domenica 27 marzo 2005

PIETRO INGRAO

L'Unità 26 Marzo 2005
Orizzonti
compleanni
I 90 anni di Pietro Ingrao
Storia di un ragazzo che voleva fare il poeta e che il Novecento trascinò al comunismo

Bruno Gravagnuolo

«Sono stato trascinato alla politica rompendo con tanti amori. Volevo fare dei film, occuparmi di poesia. Amavo Chaplin, Leopardi, Ungaretti, Montale. Ed ero tutto proiettato verso quel mondo. Poi è arrivata la bufera del Novecento. Il secolo mi ha preso per il collo e mi ha consegnato alla politica. E andata così e non me ne pento affatto». Sono giorni di vigilia in casa Ingrao. In attesa di mercoledì 30 marzo, allorché il grande dirigente del Pci compirà i suoi primi 90 anni, tra cerimonie ufficiali e l’affetto dei figli suoi e di Laura, «che gli ha insegnò a capire i carcerati». Quei figli rispetto ai quali, confessa divertito, «d’essere senza dubbio e a tutt’oggi più a sinistra». E allora, a distanza di un anno dall’ultima volta (quando parlammo degli 80 anni dell’Unità e di Ingrao «inventore» de l’Unità moderna) torniamo di nuovo a casa sua. Nell’appartamento luminoso di Via Balzani a Roma, tra i dipinti di Vespignani, Chagall e Guttuso, così «in rima» col suo ’900. E per un’occasione ancora più speciale. Perché si tratta di parlare di una vita intera. Delle sue scelte di fondo. Dei crocevia esistenziali. Delle cose fatte bene, e di quelle fatte male o non fatte. E tra le cose ben fatte per Ingrao c’è senz’altro la milizia nel Pci, il partito a cui ha dedicato l’esistenza. Del quale dice: «È stato un grande partito di popolo che ha guidato la Resistenza e ci ha resi più liberi». Benché poi per Ingrao quello stesso partito sia stato «colpevole di ritardi ed errori. Che hanno contribuito alla sua fine nel 1989. E indirettamente anche alla deriva moderata, da cui è uscito Berlusconi». Ma c’è una parola chiave che è la sintesi dell’avventura umana di Pietro Ingrao: comunismo. Ecco, nel festeggiare questo compleanno con lui, vogliamo chiedergli proprio questo, a mo’ di filo conduttore: che senso ha per lui quella parola? Perché non intende abbandonarla? E perchè anzi la rilancia, dopo il crollo di un’intera tradizione? Sentiamo.
Vorrei cominciare da una questione «biografica» ineludibile: il tuo rapporto con il comunismo. Ebbene, la tua recente adesione a Rifondazione è una riconferma, oppure è una revisione del tuo essere comunista?
«Mi pare indubbio che sia una riconferma. Fino a prova contraria Rifondazione si definisce comunista, o no? Del resto non ho mai avvertito dentro di me una rottura con l’ideale e la prospettiva comunista, benché sia convinto di aver commesso molti errori nella mia vita. Così come sono persuaso che il comunismo marxista, leninista e stalinista - quello del ’900 di cui sono figlio - abbia commesso tanti sbagli. Al punto da sfociare in una palese sconfitta storica. Nondimeno io resto legato all’ideale comunista».
Rivendichi piena coerenza con la tua milizia nel Pci, variante del comunismo novecentesco?
«Certo che la rivendico. E tuttavia vedo oggi con chiarezza non solo gli errori commessi dal comunismo leninista, ma anche quelli di cui porto la responsabilità personale...».
Quali furono all’interno del Pci gli errori più gravi e le scelte mancate che rimpiangi?
«Uno su tutti: il 1956. Allora vennnero alla luce i crimini e le deviazioni di Stalin e dello stalinismo. Ma in quel momento mancarono, sia da parte del Pci sia da parte mia, l’autocritica e la correzione necessaria»
Se non sbaglio tu distingi tra leninismo e stalinismo. Ma ravvisi ancora nell’Ottobre 1917 una data spartiacque. Non credi però che già il leninismo contenesse in sé tante tragiche deviazioni?
