liberali ai comunisti. L'assassinio di Matteotti aveva messo in moto l'intero fronte politico e parlamentare, creando un profondo sommovimento nella società e una crisi di fiducia verso il fascismo in ampi settori della borghesia e dei ceti medi inferiori che lo avevano sostenuto. Ma emerse a quel punto come allo sbandamento del fascismo corrispondesse l'incapacità delle opposizioni di trovare un sia pur minimo comun denominatore politicamente efficace. La protesta morale le univa, ogni proposta di azione le frantumava. Parte dei liberali che avevano seguito Mussolini e democratici come Amendola puntarono su una soluzione costituzionale che inducesse il re a licenziare il governo; i socialisti massimalisti si mostrarono svuotati e incapaci di decisione; Gramsci fece appello ad uno sciopero generale che nessun altro all'infuori dei comunisti voleva e trovava le masse esauste. La scissione parlamentare culminata nell'Aventino, intesa a premere sulla corona, restò senza effetto. Mussolini ottenne la fiducia prima al Senato e poi alla Camera. Intanto i "ras" del fascismo provinciale minacciavano di scatenare la guerra civile su vasta scala nel paese esortando il capo a reagire con la massima decisione. Il 3 gennaio 1925, percepito il fallimento delle opposizioni, forte dell'appoggio della monarchia e del Vaticano, Mussolini tirò le somme. Un ruolo decisivo nel rafforzare l'azione del capo del governo dopo quel discorso ebbero i liberali di destra, le cui ragioni Salandra avrebbe così indicato: «per loro le idealità liberali non erano che una soprascritta; esse andavano posposte alla necessità di serbarsi salda la difesa materiale del fascismo contro la minaccia di una riscossa dei sovversivi».
Si giunse così alla stretta finale, che ebbe come esito, in rapida successione, il varo delle leggi e la creazione degli istituti che nel 1925-26 instaurarono la dittatura, liquidarono lo Stato liberale agonizzante e diedero vita al regime. Gentile redasse il manifesto degli intellettuali fascisti; Croce il contromanifesto degli intellettuali antifascisti. Seguì un'ondata di terrore ad opera delle squadracce. Furono varate le leggi "fascistissime": controllo della polizia su tutte le associazioni; modifica dello Statuto ed esautoramento del Parlamento; rappresentanza sindacale alle organizzazioni di regime; riforma delle amministrazioni locali; scioglimento dei partiti, salvo naturalmente quello fascista; introduzione del confino di polizia; arresto di deputati delle opposizioni; creazione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato e dell'Ovra, la polizia politica che dopo di allora sarebbe stato l'occhio vigile del regime sulla società sottomessa e sulle forze clandestine. Quattro falliti attentati compiuti contro Mussolini fecero da sfondo e giustificazione alla vasta e organica legislazione repressiva, nella cui elaborazione un ruolo primario ebbero Federzoni e Rocco.
Allora il fascismo si propose come il padrone d'Italia e divenne tale.

LUCIANO CANFORA ANALIZZA IL DISCORSO DEL '25 LA RETORICA DI UN DESPOTA
parole Il fulcro della costruzione oratoria va cercato in alcune iperboli e nel gioco del rovesciamento: sembrare vittima e non carnefice
SIMONETTA FIORI


