domenica 6 febbraio 2005

sinistra
intervista a Bertinotti del Corsera, il congresso ds e altro

Corriere della Sera 6.2.05
L’INTERVISTA
Il leader prc: Saddam? Ci sono anche altri dittatori
Bertinotti al contrattacco
«A Fassino dico che la resistenza non è solo andare alle urne»
Monica Guerzoni

ROMA - Segretario Fausto Bertinotti, il ministro Pisanu accusa: c’è una sinistra estremista che confina con l’eversione e il cui punto di riferimento è Toni Negri.
«Sono stupito che una persona che ha fatto della civiltà dei rapporti una sua divisa sia incorso in una valutazione offensiva per una parte importante del popolo italiano. Pisanu tenta di riempire l’invettiva anticomunista di Berlusconi con un nuovo anticomunismo e prende di mira il popolo. A meno di una rapida smentita, sono dichiarazioni inquietanti. Berlusconi dice che i comunisti sono il male e Pisanu aggiunge che il male, oggi, sono i movimenti. Il suo atto di accusa non è contro Bertinotti, né contro Negri. Siamo alla demonizzazione del popolo di sinistra, che sarebbe percorso da pulsioni estremistiche ed eversive».
La sinistra antagonista strizza l’occhio alla guerriglia, se non al terrorismo?
«Non è questo il punto. Non viene fatto un attacco alla sinistra antagonista, ma al popolo e allo Stato di diritto. Se il disegno è trasformare il Paese in una fortezza in guerra, è chiaro che uno che sta lì a spiegare la sua scelta non violenta resta inascoltato».
Nessuna simpatia per il terrorismo, quindi.
«Non tutti i terrorismi sono uguali e poi c’è una differenza di fondo tra terrorismo e resistenza, quella che si manifesta sulla base di un punto riconosciuto dal diritto internazionale, il diritto di opporsi con ogni mezzo all’occupazione del proprio Paese. Ritenere questa resistenza legittima non vuol dire nutrire simpatie».
Il manifesto chiede che «chi ha scatenato questa follia» ora liberi Giuliana Sgrena.
«Giusto, questa esposizione al rischio che ha portato al rapimento di Giuliana è stata prodotta anche dall’intervento militare. Il governo deve creare un clima politico che faccia passare un linguaggio opposto a quello della guerra, come è stato per le due Simona e sottolineare che Giuliana è una testimone delle sofferenze del popolo iracheno, una giornalista che nutre un’avversione dichiarata al partito della guerra, all’amministrazione di Bush e degli alleati».
Fassino ha definito resistenza gli otto milioni di iracheni andati alle urne. Uno strappo riformista?
«È vero che il riformismo è in crisi e ha bisogno di essere definito, ma trovo sgradevole che si chiami riformista qualunque affermazione che venga condivisa. La resistenza all’oppressione può avere moltissime forme, escluso il terrorismo che è fratello gemello della guerra. Anche nel voto si manifesta una resistenza, ma si manifesta anche la richiesta di indipendenza il che non è in contraddizione con la denuncia di una guerra che aumenta il terrorismo».
Cosa pensa della sentenza che ha distinto tra guerriglia e terrorismo? Pisanu accusa i giudici di non aver tratto una lezione dagli anni di piombo.
«Siamo alla demolizione totale del diritto. Stabilito che il popolo è eversivo, è quasi evidente che venga considerato eversivo tutto ciò che non è reclutabile in senso militare nella nuova crociata, quindi quel giudice che si appella alla legge è anche lui eversivo».
Magari accusare la sinistra di sottovalutare il terrorismo è esagerato, ma non è troppo anche entusiasmarsi per la liberazione di Daki?
«Dobbiamo essere contenti per chiunque venga liberato dopo esser stato giudicato, in un processo, incolpevole».
E se la persona liberata ha legami con Al Zarkawi?
«Se Pisanu ha le prove è chiaro che il quadro cambia. Il punto è sempre quello, se anche il terrorismo viene combattuto con le armi dello Stato di diritto o se c’è la sospensione del medesimo. Io dico no a processi politici in violazione dello Stato di diritto».
Fassino ha riconosciuto che la sinistra non ha fatto molto per cacciare Saddam, forse scendere in piazza con le bandiere arcobaleno non basta.
«Il movimento per la pace ha mosso coscienze, ha spostato opinioni. È vero, non ha sconfitto Saddam ma non abbiamo neanche vinto contro la guerra di Bush e non per questo penso che quel movimento sia inutile. Se guardo a Zapatero che vince e ritira le truppe dico "ben scavato, vecchia talpa"».
E se guarda al vo to in Iraq?
«Se ottieni un risultato giusto con un mezzo barbarico non hai fatto la cosa buona e oggi l’Iraq è terra di barbarie. È giusto chiedersi cosa fa la sinistra per consentire la diffusione della democrazia, ma a Piero dico "scegliamo un po’ di dittatori e proviamo a vedere cosa dobbiamo fare perché cadano. Ci sono dittature anche in giganteschi Paesi"».
Allude agli Stati Uniti?
«Valga quel che ho detto».
Se i Ds si asterranno sul voto che rifinanzia la missione in Iraq Prodi dovrà scegliere, o Fassino o Bertinotti.
«Bisogna vedere come andrà il dibattito, ma credo che andremo uniti al voto contrario. Mi pare difficile che Fassino possa astenersi, sarebbe incoerente con quel che ha votato fin qui. A meno che Piero non dica che la guerra è diventata buona».