«Senza dubbio la Rivoluzione d’Ottobre è un grande spartiacque storico mondiale. Culminato nella conquista del potere da parte di due partiti comunisti: sovietico e cinese. E addirittura nella fondazione di un impero. È altresì vero però che l’errore di fondo non sta solo nello stalinismo, ma risiede già nel leninismo. E a tale conclusione sono arrivato tardi, diciamo alla fine degli anni 60. E ci sono arrivato ragionando sulla libertà. Sulla libertà come pratica politica di confronto e di dibattito dentro il partito. Nell’organizzazione leninista infatti, già ai tempi di Lenin, non era prevista libertà di ricerca e di confronto tra posizioni diverse o contrapposte».
Cos’è che a un certo punto hai avvertito come insostenibile: il modello di società? La violenza di partito? La dittatura del proletariato o che altro?
«Da un certo momento in poi tutto ciò ha rappresentato per me un serio problema. Qualcosa di inaggirabile. Anche perché la dittatura del proletariato nella versione di Marx era l’indicazione di una tendenza generale del mondo. Di un processo di socializzazione democratica della politica. Viceversa, nell’accezione leninista e russa, essa conteneva una tara di fondo sulla questione della libertà. Un vizio legato all’oppressione e alla repressione esercitata dal partito concepito da Lenin».
La tua critica investe dunque la Terza Internazionale. Hai mai pensato che si potesse ricostruire un altro filo muovendo da un’altra tradizione, cioè dal socialismo europeo?
«Ci ho pensato, specie dalla seconda metà degli anni 70 in poi. Posso raccontarti a riguardo un episodio preciso, che concerne la mia vita, risalente al 1978-79. Ero stato presidente della Camera sino al termine della legislatura interrotta dalla morte di Moro. In quel frangente viene riconfermato l’impegno per una presidenza comunista della Camera, anche per la legislatura sucessiva. Il partito mi chiede perciò di ricoprire ancora quell’incarico, ma io rifiuto. Ricordo aspre discussioni in direzione, per indurmi ad accettare. Con Pecchioli che si alza e mi intima di obbedire, in nome della disciplina di partito. Tenni duro e dissi ancora di no. Tanti anni dopo ebbi la soddisfazione di sentirmi dire dallo stesso Pecchioli che era stato lui a sbagliare, anche se egli ribadì di non comprendere le ragioni del mio rifiuto. E adesso lo dico a te il motivo. Sentivo il bisogno di rileggere l’accaduto di tutti quegli anni. E la questione che più mi stava a cuore era proprio quella a cui tu alludevi: capire quel che era stato il socialismo europeo. Avvertivo infatti la crisi che attraversava non solo il comunismo europeo, ma anche quello italiano. E volevo capire quanta parte di verità c’era in quel socialismo continentale, che storicamente era stato oggetto di forte condanna da parte del Pci».
Ti interessavano i padri - Kautsky, Bernstein, Adler - oppure i moderni eredi della Spd e delle altre socialdemocrazie?
«Gli uni e gli altri. Con particolare attenzione alla socialdemocrazia di allora: Brandt e Palme prima di tutto. Naturalmente distinguevo tra la destra socialdemocratica e la sinistra. In particolare mi interessava la sinistra giovanile tedesca degli Yusos. Ad ogni modo io rifiutai di ridiventare presidente della Camera, da un lato perché avvertivo l’esigenza di riflettere sui comunismo leninista e stalinista. E dall’altro per riprendere contatto con quelle forze socialdemocratiche con le quali pensavo si dovesse stabilire un rapporto, dopo la sconfitta ormai annunciata e incipiente del comunismo sovietico».
Mentre il Pci rifluisce e s’arrocca nella riproposizione del compromesso storico, tu scopri la Riforma dello Stato. Quello poteva essere un terreno di incontro con i socialisti italiani. E invece...
«I socialisti italiani in quel momento sono Craxi. Tuttavia c’era ancora a quel tempo un socialismo al quale resto molto legato. Quello di Riccardo Lombardi e della sinistra del Psi. Con loro mantenevo un dialogo aperto. Per costruire assieme una saldatura tra culture che avrebbe potuto impedire l’egemonia craxiana. Ma era una realtà, quella del socialismo europeo, con la quale noi del Pci non avevamo un vero rapporto.
Perciò volevo conoscere i tedeschi, gli austriaci, gli svedesi. Per vedere se esisteva un mondo del socialismo con il quale ci si potesse intendere. Ma tutto questo è finito in una sconfitta. Una sconfitta comune».