«Un discorso esemplare», lo definisce Luciano Canfora, antichista sensibile al genere oratorio e incline a frequenti incursioni nell'età contemporanea. «Quel 3 gennaio del 1925 Mussolini dà prova di straordinaria abilità nel dosare lusinga e minaccia, ammiccamento e chiamata di correo, ragionamento pacato e aggressione ruvida. La sua retorica fonde due stili differenti: il primo ricavato dall'antica esperienza di tribuno socialista, altalenante tra tonalità energiche e passaggi pensosi; il secondo legittimato dalla condizione del despota, che brandisce il manganello impunemente».
Colpisce, fin dalle prime battute, il suo collocarsi fuori dalle istituzioni. Pronunciato in Parlamento, il discorso si presenta subito come un intervento "non parlamentare".
«Ma non è certo più aggressivo dell'altro storico discorso, il 16 novembre 1922, cui apertamente si richiama ("Potevo fare di questa aula sorda e grigia un bivacco di manipoli, ma non l'ho fatto almeno per ora"). Anzi: l'intonazione complessiva, seppure ricalcata sugli stessi stilemi, risulta più moderata».
Però minaccia violenze e vessazioni, che poi puntualmente attuerà.
«Non c'è dubbio: è il discorso d'un despota. Ma il fulcro della costruzione oratoria va cercato altrove, precisamente nella celebre iperbole, giocata sul filo del paradosso: "Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione suprema della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un´associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere". Si tratta evidentemente di una provocazione, indirizzata agli ex alleati liberali e popolari, divenuti tiepidi dopo il delitto Matteotti».
Una chiamata di correo?
«Proprio così. Non a caso il discorso s'apre con un atto di suprema sfida, quando Mussolini evoca l'articolo 47 dello Statuto secondo cui "La Camera dei deputati ha il diritto di accusare i ministri del Re" ed aggiunge: "Domando formalmente se qualcuno voglia valersi di quest'articolo...". Poi spiega meglio: "Dopo aver lungamente camminato insieme con dei compagni di viaggio, è necessaria una sosta per vedere se possiamo proseguire la stessa strada". Più chiaro di così».
A chi si rivolge?
«Mi viene in mente Benedetto Croce, che in Senato il 26 giugno del 1924 - immediatamente dopo il sequestro di Matteotti - aveva rinnovato il proprio appoggio a Mussolini con un voto "prudente e patriottico". Il filosofo motivò: "Il fascismo non è stato un infatuamento o un giochetto. Ha risposto a seri bisogni e ha fatto molto di buono come ogni animo equo riconosce". Mussolini si rivolge a questo ceto liberale: ma come, vi siete serviti di me per soffocare il sovversivismo rosso e ora fate tante storie per un cadavere».
Però respinge tutti gli addebiti.
«La bugia fa parte dell'oratoria politica universale. La difesa di Mussolini appare magistrale, specie là dove evoca la Ceka russa: le cifre del terrore comunista servono a ricordare agli ex alleati la terribile minaccia da cui egli li ha liberati».
Rende anche omaggio all´avversario.
«Sì, riconosce a Matteotti "una certa crânerie, un certo coraggio", che assomigliavano al suo coraggio e alla sua ostinazione: è un modo gaglioffo di rendere l'onore delle armi, tipico del vincitore che si presenta come eticamente superiore».
Accenna alle proprie virtù militari, in un incalzare quasi romanzesco.
«Direi comico: si presenta come un eroe che ha sgominato insidiose sedizioni e condotto una divisione di fanteria a Corfù. In realtà la sua partecipazione alla Grande Guerra fu piuttosto modesta. Ma questo è un luogo topico della retorica del capo: la reinvenzione del passato».
Con illustri antecedenti.
«Penso al Bellum hispaniense del corpo cesariano: vi si racconta che durante la battaglia di Munda, nel 45 a. C., è Cesare a salvare le sorti del suo esercito prendendo le insegne dalle mani d'un centurione. Da Plutarco in avanti, nella tradizione a base classica, la figura dell'eroe è irrinunciabile. Dobbiamo aspettare Tolstoj per imbatterci nell'antieroe. Mussolini vuol ricalcare un topos che fu di tutti i condottieri, da Napoleone a Garibaldi».
Colpisce, poi, il rovesciamento quasi paradossale della realtà: oggi chi è fascista, dice Mussolini, rischia ancora la vita.
«Tutta la costruzione oratoria di Mussolini è fondata sul rovesciamento: da una parte la violenza rossa, fomentata dall'Aventino anticostituzionale e sedizioso; dall'altra il Duce, soggetto normalizzatore e desideroso di pace. Ma non trascuriamo le velenose allusioni lanciate alla Corona, quando fa cenno alla "triste storia delle questioni morali in Italia": Matteotti, tra l'altro, aveva scoperto uno scandalo che coinvolgeva la famiglia reale, e il duce velatamente ne fa cenno a Vittorio Emanuele. Che è poi la figura occulta che sta dietro questo discorso del 3 gennaio».
Ma il Re non ne era stato informato. Anzi, racconta De Felice, se ne dolse poi non poco.
«Sappiamo però che Mussolini aveva tentato di procurarsi un decreto di scioglimento della Camera in bianco. E da un appunto di Suardo, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, apprendiamo che la sera del 2 gennaio il Duce aveva incontrato Vittorio Emanuele. Il quale non firmò il decreto il bianco, ma lasciò intendere al capo del fascismo che, dopo il processo per l'uccisione di Matteotti, gli avrebbe permesso di sciogliere anticipatamente la Camera».
Non era quel che voleva Mussolini.
«Era però abbastanza per aggredire la Camera e mettere il Re davanti al fatto compiuto. Usando tutta la vasta tastiera di cui può essere capace un tribuno divenuto despota: violenza e seduzione, ricatto e ammiccamento. Una prova bel calibrata di retorica autoritaria».