Liberazione 6.5.05
Tra social-democrazia e post-Dc
di Rina Gagliardi


L'impressione, mentre si chiude il sipario del terzo congresso diessino, è che il treno della Federazione, e forse del Partito riformista, si sia davvero messo in moto: prossima stazione, Palazzo Chigi. Una prospettiva concreta di governo, di rivincita, di "rinascita" - in fondo tra soli quindici mesi - che basta a rendere sideralmente lontane le assisi di Pesaro: ieri, pochissimi anni fa, dalla Quercia promanava un messaggio malinconico, diviso, rassegnato, di una forza che aveva perso e non capiva in realtà nemmeno perché aveva perso; oggi, quella stessa forza diffonde non si dirà inni di allegria, ma la sicurezza di potercela fare - e di essere anzi ad un passo dalla vittoria, dal diventare, da capo, la nuova classe dirigente del Paese. Una fiducia diffusa (parola-chiave, non a caso, di tanti interventi), una inedita unità interna, un nuovo "patto" tra corpo del partito e gruppo dirigente, dove la diarchia D'Alema-Fassino non appare insidiata, a breve, né dall'outsider "di lusso" Walter Veltroni né dagli emergenti o precocemente invecchiati (Cofferati) o ancora confinati nelle pur potenti periferie regionali (Bassolino, Martini) - e neppure, ahimè, da una sinistra interna tanto generosa quanto oggi davvero ridotta a minoranza. Che cosa sperare di più e di meglio, alla fin fine? S'intende, dal punto di vista della sinistra moderata e dell'opposizione di cui i Ds costituiscono, a tutt'oggi, il partito maggiore. E infatti Piero Fassino, nella sua replica-conclusione, è apparso più che rinfrancato - a tratti perfino frizzante (per quanto possa esser frizzante un piemontese che non sia uno spumante). Eppure, sono almeno tre i paradossi con cui proprio questo "successo" congressuale è destinato a scontrarsi.
Il primo paradosso è che il partito dei Ds, più appare in miglior salute, più tende a sciogliersi, trascendersi, "autosuperarsi". Più è pluralista, composito, articolato, meno tende ad assumere una forma solida. Una forza, insomma, in permanente divenire - come se "la sindrome della Bolognina" fosse a tutt'oggi viva e operante, a dispetto del fatto che il suo autore, Achille Occhetto, non sia più da tempo nel partito.
Appunto: se la linea strategica auspicata dai leader principali (e implicita in Fassino, rimasto prudente per evidenti ragioni tattiche) avrà successo, nel giro di pochissimi anni la vecchia Quercia sarà solo un ricordo, e andrà a far parte di un "contenitore" più grande ("il soggetto riformista" destinato ad essere il motore della Gad) il quale a sua volta sarà il perno di un'alleanza più grande, destinata quasi "naturalmente" all'approdo del partito unico. Del resto, non è questa la conseguenza coerente di un'impostazione che ha assunto il Governo (la governance, per dirla in inglese, fa più fino) come fattore centrale della politica (e del far politica) e, alla fin fine, della verifica della propria identità? E se la dialettica è, convintamente, quella bipolare, maggioritaria e "alternanzistica", in nome di che i diversi riformismi di centrosinistra, quello postcomunista e quello postdemocristiano in particolare, dovrebbero rimanere separati in eterno? In questa pratica "scatolare" della politica (concepita come una sorta di sequenza infinita di scatole), è il partito, come tale, che rischia di smarrire la sua funzione. E proprio nel momento in cui esso, quasi, si ritrova, si riconosce, si rispecchia nel messaggio rassicurante, e al fondo "partitista", del suo presidente D'Alema.
