lunedì 21 marzo 2005

Pietro Ingrao
un'intervista sul Corriere

Corriere della Sera 21.3.05
«Resto comunista. Ma non tollero Castro e di Mao ebbi paura»
Ingrao: evitai di difendere i compagni del «manifesto»
L’amarezza più grande
Aldo Cazzullo

Sono novanta gli anni che compirà il 31 marzo Pietro Ingrao, decano del comunismo italiano. Ma è del 1868 la prima cospirazione familiare. «Mio nonno Francesco era nato a un passo da Agrigento, a Grotte, paese di zolfatari, contadini e proprietari terrieri, come era appunto per la famiglia Ingrao. Francesco è una figura del Risorgimento: cospiratore antiborbonico dagli anni del liceo, e mazziniano: combatte con Garibaldi a Varese, poi tesse congiure repubblicane contro i moderati, e nel '68 sta per essere ammanettato dalla polizia regia sabauda. Riesce a fuggire nascondendosi nelle campagne di Caltanissetta; poi risale la penisola fino a Napoli, quindi a Lenola, dove vive uno zio, cospiratore anche lui ai tempi della Carboneria. Lenola è a un passo dal confine dello Stato Pontificio; quando c'è odore di sbirri, Francesco scavalca la frontiera e trova salvezza a Roma, ancora papalina. Ma a Lenola s'innamora della cugina Marianna, giovanissima. Quell'amore viene scoperto dal padre di Marianna; mio nonno fa atto di pentimento e torna in Sicilia. Ma dopo lunghe traversie quel matrimonio si farà. Francesco resterà a Lenola e diventerà sindaco». Contò nella sua vita questo nonno garibaldino?
«Quando morì avevo tre anni. Mi pare di ricordare un pomeriggio in cui mi vengono a prendere all'asilo. Sul viottolo che porta a casa, mi dicono: "E' morto il nonno". Di lui mi è rimasta la leggenda, e il ricordo del suo studio rimasto intatto e serrato: come una pagina di memoria intoccabile. Io vi entrai da grande. Avrò avuto diciotto anni».
Dove ha studiato?
«A Formia, splendida città di mare, in un liceo dal nome antico: Vitruvio Pollione. Lì ho avuto la fortuna di incontrare due professori di filosofia giovanissimi e antifascisti: prima Pilo Alberelli e poi, in terza liceo, Gioacchino Gesmundo. E Gesmundo sceglierà come libro di testo il Breviario di estetica di Croce, un autore allora quasi proibito. Ambedue quei miei maestri, di cui poi fui anche amico, cospirarono nella Resistenza romana e periranno alle Ardeatine. Al liceo però io ero ancora lontano dall'antifascismo. Avevo scoperto, nelle terze pagine dei giornali, Ungaretti, Montale, Saba, Quasimodo. Quei lirici nuovi mi affascinavano".
E partecipò ai Littoriali della Cultura del 1934.
«Sì. A quelli di critica teatrale, con la proposta di un Teatro sperimentale: avevo in mente le esperienze di un regista di genio, Anton Giulio Bragaglia. E alla gara di poesia, con una breve lirica che si intitolava Coro per la nascita di una città : esaltava Littoria e la bonifica delle Paludi pontine fatta dal regime. Era una poesia francamente brutta, ma a quei Littoriali di Firenze arrivò terza, dopo i testi di Sinisgalli e Bertolucci. Anni più tardi, quando ormai lavoravo all' Unità dopo la partecipazione alle dure lotte della Resistenza, quella poesia su Littoria mi fu rinfacciata da un giornale di destra, Il Tempo mi pare. Arrossii di vergogna. Chiesi a Togliatti se dovevo lasciare quel giornale di Gramsci. Togliatti mi rispose con una sghignazzata: "Perché vuoi fare questo favore a dei balordi reazionari?"».
Chi c'era con lei ai Littoriali?
