lunedì 7 febbraio 2005

organicisti e feticisti:
il cervello di Einstein

Il Tempo 6.2.05
L’organo di Einstein, trafugato da un patologo, diventa il soggetto per un film di Hollywood Il cervello del genio si tinge di giallo
di FEDERICO DI TROCCHIO


A 50 ANNI esatti dalla morte di Albert Einstein il suo cervello, trafugato a suo tempo prima della cremazione, torna al centro dell'attenzione. Ed è naturalmente la televisione a promuovere l'evento. Il 17 gennaio l'emittente inglese Channel 4 ha mandato in onda in prima serata il documentario «The riddle of Einstein's brain» («Il giallo del cervello di Einstein») scritto e condotto per la Icon Film da due scienziati: il neurofisiologo Mark Lythgoe e il fisico Jim Al-Khalili, ambedue dell'University College di Londra. Hanno raccontato per l'ennesima volta la tortuosa odissea dei due grossi barattoli di vetro contenenti i 240 pezzi nei quali era stata divisa la più preziosa reliquia della genialità e hanno concluso con un "coup de théâtre" digitale: la costruzione di un modello tridimensionale dell'intero cervello basata sulle fotografie che vennero scattate subito dopo l'autopsia elaborate da un computer con la nuova tecnica della stereolythography. Si rinnova così, nella doppia ricorrenza del centenario della pubblicazione dei cinque articoli di Einstein che sconvolsero la fisica, e nel cinquantenario della morte dello scienziato, l'ingenua mitologia materialistica denunciata già nel 1957 da Roland Barthes in «Le cerveau d'Einstein». Neurologi e psicologi sanno bene che solo una parte (forse inessenziale) della genialità di Einstein può essere attribuita alla struttura del suo cervello, ma ciononostante in questi cinquant'anni a più riprese laboratori americani hanno analizzato fettine di quel cervello con risultati altrettanto incerti e vaghi di quelli ottenuti nello studio di minuscoli lembi della Sindone. Protagonista indiscusso è stato Thomas Harvey, l'uomo che, senza alcun motivo e senza alcuna autorizzazione, prelevò e fece a fette il cervello di Einstein, e che poi per cinquant'anni è andato in giro per l'America portandoselo dietro in due barattoli di vetro. Credeva che quel cervello avrebbe fatto la sua fortuna. Ma si sbagliava e, quando finalmente se ne è convinto, lo ha ceduto al Princeton Hospital, da dove lo aveva trafugato. La sua storia venne raccontata per la prima volta nel 1978 sul New Jersey Monthly da Steven Levy ed è stata poi ripresa in due libri (uno dei quali, «A spasso con Mr. Albert» di Michael Paterniti, è stato tradotto da Bompiani nel 2001) e in un video semiamatoriale prodotto dal fisico giapponese Kenji Sugimoto. Thomas Harvey era nel 1955 un giovane anatomopatologo del Princeton Hospital e aveva conosciuto Einstein una settimana prima che il fisico morisse, quando andò a casa sua per un prelievo di sangue e urine. Fu poi incaricato dell'autopsia, che fece in presenza di Otto Nathan, amico ed esecutore testamentario di Einstein, il quale però si tenne discretamente fuori dell'uscio e dichiarò poi di non essersi accorto dell'espianto del cervello, che nessuno del resto aveva autorizzato. Lo apprese il giorno dopo dalle pagine del New York Times e sia lui che Hans Albert, figlio di Einstein, si infuriarono e accusarono di furto il troppo disinvolto patologo. Ma non promossero alcuna azione legale contro di lui, sia per non creare uno scandalo sia perché la legislazione non offriva una rapida e chiara prospettiva di soluzione. Harvey portò il cervello a casa e da quel momento lo considerò proprietà personale, anche se questo gli costò il posto. Licenziato dall'ospedale girò infatti per l'America cambiando spesso attività, annunciando ogni tanto come imminente la pubblicazione dei risultati delle sue analisi sulla materia cerebrale di Einstein. Ma da solo non era in grado di approdare a nulla, e il suo nome è apparso solo come ultimo firmatario negli unici tre