Il secondo paradosso è che, nei meandri futuri del partito riformista (ma anche della Fed), è la sinistra che rischia di non sapere più dov'è e dove si colloca. Anche questo accade nell'esatto momento in cui i Ds recuperano un rapporto più netto con l'identità socialdemocratica e con alcuni dei suoi orizzonti peculiari (il rilancio della spesa pubblica e dell'intervento dello Stato, l'uso della leva fiscale, l'universalità del Welfare). E' pur vero che l'intervento più di sinistra del congresso (tra gli interventi dei leader) l'ha fatto Romano Prodi (ecco un ulteriore paradosso, quello in virtù del quale un ex-democristiano può essere più innovativo, più attento a sottolineare una soluzione di continuità rispetto al vecchio Ulivo, e meno preoccupato della centralità del mercato e dell'impresa privata, di molti ex-comunisti). Ma Prodi, come è noto, oggi non rappresenta certo né la Margherita né il "centro geometrico" dell'alleanza: come leader consapevole anche delle carte tattiche ed emotive che deve giocare, l'ex-presidente della Ue può rivolgersi al popolo della Quercia con l'epiteto per lui inconsueto di "compagni" e stabilire con esso un feeling non formale. Ma domani? Chi sarà ad imprimere la sua "cifra", la sua cultura politica, la sua impronta, al nuovo soggetto riformista? La sinistra, per quanto in una versione "rosa" e postclassista, o il centrismo perbene, e nemmeno laico, dei Rutelli? E a quale schieramento internazionale aderirà, prima o poi, questa neo-formazione, all'Internazionale socialista o al Partito popolare? Il Congresso non solo non ha sciolto questi interrogativi, li ha se mai rilanciati.
Il terzo e ultimo paradosso è che tutto questo può tradursi in concrete proposte programmatiche, e in una pratica politica riformatrice, oppure, al contrario, può rimanere prigioniero del passato e della vecchia esperienza ulivista. Nella replica di Fassino, questa ambiguità (che per molti sarebbe il sale della politica) era molto evidente: tra la tentazione continuista, la voglia di rifare, più o meno, quel che è stato già fatto, e la necessità di innovare, rompendo fino in fondo con i tabu neoliberisti e con prospettive che la realtà si è incaricata di falsificare. Sarà la politica, giust'appunto, a sciogliere, nella verifica dei processi reali, l'interrogativo: i Ds vogliono tentar di essere davvero un partito socialdemocratico o preferiscono ecumenicamente imitare la vecchia Dc?

Repubblica 6.2.05
BERTINOTTI: SI ACCOLGA SUBITO RICHIESTA DI PANNELLA


Fausto Bertinotti ha ribadito in una nota la necessità per il centrosinistra di accogliere immediatamente la richiesta di ospitalità avanzata qualche giorno fa da Marco Pannella. "La richiesta di Pannella all'Alleanza Democratica di dare corso al lavoro di ricerca e di formalizzazione dell'ospitalità va immediatamente raccolta - ha scritto il leader del Prc - L'Alleanza Democratica è investita da una domanda forte di unità e di pluralismo che viene dal suo popolo e che si rivolge a tutte le sue componenti, come si è visto anche nel recente congresso dei Ds". Bertinotti ha concluso ribadendo che "l'ospitalità ai Radicali è un modo in più per raccogliere questa domanda che è anche una domanda di costruire un' alternativa alle destre".

