Corriere della Sera 18.3.05
DIBATTITO
La discussione avviata da Sergio Luzzatto sugli sviluppi della politica italiana dopo l’assassinio del presidente dc
L’unità antifascista era finita. Il delitto Moro la seppellì
di LUCIANO CAFAGNA
L’assassinio di Aldo Moro è un evento storico ancora presente nella coscienza di coloro che, di qualsiasi età, l’abbiano vissuto. Si continuano a girare film su quell’episodio, a scrivere libri, a parlarne sui giornali. È rimasto presente, quel fatto orribile, come momento, forse attimo, di vita intensamente collettiva. In senso passivo, come scossa ricevuta, ad alta tensione. Ma anche in senso attivo. E mi spiego. Gli italiani, infatti, dopo quel terribile evento, non furono più gli stessi del giorno prima. Non lo furono i cittadini semplici, non lo furono i politici e i politicizzati, non lo furono gli stessi anti-cittadini, gli «antagonisti» di allora. Nei cittadini semplici si fece più nettamente strada la persuasione che la drammaticità della convivenza politica fosse giunta, in quei micidiali anni Settanta, a un punto di saturazione, di insopportabilità. Bisognava finirla con quella violenza insensata. E bisognava finirla pure con una politica troppo permissiva, con la tolleranza verso l’ostilità alle funzioni stesse dell’ordine pubblico, e a chi le assolveva. E forse anche con le idee di compromesso a ogni costo, con la prassi che era stata dello stesso Moro.
Non abbiamo molto di più del rapporto fra i dati elettorali del 20 giugno 1976 e quelli del 3 giugno 1979 (Moro fu ucciso il 9 maggio 1978) per documentare attendibilmente le reazioni d’opinione intervenute dopo il delitto Moro. Il primo effetto che salta agli occhi è l’incremento di quasi 3 punti nell’astensionismo elettorale, accompagnato da un paio di punti di aumento nella percentuale dei voti non validi (schede bianche o annullate). La seconda indicazione è la vistosa perdita di voti comunisti, il 4%, non compensata affatto dal molto lieve incremento della sinistra estremista. La terza indicazione è che l’elettorato si era spostato, ma non a destra: anzi il neofascismo perdeva addirittura. La quarta indicazione è la rimarchevole affermazione del partito radicale che tocca il 3,5%.
Si può tentare una interpretazione di questo che è forse - se si considera la brevità dell’intervallo temporale - uno dei più rimarchevoli mutamenti nell’orientamento degli elettori italiani prima degli incerti assestamenti degli anni Ottanta che sfoceranno alla fine nella rivoluzione elettorale del 1994. La consultazione elettorale successiva al delitto Moro avviò in Italia l’inesorabile deriva dell’astensionismo elettorale che ancora continua. Significò, in quel momento, paura o disgusto per la politica, e, chissà, rinuncia, per molti, a illusioni nutrite. Segnò anche un regresso della fiducia che si era andata formando, negli anni precedenti, nei confronti di un partito comunista che appariva serio, pragmatico, moderato, sempre meno filosovietico. Una parte non piccola di coloro che avevano pensato questo si ravvide, probabilmente pensando che, al di là del nuovo volto responsabile, si dovesse piuttosto tener conto di una istigazione originaria attivata dal comunismo, quella che aveva contribuito a diffondere i batteri che erano poi evoluti nel terrorismo. (Una importante ideologa della sinistra, la Rossanda, parlò di «album di famiglia» riconoscibile nella cultura del terrorismo). Dove andarono quei voti? In parte si dispersero, in parte, forse, andarono ai radicali che apparivano allora come un progressismo modernizzante pulito, deciso ma non violento, pragmatico, scevro di ideologie. I voti democristiani rimasero sostanzialmente allo stesso livello del 1976. Sarebbe stato terribile che venisse addirittura punito il partito della vittima: e gli italiani non lo fecero.
In sostanza, il delitto Moro, pose fine alla tremenda crisi degli anni Settanta, crisi politica «organica» avrebbe detto Gramsci, «prova d’orchestra», cioè, insubordinazione generalizzata nella società, secondo la parodia, di immensa amarezza, di un nostro grande regista. Da quel giorno cominciò a tornare il rispetto sociale reciproco e prese a scemare il tasso di violenza nei rapporti politici e sociali.
L’apprezzamento per la mediazione eroica ad ogni costo - che era stata propria del disperato genio politico di Aldo Moro - fece posto - nella cittadinanza politicizzata - all’attesa di un leader forte e decisionista: ma, importantissimo sottolinearlo, non «reazionario». Forse la Prima Repubblica finì con quella tragedia: perché questa aveva concluso il lento fallimento del mito del CLN, di una recuperabile unità antifascista «da dopoguerra»: il mito che aveva accompagnato ambiguamente e senza chiarezza la storia politica italiana dalla fine della egemonia democristiana di De Gasperi alla crisi del centrosinistra anni 60, fino a un abbozzo di «compromesso storico» - ancora il mito del resistenziale CLN - bersagliato da pallottole. Una delle quali raggiunse colui che resterà il più grande capro espiatorio della nostra storia.
Dopo Moro venne Craxi, con una idea, non per caso, di «grande riforma»: era l’idea di una «seconda repubblica». Quella «grande riforma», però, non ci fu. L’assassinio di Moro chiuse la prima repubblica. Ma non aprì la strada alla seconda.
Luciano Cafagna, storico, studioso di Cavour e Toqueville, autore di numerose pubblicazioni, è stato professore di Storia contemporanea all’Università di Pisa, presidente della Società italiana per lo studio della Storia contemporanea e commissario dell’Autorità garante per il mercato e la concorrenza Riformista, in passato vicino al Psi, oggi è presidente dell’associazione «Libertà eguale» che raccoglie l’area liberal dell’Ulivo
Il dibattito sul legame tra il caso Moro e la fine del patto resistenziale si è aperto con un intervento di Sergio Luzzatto sul «Corriere» di martedì 15 marzo. L’articolo prendeva spunto da un recente libro di Agostino Giovagnoli dedicato al rapimento dello statista dc In risposta a Luzzatto, sul «Corriere» del 17 marzo, Michele Salvati ha messo in discussione l’ipotesi che il delitto Moro abbia segnato la fine dell’unità nazionale scaturita dall’antifascismo
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
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