«Giovani che mi aiutarono a entrare nel mio tempo: Antonio Amendola, figlio di Giovanni, che si può dire mi trascinò nella cospirazione, e Gianni Puccini, che mi insegnò quasi tutto sul cinema. Con Antonio, Achille Corona e altri della mia generazione - da Bufalini, ad Alicata, a Lombardo Radice, a Trombadori e soprattutto a Bruno Sanguinetti - il tema della cospirazione divenne un discorso assorbente. Poi giunse quel fatale 1936 e la guerra di Spagna. E tutto si accelerò».
Pensò di andare a combattere contro Franco?
«Sì, e ne parlammo anche in quel gruppo iniziale di comunisti romani. Ma dal partito venne l'indicazione che bisognava restare e lottare in Italia».
Dove conobbe sua moglie.
«Ci faceva da staffetta una ragazza, Laura Lombardo Radice. C'era sempre il timore di essere seguiti dalla polizia fascista: prendevamo i tram al volo per sottrarci ai pedinamenti, e avevamo concordato una copertura: Laura e io dovevamo fingere di essere fidanzati. Un giorno le feci una carezza, e lei mi fermò: "Che credi di fare? Ricordati che siamo fidanzati solo per finta". Siamo stati insieme tutta la vita. Abbiamo avuto cinque figli, otto nipoti, tre pronipoti, più un quarto in arrivo».
Avevate guide nelle generazioni precedenti?
«No. I capi comunisti erano quasi tutti esuli. Ci rivolgemmo a Croce con una lettera in cui chiedevamo sostegno nella cospirazione contro il regime. Ci rispose: studiate. Noi invece volevamo costruire la lotta concreta, tra la gente».
Dopo la Resistenza, lei per un decennio diresse l’Unità . Com'era il Togliatti «editore»?
«Rispetto ad Amendola, Alicata, Pajetta, con cui ebbi scontri politici duri, Togliatti era più aperto all'ascolto e al dialogo: comunicavo più con lui di quanto non sia accaduto poi con Berlinguer. Una grande figura: si impicciava molto nella fattura del giornale. Mi mandava bigliettini per criticare certi nostri articoli; mi indicava come modello editoriale un testo di Léon Daudet che cominciava spiegando tre modi di fare la frittata; ma io non leggevo Daudet, lo consideravo un odioso reazionario. Aveva poi una simpatia per Gorresio, con cui gareggiava in citazioni letterarie, e una grande ammirazione per Missiroli, che a me pareva noiosissimo. Anche gli articoli di Togliatti avevano certe pedanterie: per esempio sosteneva che si scriveva "arme" e non "arma". Quando parlava alla Camera, la sera veniva in redazione a rileggere la stesura del testo, a correggere, a limare. Nella polemica con Vittorini scrisse cose non buone; la letteratura del '900 non la capiva e non gli piaceva. Andavo a trovare Togliatti nella casa a Montesacro che divideva con Nilde Iotti; avevano un mastino terribile, per entrare dovevo attendere che uscisse Togliatti ad ammansirlo. Nel partito c'era stata ostilità perché egli si era separato dalla Montagnana, e lui soffriva per quella meschina bigotteria».
Molti dirigenti del Pci soffrirono per amore, in quel periodo.
«Li si può capire. Avevano passato la giovinezza in carcere e in esilio, quasi senza famiglia. Nella libertà riscoprirono la passione amorosa».
L'XI congresso fu segnato dal suo scontro con Amendola; riformista, ma sempre schierato con l'Urss.
«Amendola non era amico dell'Urss, però sosteneva che non dovessimo impicciarci nelle sue vicende. Più che un esito socialista, aveva in mente la modernizzazione del capitalismo. Ed era un tipo molto imperioso, che mi combatté in modo pesante. Avemmo faccia a faccia talora drammatici, talora comici. Un giorno mi chiude in un angolo e mi dice: guarda che se fai così finisci male. Risposi con una parolaccia. Un'altra volta, prima della riunione della segreteria che deve decidere la successione a Longo, mi prende da parte, nell'anticamera del grande salone di Botteghe Oscure - un palazzo che non mi affascinava, con quei corridoi interminabili -, e mi fa: io non mi candido se mi prometti che non ti candidi neppure tu. Ma era un accordo privo di senso: si sapeva già che nessuno di noi due sarebbe diventato segretario».
