venerdì 18 marzo 2005

«Si dice creatività, si pronuncia nevrosi.
O addirittura psicosi»

Corriere della Sera 18.3.05
La critica analitica di Elio Gioanola applicata ai grandi del ’900:
nei conflitti irrisolti dell’inconscio la chiave del successo artistico
le nevrosi dei geni


Si dice creatività, si pronuncia nevrosi. O addirittura psicosi. La tesi di Elio Gioanola è presto detta: «Dietro e dentro l'opera c'è sempre la presenza di un conflitto pulsionale, di un desiderio inibito e deviato, di una sofferenza». Gioanola infatti è un critico psicanalitico della letteratura. Uno dei pochi. Perché in Italia, come dimostra il saggio introduttivo del suo nuovo libro ( Psicanalisi e interpretazione letteraria , Jaca Book, pagg. 446, 24 ), quello tra psicanalisi e letteratura è sempre stato un rapporto difficile. I nomi, dopo quello di Giacomo Debenedetti, sono noti: Stefano Agosti, Francesco Orlando, Mario Lavagetto e pochissimi altri. I numerosi saggi contenuti nel volume di Gioanola sono sondaggi che vanno «al di là della compiutezza formale» dell'opera letteraria per indagare le «zone oscure del fantasmatico profondo». Detto in parole povere, analizzano i testi in relazione al vissuto dei loro autori, alle loro fantasie, paure, ossessioni, e viceversa. Rifiutando un biografismo di superficie ma anche quella sacralità del testo come un tutto chiuso e spiegabile in sé. Opponendosi dunque alle letture strutturaliste o sociologico-marxiste che hanno segnato molta parte della nostra critica.
«La tradizione idealistica italiana - dice Gioanola - ha influito sulla critica italiana per oltre mezzo secolo: c'è stata una specie di storicismo radicale che ha impedito una vera attenzione alla psicanalisi». Dunque, da Leopardi a Pascoli, da Saba a Montale, da Caproni a Sanguineti, tutta la letteratura italiana moderna si trova qui raccolta sotto i fari dell'analisi dell'inconscio. Da questo e dagli studi precedenti di Gioanola, viene fuori, volendo, una mappa dei nostri scrittori come «casi clinici». A cominciare da quelli che il critico considera i più gravi: Luigi Pirandello, Federigo Tozzi e Carlo Emilio Gadda. Vediamo.
«La personalità di Pirandello - dice Gioanola - ha a che vedere con una vera e propria psicosi, con una compromissione della consistenza dell'io. Nel Fu Mattia Pascal , l'identità del protagonista è impossibile, una personalità che tende a scindersi e un io che esplode». Passando dal personaggio al suo creatore, le cose stanno diversamente, ma non troppo. «La condizione psicologica dello scrittore è quella di uno schizoide sano di mente, per così dire, uno schizoide che non diventa schizofrenico ma che è tendenzialmente scisso. Nelle lettere alla sorella, Pirandello rivela un'ossessione della follia che poi si incrementa quando si sposa con Antonietta, con esplicite manifestazioni di sessuofobia». Altra storia quella di Italo Svevo, suo contemporaneo. «L'io di Svevo è un io integro, che però stenta a rapportarsi al reale. Svevo soffre di una nevrosi isterica che ritroviamo in Zeno: tutti i personaggi sveviani comprano l'amore. Si pensi alla tabaccaia di Zeno, che per integrare le entrate si dà alla prostituzione». Il problema di Tozzi è un altro: il padre. «Basta leggere Con gli occhi chiusi , dove c'è un padre violento che fa pensare al padre di Kafka. Anche la violenza espressionistica di Tozzi è una ribellione verso il padre. La madre, viceversa, era una povera vittima che però, come quella di Kafka, alla fine sta al gioco di suo marito contro il figlio».
Tolto il caso di Dino Campana, la cui «écriture en folie» è piena di tautologie e di balbettamenti tipici del delirio psicotico, per trovare un caso di malcelata follia, si arriva subito all'ingegner Gadda. «Un nevrotico ossessivo», secondo Gioanola, «che spesso si spinge fino alla paranoia: non dimentichiamo che Gadda negli ultimi anni vedeva minacce d'ogni genere e persino assassini dappertutto». ovviamente anche qui il rapporto con i genitori è cruciale. «Un vero e proprio lapsus è contenuto in una sintesi biografica di Gadda, dove invece che "famiglia paterna" parla della sua "famiglia padreterno". Più lapsus di questo...». Gioanola ricorda un episodio ormai leggendario: quando il critico Vigorelli si presentò sotto casa Gadda e chiese al citofono se ci fosse lo scrittore, la madre di Carlo Emilio rispose: «Quale scrittore, qui c'è l'ingegner Gadda», e lo cacciò.