Veniamo al fatidico 1989. All’anno della svolta Pds che ti ha visto contrario al punto di uscire poi dal partito. Non si poteva anticipare quella svolta? Condizionarla e spingerla in direzione di quel socialismo di cui parlavi? E non è stato infecondo dire soltanto no da parte tua?
«No. Non erano possibili altre strade. Io ho detto di no, ma sono rimasto a lungo nel partito a combattere come minoranza, mentre una parte se ne andava. Occhetto aveva in testa un approdo radicalmente diverso da quello di un partito socialista di sinistra. E non solo lui. Anche D’Alema. Dal mio punto di vista poi i Ds, sebbene aderiscano al socialismo europeo, rappresentano ormai una forza moderata e di centro. Personalmente lo compresi quasi subito. Certo, ho sperato all’inizio che la posizione di D’Alema fosse diversa. Che con lui fosse possibile sviluppare una discussione. Ma ho dovuto rendermi conto che anche lui aveva in mente un modello ben lontano dai partiti socialisti. Insomma, erano e sono molto più moderati di Brandt. E i fatti lo hanno confermato. Meglio prenderne atto. Quanto a me mi riconosco in altri valori. I valori della sinistra, del movimento operaio, della liberazione del lavoro».
E invece, al di là della tradizione, da dove ricomincia per te la sinistra?
«Il partito della Rifondazione al quale mi sono iscritto mi pare rilanci proprio il grande obiettivo della liberazione del lavoro. Quello della lotta contro lo sfruttamento. In nome della riappropriazione da parte dei lavoratori del loro destino e del loro “fare”. Su questo si innesta oggi una grande e ulteriore idealità, che in passato non era così centrale: la pace. Non a caso Bertinotti parla oggi di non-violenza».
La non-violenza senza specificazioni non rischia di cristallizzarsi in qualcosa di mistico e persino di religioso?
«La non-violenza è un definirsi in rapporto alla storia e a quel che siamo stati. Ebbene, il marxismo metteva al centro un’idea di rivoluzione non solo sociale e di valori, ma anche armata di forza. Il potere andava preso materialmente. Con le armi. Di qui il mito di una rivoluzione che si impadroniva dei punti chiave dello stato ed estrometteva i borghesi. C’era in questo un’idea di naturale violenza, ribadita da Marx e poi da Lenin. Oggi viceversa si ipotizza la possibilità di prendere, o meglio, di raggiungere il potere. Senza ricorrere all’urto armato e cioè ad una logica che la mia generazione politica non ha mai escluso dal suo orizzonte».
Eppure già il Pci nuovo di Togliatti non contemplava più la violenza dello scontro armato. Propugnava anzi la via pacifica ed escludeva la violenza rivoluzionaria....
«Non sono d’accordo con te. Tanta parte del quadro comunista nel dopoguerra pensava ancora all’ora X. Almeno fino agli anni 60. Prova ne sia che negli anni 70 è emersa una componente, quella del brigatismo rosso, che aveva addentellati nel Pci...».
Un parentela sovversiva molto alla lontana. Quelli erano gli eredi di un estremismo che fu subito battuto e sconfitto da Togliatti nell’immediato dopoguerra.
«Ma alcuni di quegli estremisti erano comunisti. A Reggio Emilia c’era una quota di brigatisti che provenivano dal ceppo comunista. E poi Togliatti non ha mai detto che il socialismo non si doveva fare con le armi. Trovami una pagina in cui lo escluda in linea di principio. Io stesso, che pure non sono mai stato un estremista, ho pensato a lungo che sarebbe scattato un momento in cui gli altri ci avrebbero costretto allo scontro armato. Del resto non è un mistero come a a più riprese nel dopoguerra ci sia venuto dal partito l’ordine di andare a dormire fuori casa».
D’accordo, il Piano Solo e la strategia della tensione. Ma davvero sostieni che la presa violenta del potere fosse tra gli obiettivi del Pci? Francamente a me non pare affatto.