CARL SCHMITT
Se la costituzione di uno Stato è democratica, può essere definita come dittatura ogni sospensione eccezionale dei princìpi democratici, ogni esercizio del potere statuale che prescinda dal consenso della maggioranza dei cittadini. Se questo esercizio democratico del potere assurge a ideale politico valido in generale, è dittatura allora ogni Stato che non rispetti tali princìpi democratici. Se poi viene assunto come norma il principio liberale dei diritti inalienabili dell'uomo e della libertà, rientrerà nella categoria di "dittatura" qualsiasi violazione di tali diritti, fosse pure con il consenso della maggioranza. In tale senso dittatura può significare una eccezione rispetto a princìpi democratici o liberali, non necessariamente rispetto ad entrambi. Viene perciò chiamato dittatura lo stato d'assedio perché comporta la sospensione di prescrizioni positive della costituzione; se ci poniamo in un'ottica rivoluzionaria, il termine dittatura può essere applicato allordine esistente nel suo complesso, operando così una trasposizione del concetto dal terreno del diritto pubblico a quello politico.

Dopo il delitto Matteotti la sinistra diede per imminente la fine di Mussolini
COSÌ L'ANTIFASCISMO SOTTOVALUTÒ IL PERICOLO
EMILIO GENTILE


Potrebbe accadere di leggere, fra le rievocazioni del discorso che Mussolini tenne alla Camera il 3 gennaio 1925, che la costruzione del regime totalitario non fu la conseguenza di un proposito di trasformazione dello Stato, messo in atto dal partito fascista fin dalla "marcia su Roma", ma fu il prodotto di circostanze ed eventi in gran parte indipendenti dalle intenzioni originarie del fascismo e del suo duce.
Una simile tesi non sarebbe nuova. Circa venti anni fa, l'organo del Movimento sociale italiano scriveva: «Alla dittatura il fascismo pervenne per forza di cose, più che per vocazione». Una tesi analoga, ma diversamente motivata, era stata già proposta nel 1935 da Palmiro Togliatti nelle Lezioni sul fascismo. Anche storici autorevoli sostengono che il partito fascista, quando conquistò il potere, non aveva un progetto di Stato fascista, e che la svolta del 3 gennaio fu un'operazione compiuta da Mussolini per sbaragliare l'opposizione antifascista e per imbrigliare i fascisti intransigenti: il risultato sarebbe stato una dittatura personale, fondata sul compromesso fra il duce e le istituzioni tradizionali. Insomma, secondo questi storici, non vi sarebbe alcuna necessaria connessione, storica e politica, fra il 28 ottobre 1922 e il 3 gennaio 1925.
Questi giudizi sono storicamente molto discutibili. Essi ripetono, sul piano storiografico, un errore di sottovalutazione del fascismo, già commesso dagli antifascisti dopo la "marcia su Roma", quando la maggior parte di loro riteneva che il fascismo al potere sarebbe durato poco, perché era un movimento politico senza idee e senza autonomia. L'errore peggiorò dopo il delitto Matteotti, quando molti antifascisti diedero per imminente la morte politica di Mussolini e del fascismo. «Il fascismo si esaurisce e muore? esso è sorretto ancora dalle forze fiancheggiatrici, ma è sorretto così come la corda sostiene l´impiccato», disse Antonio Gramsci nell'agosto 1924. Negli stessi giorni Gaetano Salvemini scriveva: «Per fortuna siamo alla fine di questa disgustosa tragedia brigantesca e carnevalesca. La bestia è ferita a morte: Matteotti gli diede il primo colpo nella politica interna? Se non a novembre, a marzo sarà chiuso questo periodo vergognoso». Due settimane prima del 3 gennaio, Anna Kuliscioff sosteneva che «molti fatti nuovi confermano la putrefazione del cadavere e quindi la sua completa dissoluzione».
Il "cadavere", invece, era vivo e aggressivo, tanto che procedette energicamente alla demolizione del regime liberale, innalzando, nello stesso tempo, i muri maestri dello Stato nuovo fascista, con la definitiva soppressione di qualsiasi opposizione, come Mussolini stesso aveva annunciato alla vigilia della "marcia su Roma", quando era stato esplicito sulla differenza fra lo Stato liberale e il futuro Stato fascista: «Qui è la stoltezza dello Stato liberale: che dà la libertà a tutti, anche a coloro che se ne servono per abbatterlo. Noi non daremo questa libertà? Dividiamo gli italiani in tre categorie: gli italiani "indifferenti", che rimarranno nelle loro case ad attendere; i "simpatizzanti", che potranno circolare; e finalmente gli italiani "nemici", e questi non circoleranno».
È plausibile sostenere che la "marcia su Roma" non conduceva inevitabilmente alla nascita del regime totalitario. Tuttavia, da un punto di vista storico, appare più convincente, perché più corrispondente alla realtà, l´interpretazione di quei pochi antifascisti i quali, molto prima del 3 gennaio, compresero che l´avvento del fascismo al potere era inevitabilmente incompatibile con la sopravvivenza dello Stato liberale. Qualche antifascista seppe intuire, ancor prima della "marcia su Roma", quale sarebbe stato il tipo di regime che il partito fascista avrebbe realizzato se fosse giunto al potere. «Il fascismo - aveva scritto La Stampa il 18 luglio 1922 - è un movimento che tende con tutti i mezzi a impadronirsi dello Stato e di tutta la vita nazionale per stabilire la sua dittatura assoluta ed unica». Tuttavia, furono pochi gli antifascisti che, riflettendo sulle idee e sulle azioni del duce e dei fascisti dopo la conquista del potere, condivisero questa interpretazione. Il fascismo, scriveva Luigi Salvatorelli. nell'aprile 1923, mira ad attuare la «sua totale dittatura di partito - si vuole la dittatura di partito e il partito unico, cioè la soppressione dei partiti, cioè la fine della vita politica, come la si concepisce in Europa da 100 anni a questa parte». Va ricordato che i termini "totalitario" e "totalitarismo" furono coniati dagli antifascisti prima del 3 gennaio, proprio per definire la congenita vocazione dittatoriale del partito fascista. «Sistema totalitario» definì Giovanni Amendola, nel maggio 1923, i metodi fascisti «del dominio assoluto e dello spadroneggiamento completo ed incontrollato nel campo della vita politica ed amministrativa». Il 2 gennaio 1925 il sostantivo "totalitarismo" fu usato da Lelio Basso per descrivere i caratteri del nuovo Stato fascista, che il "partito milizia" stava costruendo fin dal suo avvento al potere.
La matrice del regime fascista non fu solo l'ambizione personale di Mussolini ma la cultura antidemocratica, la mentalità squadrista, l'organizzazione militaristica, la vocazione dittatoriale, che furono i caratteri originari e originali del fascismo come "partito milizia". «Il Partito armato, conduce al Regime totalitario», affermò Mussolini due anni dopo il discorso del 3 gennaio. Almeno questa volta, il duce aveva senz'altro ragione.