Si è mai pentito di essere diventato comunista?
«Assolutamente no. Resta il meglio della mia vita: ciò che ho cercato di dare al mondo degli oppressi e degli sfruttati. Mi sono pentito, se si può dire così, di pesanti errori che ho compiuto nella mia lunga vita di militante comunista».
Quali errori?
«Forse il più grave fu nell'autunno del '56, quando sull' Unità scrissi un pessimo articolo che attaccava gli insorti di Budapest che si ribellavano ai sovietici. E un errore persino assurdo fu quando approvai la radiazione dal Pci del gruppo di compagni e compagne che avevano fondato il manifesto. Con quei compagni avevo condotto tante lotte insieme. Eppure esitai a rompere una gretta e anche stupida disciplina di partito».
Lei aveva sostenuto il «diritto al dissenso».
«E il dibattito su quel tema mi ha lasciato una grande amarezza. Io rivendicavo il diritto al dissenso. Ma ho sempre temuto la frantumazione della sinistra. Non volli rompere l'unità del partito di classe, sapevo che i miei amici avrebbero costituito un nuovo soggetto fatalmente minore. Questo non mi ha impedito di lavorare in seguito al loro fianco. In certe cose avevano ragione loro, e io sbagliavo. Ricordo tra l'altro una riunione cui partecipò anche il giovane Bertinotti, con Santonastasi, Tortorella e Rossana Rossanda».
Le critiche della Rossanda al congresso di Rifondazione sono state interpretate con malizia. Quasi ci fosse tra voi un'ombra di rivalità.
«Non è così. La Rossanda, come gli altri amici del manifesto , non mi ha mai fatto pesare quel mio errore. Sono sempre stati gentili con me. Rossana l'ho conosciuta a Milano, alla fine degli anni Cinquanta, e ne ho sempre apprezzato l'intelligenza e anche il fascino».
E' d'accordo con lei anche quando include le Br nell'«album di famiglia» del comunismo italiano?
«No, su questo no. Io ho sempre pensato che le Br non avessero nulla a che fare con noi. Quel Moretti, ad esempio, che la Rossanda ha intervistato in un libro, mi sembrava una figura dubbia. Ho sempre ritenuto possibile che le Br fossero infiltrate e strumentalizzate; e Moro non era simpatico né ai servizi americani né a quelli sovietici. Lo dissi anche a mia moglie: questa non è gente nostra. Lei però mi rispose: e chi te lo dice? Magari sei tu che sbagli».
Quando uscì il Libro nero del comunismo , lei non fu tra chi lo criticò.
«Nel '57 a Mosca sentii parlare Mao. Diceva che il comunismo avrebbe prevalso, a prezzo di milioni di morti. Mi parve un'affermazione spaventosa».
Neppure Castro l'ha mai affascinata.
«Quando prese il potere passai un mese a Cuba. E Castro non mi piacque per nulla. Parlava per ore, senza ascoltare mai. Incontrai Che Guevara: emanava un fascino grande, ma fu sprezzante verso la sinistra europea, che gli pareva "imborghesita". Si andava in spiaggia e ci spiegavano che tutto, anche le sedie a sdraio, apparteneva allo Stato. Ma il comunismo non poteva essere lo Stato bagnino».
Ora, a 90 anni, si è iscritto a Rifondazione. Perché?
«Prima di tutto sono e mi sento ancora comunista. E poi cerco di parlare ai giovani, ai movimenti. Cerco di dire che non bastano le grandi manifestazioni. Bisogna colpire i luoghi del potere; pessimo potere, oggi in Italia. E per questo bisogna incidere sullo Stato, che oggi più che mai decide sulla vita e sulla morte».