«Si supponeva seriamente che l’avversario potesse spostare il terreno dello scontro. E la storia ci dà conferma di tentativi e trame di questo tipo. Come che sia, per tornare alla non-violenza, essa vuole esprimere la distanza da un’intera epoca nella quale la violenza era considerata inseparabile dalla politica. Il che non significa che i comunisti debbano starsene inerti a subire la violenza, che non occuperanno più le terre in Brasile, o che non intraprenderanno più azioni organizzate di massa, anche energiche. L’importante - ecco il punto - è disinnescare il rapporto fino ad oggi ineluttabile e necessario tra la politica e la violenza. Un nesso tipico della politica novecentesca, e non solo della politica comunista. Consentimi infine di ricordare che è proprio l’accento messo oggi da Bush sulla guerra preventiva - e sulla violenza necessaria ad affermare i valori e il predominio Usa - a rendere attuale su scala planetaria il tema della non-violenza. In una con i diritti civili, democratici e sociali contro ogni forma di oppressione e di gerarchia imperiale fondata sulla guerra».
Torniamo più da vicino alla tua biografia. Ai Littoriali e al tuo fascismo giovanile, in passato oggetto di polemiche. Come avvenne il tuo passaggio al comunismo?
«Sono stato avanguardista, e poi nei Guf. E ho condiviso almeno una parte dell’ideologia fascista. Scrissi nel 1934 a diciannove anni una poesia, brutta in verità, dedicata alla fondazione di Littoria. E partecipavo del clima di allora. Ma proprio ai Littoriali di Firenze e di Roma conobbi dei coetanei, che mi aiutarono a a rifiutare il fascismo. Vuoi qualche nome? Antonio Amendola, uno dei figli di Giovanni Amendola - nonché fratello di Pietro e Giorgio - che era già un antifascista scatenato. Gli anni decisivi della svolta per me furono quelli tra il 1934 e il 1937, quando a Roma si formò un gruppo di giovani, già antifascisti o divenuti tali da poco. E il capofila era Bruno Sanguinetti, figlio del proprietario dell’Arrigoni, a cui devo molto».
Quando giunse per te il momento preciso della rottura politica col fascismo e su quale punto?
«Con la guerra di Spagna, nel 1936. Quando arrivai alla conclusione che non solo non ero più fascista, ma che intendevo combattere a fondo il regime. Compresi allora la natura violenta, irrazionale e bellicista del fascismo, impegnato a rovesciare la democrazia spagnola. Cambiano così il clima e i discorsi. Prima, con Amendola, parlavamo di ragazze, di libri e di film, girando a piedi in quella Roma e senza una lira in tasca. Dopo, la politica diviene assolutamente centrale. Del resto con Hitler ormai al potere, era iniziata la persecuzione di tanti intellettuali in Germania. Di quelli che amavo di più. Ad esempio stravedevo per Rudolph Arnheim, il grande teorico del cinema, costretto poi ad emigrare. Lo incontravo a Villa Torlonia, alla rivista Cinema diretta da Vittorio Mussolini. Proprio Arnheim mi raccontava della tragedia nazista e contribuì ad orientarmi verso l’antifascismo. Il mio fu un cammino lento. Lungo il quale fui aiutato anche da uomini come Alicata, Trombadori, Bufalini, Lucio Lombardo Radice, già schierati contro il fascismo e che facevano opera di proselitismo e di cospirazione, contro le indicazioni di Benedetto Croce. Quel Croce al quale essi avevano scritto, e che li aveva invitati a studiare. Fu così che anche io divenni un cospiratore».
Cospiratore per amore o per forza?
«Amavo la poesia e il cinema, ieri come oggi. Ho studiato al Centro Sperimentale per un anno. Nato in un borgo di provincia ero appassionato all’espressione estetica, all’incastro delle parole. Poi qualcuno mi ha detto: “non se ne parla, sei nato in un’altro secolo!” Chi? Quei coetanei di cui ti raccontavo. Che mi dicevano: “fai pure le tue poesie, ma non vedi la guerra, quell’operaio sfruttato, quelli che soffrono?” Sono loro che mi hanno tirato dentro la politica, le bufere del secolo e il comunismo»
E a chi ti chiede se ne valesse la pena, visti i tragici prezzi del comunismo, che rispondi?
«Rispondo che malgrado gli errori che lo hanno portato alla sconfitta il comunismo ha evocato la grande questione di questo secolo: la liberazione del lavoro. Ci sono milioni e milioni persone nel mondo che subiscono e soffrono in ginocchio. E liberarle è ancora la questione del mio tempo».