COME DISTINGUERE LE VARIE FORME DI TOTALITARISMO
Dittatura: che fine fanno il consenso e la legittimità
A differenza della tirannia antica, il fascismo non preparava un ritorno alla normalità
PAOLO VIOLA


La dittatura elimina o ridicolizza le elezioni. I ludi cartacei, dicevano i fascisti. Ma soprattutto cancella i controlli incrociati e i riconoscimenti reciproci che caratterizzano i sistemi politici moderni e danno voce ed equilibrio alle istanze plurali della società. La dittatura sospende dunque, ma in realtà durevolmente sopprime, quello che all'inglese chiamiamo il governo della legge, o alla tedesca lo stato di diritto. Non è tanto che non voglia verificare il consenso, anzi lo costruisce e lo corteggia, ma con altri sistemi rispetto alle elezioni: le adunate oceaniche, la comunicazione di massa; non con regole che istituiscono e legittimano poteri pluralistici.
Tanto amano il consenso, che le dittature nascono di solito vincendo le elezioni; e il fascismo non fa eccezione. Le ripudiano poi perché da subito proclamano che quel consenso non è costituzionalmente rilevante, e che sono legittimate dalla "salute pubblica", come diceva la rivoluzione francese o più chiaramente Robespierre dalla «più inesorabile delle leggi, la necessità». Le dittature si presentano a loro modo come democratiche: non legali, ma istituite dalla parte e in nome del popolo. Tiranniche perché usurpano la sovranità, dispotiche perché non ammettono ostacoli né limiti, totalitarie perché trasformano ciascuno in un ingranaggio di una macchina.
Il fascismo è stato insieme figlio dell'antiparlamentarismo conservatore, secondo il quale i sistemi rappresentativi selezionano i peggiori e favoriscono la corruzione; e della volontà di riportare l'ordine e imporre la concordia nazionale ad un paese devastato dalla guerra e lacerato dalla lotta di classe. Spazzava via la politica corrotta, si legittimava con la necessità, si sostituiva ad ogni altra sovranità, non riconosceva regole né freni e costruiva un sistema politico forte che si sarebbe presto autodefinito "regime".
A differenza della dittatura antica o garibaldina, il fascismo non preparava un ritorno alla normalità. Contrariamente alla rivoluzione francese, o ancora alla "dittatura del proletariato", non prefigurava l'avvento di una società migliore senza più oppressione o conflitti. Infatti non aveva una concezione ottimista, ma pessimista. Non dava luogo a qualcosa di meglio: era lui il meglio, rispetto ad una società egoista e smidollata. Non rispondeva a un temporaneo stato di necessità, ma fin dall'inizio si proclamò durevole: una risposta stabile alla necessità di governare un popolo di cui Mussolini aveva un'opinione bassissima, bisognoso di una lunga rieducazione. Voleva essere il sistema forte, necessario a dare agli italiani quel posto nel mondo che la gloria degli antichi aveva conquistato ma poi era stato irrimediabilmente perso. Non ci riuscì, e per questo gli venne meno la legittimazione che aveva proclamato.