Aprileonline.info 6.2.05
Giovedì erano i Ds, oggi non si sa
Congresso Ds. Partito, Federazione o Grande Alleanza? Nessuno dei tre, in pole position va il partito riformista
Andrea Rustichelli


Finalmente, dopo giorni di frenetiche ruminazioni, abbiamo la soluzione del rebus di questo terzo Congresso Ds: il significato (letterale, allegorico, spirituale e mistico) della struttura scenografica a triplice spirale rossa, che troneggiava sul palco del Palalottomatica. La prima voluta, il cuore della spirale, simboleggia senz’altro il partito; la seconda, quella intermedia, è la Fed; mentre la terza, quella esterna e più ampia, è la Gad. Facile, no?
C’è una certa logica, in effetti. Un po’ didascalica ma coerente. Perché il Congresso ha seguito questa triplice scansione: ponendo l’accento, tuttavia, più che altro sulla seconda voluta della spirale, cioè la Fed: che, come dice Veltroni, è un mezzo e non il fine.
Conviene allora sciorinare un’altra interpretazione, probabilmente più calzante della prima. Dove il cerchio interno resta il partito (quasi al passato), il secondo resta la Fed (presente), mentre il terzo diventa il partito riformista del futuro: il tutto, lungo l’asse temporale che ormai illumina la strada dischiusa dai principali relatori di questi tre giorni.
Un Congresso caloroso e senza retorica: andato bene, oltre le tiepide aspettative di chi non si sentiva troppo allineato alla mozione della schiacciante maggioranza interna. Un Congresso di tutto il partito – almeno così appariva visto dagli spalti -, al di là della sua composizione. Ha ragione Lidia Ravera, quando scrive sull’Unità di ieri di aver provato un sentimento, “caldo e imprevedibile, di appartenenza”.
È proprio così: al Palalottomatica c’era l’Italia che potrebbe piacere molto, quella in grado di prendere il governo del Paese perché sa finalmente esprimere una classe dirigente di livello, che lungo i tre giorni ha illustrato concrete linee di azione politica, coniugandole a espressioni dal sapore fragrante: come “contaminazione”, “felicità”, “nuova sinistra”, “paese più bello”.
Così, col contributo di tutti, il partito si è dato una rappresentazione plausibile e solida, anche nutrendo con la passione delle idee quelle che nelle ultime settimane erano diventate parole d’ordine già logore. E ora che succede? Domani è un altro giorno, in questo centrosinistra che va da Bertinotti a Mastella, passando per Rutelli. Riusciranno le suggestioni che al Congresso hanno preso corpo a configurare una coerente realtà? Se lo chiedono tutti, naturalmente.
Sono necessarie molte ulteriori condizioni affinché la spinta delle idee, per quanto buone, produca dei fatti politici all’altezza: l’eterogenesi dei fini, dice qualcuno; che è cosa ben più ruvida, imprevedibile e insidiosa del palco congressuale del Palalottomatica.
Già la relazione di Epifani, per dirne una, pone un problema molto serio: quando il segretario Cgil parla con opportuna forza della priorità di una politica della redistribuzione del reddito: da perseguire non con la patrimoniale, dice, e tanto meno con la riforma delle pensioni. Le politiche sociali sono un campo d’azione urgente e cruciale, da tutti riconosciuto come tale. Eppure sembra proprio questo uno dei luoghi a grandissima potenzialità conflittuale nella federazione del neo-Ulivo.
Dopo il Congresso, dunque, c’è la realtà delle alleanze da costruire, con le relative dialettiche interne, talvolta torbide. Vediamo quanto a lungo l’ottimismo riformista, con la sua suadente e pulitissima realtà (quasi in vitro), riuscirà a irradiarsi. E non basterà, forse, l’acclamato “compagne e compagni”, premurosamente rivolto da Romano Prodi.