La biografia

Pietro Ingrao è nato a Lenola (Latina) il 30 marzo 1915. Laureato in Legge partecipa all’antifascismo romano ed entra nel Partito Comunista. Lavora alla stampa clandestina de «l’Unità» e ne diviene direttore dal 1948 al 1957. Sposa Laura Lombardo Radice dalla quale ha cinque figli.E della quale parla «Soltanto una vita» (Baldini e Castoldi Dalai) libro a cura della terzogenita Chiara. Membro della segreteria del Pci dal 1956. Deputato per la prima volta nel 1948. Nel 1968 è presidente del gruppo parlamentare Pci. Nel 1972 è responsabile del Coordinamento Regioni della Direzione Pci. Presidente del «Centro per la Riforma dello Stato» è Presidente della Camera dal 1976 al 1979. Non si è più ricandidato dal 1992, dopo essere uscito dal Pds, Autore di saggi di poesia e cinema, e libri come «Masse e potere» (Editori Riuniti) ha aderito a Rifondazione comunista. Tra i libri che parlano di lui, «Le cose impossibili», con Nicola Tranfaglia (Editori Riuniti) e il recente «Pietro Ingrao», a cura di Antonio Gallo, (Sperling & Kupfer).

La febbre di Pietro
la febbre della sinistra
Gianni D'Elia

Pietro commuove, verso di lui si sente solo un moto d’amore. L’affetto verso Pietro credo che sia comune a molti compagni della sinistra italiana, nuova e vecchia. E pare un affetto molto più lungo della diretta conoscenza di Pietro, che per me risale al 1998. Una Festa dell’Unità, a Bologna, dove si parlava dell’attualità della poesia leopardiana. Dirlo in un’Italia così, sembra quasi assurdo. Dietro la nostra Costituzione, che oggi la destra sconcia a quel modo, c’è la grande cultura italiana, umiliata da questa politica vergognosa. Una cultura, che facendo politica, non ha mai dimenticato l’unità dell’essere umano; una cultura che vorrebbe ritornare a contare qualcosa, dentro la politica, a cominciare dall’educazione dei giovani, che devono essere strappati alla idiozia imperante. Ecco, Pietro è stato ed è anche poeta, perché quella sua generazione, e anche quella classe politica d’opposizione a cui appartiene, non ha mai abiurato dall’umanesimo, perché non ha mai abiurato dall’umano, e dalla giustizia umana.
L’alta febbre del fare, così il poeta Ingrao; bastano i suoi titoli illuminanti, dopo questo, che resta un contrassegno dell’azione poetica e politica, disegnate in un’utopia concreta, esistenziale: la condivisione, il comunismo spirituale, sui nodi marxiani di storia e natura, per una liberazione possibile dalla necessità e dal dominio dell’uno su tutti. Questo affetto comune verso di lui, è dunque qualcosa di politico e di poetico insieme; è la nostra cultura migliore, nell’unità del fare e del dire, del trovare, che noi amiamo in lui.
Il compagno disarmato è un trovare ideologico, che ci serve oggi, nella lotta di adesso, come ieri. Per i compagni giovani del decennio dopo il ’68, Ingrao resta la sinistra del Pci, l’alternativa che non c’è stata, il disarmo come antico nodo del suo pensiero politico: il disarmo militare, europeo e mondiale, non certo il disarmo ideologico e organizzativo della democrazia di base, antifascista e repubblicana, non repubblichina!
Il cinema, la poesia, la politica viva, non sono stati forse anche gli amori dei nuovi compagni, dopo Ingrao? Come in una sequenza di Bertolucci, padre e figli, lui è giovane per intuito, per aspettativa, per consonanza con chi è venuto dopo, con gli stessi sogni e le stesse passioni: la pace. Chi ha gridato più forte con la ragione, in questi anni brutti, contro la guerra, sono stati in Italia due poeti diversi: Pietro Ingrao e Mario Luzi. E se altri facessero altrettanto?
Diciamo grazie a Pietro Ingrao, per avere tenuto unite, da sempre, la cultura alla politica, la poesia alla sinistra.
Abbiamo bisogno di entrambe, per sconfiggere i barbari...

Perché lo scontro con Amendola
Reichlin e Macaluso raccontano
b.gr.