articoli scientifici pubblicati, in questi cinquant'anni, sulla struttura del cervello del padre della relatività. Ha concesso infatti fettine di quel cervello solo a chi gli ha garantito una "compartecipazione agli utili". La prima a ottenerle fu Marian Diamond, neuroanatomista della California University assieme alla quale pubblicò nel 1985, sulla rivista Experimental Neurology, «On the brain of a scientist: Albert Einstein». Da quell'articolo il mondo apprese che i neuroni di Einstein erano circondati da una quantità di cellule gliali (che hanno sostanzialmente una funzione nutritiva e di sostegno) superiore alla media. E questo faceva supporre che il suo cervello avesse un metabolismo più accelerato che poteva essere messa in rapporto con le prestazioni eccezionali. Dieci anni dopo Harvey si associò invece a Britt Anderson della University of Alabama per un nuovo studio. Questa volta risultò che la corteccia cerebrale del grande fisico presentava una singolare anomalia: era più sottile di quella dei comuni mortali, ma aveva una densità di neuroni molto superiore alla media. I cervelli di controllo erano, però, solo cinque. Nel 1999 fu Sandra Witelson, della McMaster University in Ontario (Canada), a poter disporre di parti del prezioso tessuto e assieme a lei e a Debra Kigar Harvey firmò l'articolo «The Exceptional Brain of Albert Einstein», apparso su «Lancet». La Witelson arrivò alla conclusione che nel corso dello sviluppo infantile le aree del linguaggio erano state parzialmente sacrificate a quelle della matematica. Il che quadrava con quanto si sapeva dello sviluppo mentale del piccolo Einstein, il quale cominciò a parlare solo a tre anni. Ma si trattava di cose già dette, e meglio, dallo storico della scienza Gerald Holton in un lungo saggio del 1972. Holton, uno dei più noti studiosi di Einstein, nonchè curatore delle carte dello scienziato conservate a Princeton, sostenne che i particolari successi ottenuti da Einstein possono essere attribuiti a un complesso di più fattori. Innanzitutto una peculiare struttura della personalità, definita da un lato da una forte capacità di rappresentazione visiva (legata probabilmente ad un predominio delle aree cerebrali deputate alla visione rispetto alle aree linguistiche), e dall'altro da un ritardo della competenza linguistica con difficoltà di linguaggio persistenti anche in età matura; in secondo luogo, ad una grande capacità di concentrazione associata ad una scarsa memoria e, infine, ad una grande (ma non eccezionale) abilità matematica. Sono queste forse le cose più sensate che si possono dire sulla singolare creatività dell'uomo che ha proposto l'immagine del mondo in cui oggi crede la scienza. E per dirle non c'era bisogno di trafugare il suo cervello, né di continuare a grufolare tra circonvoluzioni e neuroni. Il cervello di Einstein avrebbe potuto, e dovuto, seguire il resto del suo corpo che, secondo le disposizioni dello stesso scienziato, venne cremato in una cerimonia privata. Le ceneri vennero disperse sul fiume Delaware da Nathan alla presenza del figlio Hans Albert, della segretaria Helen Dukas e di pochi altri intimi. Il corpo di Einstein riposa, dunque, come quello di ogni altro comune mortale. È ormai escluso, invece, che il suo cervello trovi mai pace: la Paramount si è assicurata i diritti di riduzione cinematografica del libro di Paterniti, e il modello tridimensionale prodotto da Lythgoe e Al-Khalili (che sembra aver confermato le ipotesi della Witelson) ha riacceso l'interesse degli scienziati. Elliot Krauss, patologo capo al Princeton Hospital, e attuale custode dei due preziosi barattoli di vetro, ha dichiarato che il cervello verrà conservato nella speranza che tecniche di analisi nuove e più sofisticate vengano messe a punto in futuro. Nel frattempo piccoli campioni verranno messi a disposizione di tutti i ricercatori che forniranno credenziali affidabili.