Altro caso clinico complesso per le relazioni familiari è quello di Giovanni Pascoli, cui Gioanola ha anche dedicato una monografia intitolata Sentimenti filiali di un parricida : «Pascoli non è capace di parlare da uomo, - dice - in lui c'è una netta dominanza del materno e la figura del padre è un ingombro sulla strada dell'identificazione con la madre: c'è un infantilismo anche espressivo che è adesione all'originario, regressione verso l'arcaico e rifiuto di ogni idea di progresso. Per questo, quando suo padre muore si sviluppa in lui un senso di colpa che lo porta a una devozione smodata verso la famiglia d'origine. Dall'Ottocento in poi il poeta si sente oppresso dalla modernità e rivendica un'adesione alla natura: è impressionante come in poesia si moltiplichino le figure dell'oppressione: donne, ebrei, omosessuali...».
Sul versante opposto rispetto al Pascoli, c'è l'estroverso D'Annunzio, per il quale «nulla è segreto e tutto va esibito»; non per nulla, se il Vate ammirava il poeta-fanciullino, non si può dire che sia valido l'inverso. «L'esibizionismo sfrenato di D'Annunzio - dice Gioanola - nasconde una vocazione oscura: il poeta della vitalità per eccellenza è in realtà attratto dalla morte e ossessionato dal suicidio. C'è in lui un delirio di onnipotenza tale che non può trovare un corrispettivo se non nella morte». La stessa vocazione di Pavese? Non proprio, con Pavese siamo altrove. Siamo nell'ambito di una malinconia leopardiana che «non è semplice malattia dell'animo, ma senso di in appartenenza e di deiezione, incapacità di identificarsi con la ragione: la vigna della sua campagna per Pavese è al di là, come un infinito leopardiano. E' una nostalgia radicale per ciò che è andato perduto senza mai essere stato posseduto, una speranza disperata perché rivolta all'indietro». Questo malessere è aggravato dalle circostanze storico-biografiche: «Nel decadente Pavese la malinconia o l’inadeguatezza del vivere è rafforzata dal fatto che si viene a trovare in un ambiente laico-illuministico, la Torino degli anni Venti, che sente estraneo. Il nevrotico Pavese è incapace di risolvere la propria malinconia nella cultura data, positivistica e razionalista».
Il poeta è un Narciso? Se passiamo a Umberto Saba, la risposta è: sì. «Saba è un narcisista radicale. Lavagetto riconduce Saba alla presenza di Edipo come instauratore del mito "donna che non si può avere". Ma io gli oppongo Oreste, cioè il mito del matricida e dell'omosessuale che ama Pilade: la sessualità non è ancora un oggetto dato, dunque siamo in zone preedipiche, molto arcaiche». Non per nulla Saba, alla nascita, fu abbandonato da sua madre che disse: «se volete coprirlo, copritelo». Il padre era fuggito subito dopo le nozze e il piccolo Umberto fu dato subito a balia. Nasce da lì il risentimento per la madre, che diventa «faccia marmorea», e insieme «un'identificazione dell'io con il ruolo materno»: il poeta diventa la madre che non ha avuto. Il matrimonio con Lina, spiega Gioanola, farà precipitare il poeta in una crisi depressiva: «malinconia da scelta mancata dell'autentico oggetto d'amore». Quale? Il «bel fanciullo appassionato», ovviamente. Una scelta erotica che verrà raccontata nel romanzo Ernesto .
Opposta e speculare a quella di Saba è la condizione psicologica di Eugenio Montale: «Ha voluto essere il padre, - dice Gioanola, - meglio, non si è arreso alla tentazione materna ma senza riuscire a identificarsi con il padre». Figlio di un commerciante che vendeva trielina al suocero di Svevo, figlio dunque della borghesia mercantile, Eugenio cresce a famiglia e lavoro. Il padre è padreterno. «C'è tutto un filone novecentesco - ricorda Gioanola - di figli nevrotici e geniali di padri commercianti: Svevo, Kafka, Mann. Il padre di Montale voleva un figlio ragioniere». Se la Triste sabina è madre, il mare degli Ossi è tutto nel segno del padre. «Il paterno è qualcosa che si vorrebbe inutilmente conseguire: da qui si instaura una fantasmatica della caccia, investita di una carica di emozioni primarie legate al rapporto conflittuale padre-figlio». Come spesso accade, è una caccia che paralizza nel vivere ma che dà energia alla «angelica farfalla» della poesia.