Che cos’è stato e che cosa rappresenta oggi Pietro Ingrao, nella percezione e nel giudizio di chi nel Pci lo ha conosciuto bene, e magari anche contrastato, pur dentro un legame fortissimo di fraternità e stima? Lo abbiamo chiesto a due ex dirigenti comunisti, Alfredo Reichlin ed Emanuele Macaluso. Il primo, «ingraiano» di formazione, e redattore capo al tempo de l’Unità di Ingrao. Il secondo di ascendenza amendoliana e riformista, e anche lui come Reichlin ex direttore de l’Unità. Due amici di Pietro, di collocazione e storia diversa, all’insegna della comune matrice togliattiana.
«Ingrao - dice Reichlin - è stato il simbolo di un legame generazionale decisivo, quello tra il partito di Togliatti e una nuova leva di intellettuali italiani nel dopoguerra. In questo senso proprio l’Unità moderna, che lui ha inventato, non più classico giornale di partito, è stata una vera scuola di formazione culturale. Il terreno d’elezione di una classe dirigente per l’Italia, come era negli intendimenti di Togliatti». Un’operazione innovativa e contrastata, che suscitò «gelosie», culminata con l’ingresso di Ingrao in segreteria nel 1956. Perché? «Perché - dice Reichlin - eravamo accusati di essere frivoli, evasivi, di non celebrare l’Urss e di fare un giornale borghese». Ecco, uno come Ingrao non era «un burocrate, ma un grande organizzatore di cultura e di opinione e si vedeva nella passione con cui faceva il giornale». E le sfide politiche di Ingrao? La disfida con Amendola e «l’ingraismo»? «Il punto centrale - spiega Reichlin - fu la battaglia all’XI congresso del 1966 sul “modello di sviluppo”, da cui uscì sconfitto». Lì, oltre a porre la questione della democrazia interna Pietro «pose il problema delle grandi trasformazioni del capitalismo italiano, non più arretrato, come diceva Amendola, ma bisognoso d’essere guidato e governato lungo l’asse di un inedito sviluppo, a partire dai punti alti già raggiunti in quell’Italia in movimento, e che fosse in linea con la modernizzazione necessaria del sistema-paese». Insomma, erano gli anni del centro-sinistra, della nuova classe operaia, dei consumi di massa, del neocapitalismo. E Ingrao per Reichlin intercettava tutto questo, con largo anticipo sui tempi. Ma come? «Proponendo di cambiare il tipo di sviluppo economico, superando i bassi salari, allargando il mercato e il ventaglio dei bisogni, fuori dai rivoli corporativi della protesta, e imprimendo un segno democratico al meccanismo dell’accumulazione». In altri termini, una visione programmatoria di sinistra, dove per Reichlin «era Ingrao il riformista e non Amendola, fermo invece alla arretratezza e alla democrazia mancata in Italia». Queste in sintesi per Reichlin le tre sfide di Ingrao, che restano: «Pluralismo e democrazia interna nel Pci; strategia di alternativa economica; e la riforma istituzionale, un tema che intravide tra i primi, quando il sistema politico italiano entrò in crisi irreversibile». E oggi che cosa manda a dire Reichlin al compagno Ingrao: «Gli mando gli auguri ovviamente, e gli ripeto che sono stato felice quando mi ha inviato un biglietto nel quale, a proposito di un mio articolo sull’Unità, mi scrisse che malgrado tutti i dissensi lui “capisce la mia lingua”. Sì, non siamo d’accordo su nulla oggi, ma ci capiamo. E abbiamo ancora in comune una vecchia passione: cambiare le cose del mondo».
Tocca a Macaluso, che non condivide la visione programmatoria attribuita da Reichlin a Ingrao: «Ingrao fu un’anima chiave del Pci, ma non la sola. E fu forza e debolezza del Pci. Ha attratto infatti verso la legalità il sovversivismo movimentista, ma ha anche infiacchito la vocazione di governo del Pci». E il modello di sviluppo? «Il programmatore era Amendola. Ingrao viceversa contrapponeva al capitalismo un modello alternativo, un po’ come Riccardo Lombardi. La sua ipotesi politica poggiava sull’alternativa secca di sinistra al centrosinistra. E Pietro non accettava la sfida e le possibilità intrinseche al centrosinistra, al contrario di Amendola e di un certo Togliatti». E la democrazia interna al Pci e nel paese? «Fornì a riguardo un grande contributo, ma fu condizionato come tutti noi dal rito dell’unità di partito, come sul Manifesto. Quanto alle riforme istituzionali, le mise a fuoco con merito. Ma il limite fu un impasto di decisionismo e radicalismo democratico». E infine, presente e futuro di Ingrao per Macaluso: «Mi addolora che sia uscito dal Pds. Doveva restare, anche se in minoranza. Ma è un bene che abbia trovato in Rifondazione una comunità politica per esprimersi. Gli auguro con tutto il mio affetto che possa continuare a essere se stesso. A riflettere, e a combattere».

Mercoledì all’Auditorium di Roma una giornata intera in suo onore: da Scola a Castellina, da Veltroni a Lerner
Musica, cinema e poesia, una festa tutta per lui
Francesca De Sanctis


Festa grande all’Auditorium Parco della Musica di Roma per i novant’anni di Pietro Ingrao. Il Comune e la Fondazione Musica per Roma hanno programmato una giornata all’insegna della storia della sinistra e di piccole grandi sorprese. «Auditorium e Comune hanno voluto questa festa perché Pietro Ingrao non è solo una grande personalità della Sinistra italiana, ma una grande personalità della Repubblica italiana ed è stato un grande presidente della Camera dei Deputati in anni molto difficili - ricorda Goffredo Bettini, presidente di Musica per Roma -. D’altra parte la stessa Camera dei Deputati dedica a lui una giornata di studio e di approfondimento. Dunque, era doveroso che il Comune di Roma festeggiasse un uomo che ha combattuto il nazifascismo a Roma». E l’Auditorium Parco della Musica non poteva essere lo spazio migliore per ospitare gli invitati di questa festa. «Per me poi - continua Bettini - Pietro Ingrao è stato molto importante dal punto di vista della formazione politica. Da trent’anni mi lega a lui un’amicizia molto salda, per questo ho detto subito sì a questa festa».
La giornata di mercoledì 30 marzo non sarà formale o istituzionale, piuttosto, come tutte le feste di compleanno, sarà piena di amici che vorranno festeggiarlo. «Sarà un incontro scandito da alcuni eventi, per esempio le testimonianze e gli auguri dei suoi amici e di persone che gli vogliono bene e lo stimano (il sindaco Walter Veltroni, il regista Ettore Scola, Luciana Castellina, Gianni D’Elia, presentati da Gad Lerner, ore 18). Poi, sulla base di una intervista sul cinema che ama Ingrao fatta un paio di settimane fa, faremo un piccolo regalo a Pietro. Da questa intervista abbiamo tratto un breve filmato che gli regaleremo mercoledì in cui Pietro parla degli autori che ha amato, Chaplin in particolare, e in cui ci sono delle immagini di film che cita e delle immagini di Pietro stesso, sarà una sorpresa per lui. Questo è il regalo che il Comune di Roma e l’Auditorium gli faranno per il suo novantesimo compleanno. Il film è realizzato da Mario Sesti».
Toccherà ad un giovane pianista, Michelangelo Carbonara, dare avvio al concerto conclusivo della serata. Eseguirà al pianoforte le musiche che ama Ingrao, quelle di Bach e di Vivaldi. «Un’altra piccola chicca di questa festa riguarda Luca Zingaretti - prosegue Bettini - che ha registrato una lunga lettera inedita scritta da Ingrao nel ’92 in risposta ad un articolo che io scrissi su Paese sera e nella quale tracciavo il profilo politico e intellettuale di Ingrao. Lui mi rispose con una lettera che sarà pubblicata in un libriccino assieme alla mia risposta a quella lettera. È un modo di proseguire quel dialogo iniziato allora». Il libro uscirà mercoledì e s’intitola Una lettera di Pietro Ingrao. Una risposta di Goffredo Bettini (Alberto Olivetti, Cadmo).
«Nel foyer Santa Cecilia - aggiunge Bettini - verrà inaugurata anche una mostra di quadri di Alberto Olivetti ispirati da Ingrao e dipinti a Lenola nell’estate del 1984, nella casa di famiglia. Questi dipinti sono raccolti in un catalogo la cui prefazione è stata scritta da Rossana Rossanda. Infine, nello spazio Risonanze che ci è stato concesso da Santa Cecilia, ci sarà una esposizione a cura dell’Archivio Ingrao con alcuni carteggi inediti di Pietro».
Dalle 17.30, in poi, dunque, la festa prenderà il via con l’apertura delle mostre e proseguirà fino a sera.