domenica 24 aprile 2005

Friedrich Schiller e Goethe

L'Unità 24 Aprile 2005
Friedrich Schiller, la rivincita
Stefano Vastano

È partita da anni in Italia una rumorosa lavatrice della storia. Dalla centrifuga della signora Moratti sono usciti programmi in cui i partigiani e la Resistenza in blocco si ritrovano mischiati ai «ragazzi di Salò». E nell’ultimo, davvero geniale affondo storico di uno Storace, persino «Teopompo» ­ come Marx sfotteva l’ispirato Mazzini ­ si ritrova allineato allo squadrismo fascista. Fanno bene studenti e docenti a contestare ­ come di recente Tranfaglia su questo giornale ­ la spaventosa arbitrarietà di tanto revisionistico risciacquo della storia. Eppure, se dalle nostrane lavandaie del Risorgimento e Novecento italiano saltiamo in Germania alla storia che dall’Ottocento porta nel 1933 alla catastrofe del nazismo, ci accorgiamo che anche lì son stati per lo più le Moratti e gli Storaci locali ad interpretare ad libitum la cultura patria. Nulla infatti meglio dello strampalato rapporto della Germania di Bismarck e soprattutto del Terzo Reich con le classiche fonti letterarie evidenzia un sistematico stravolgimento della storia. Un «fraintendimento» continuo e viscerale a cui, dalle guerre anti-napoleoniche alla fondazione del Reich sino al 1945, specie i due Grandi di Weimar, Goethe e Schiller, son stati sottoposti. Solo oggi i padri della poesia tedesca, dimenticati in libreria e nei programmi scolastici, riposano in pace nei loro sepolcri nella cittadella della Turingia (quelle tombe che nell’aprile del ’45 i nazisti volevano far saltar in aria, e che nella Rdt furono profanate per analizzarne le spoglie). Solo i turisti giapponesi, cinesi e coreani ne riempiono oggi le loro case-museo, per immortalarsi dopo la visita-blitz sotto la loro statua col teatro di Weimar alle spalle. Già quel celebre monumento ­ in cui il bassino Goethe è alto quanto Schiller, che lo superava dell’intera testa ­ è una pia finzione. Amena però se confrontata agli usi ed abusi a cui i Due, senza pietà però per Schiller, servirono alla propaganda del Terzo Reich.
Il 9 maggio si celebrano in Germania i duecento anni dalla morte del darammaturgo dei Masnadieri e del Tell. Drammi che i ragazzi tedeschi di oggi non leggono più: a scuola, se va bene, leggiucchiano due delle sue pompose ballate (Il guanto; La campana). Versi d’occasione che Schiller compose in fretta ­ come lo stesso inno Alla gioia, venuto giù in stato di ebbrezza in una taverna presso Dresda ­ per riempire i buchi di una delle sue sfortunate riviste. Composizioni talmente auliche che «per le risate ci facevano cascar giù dalla sedia», come Caroline Schlegel ricorda sprezzante la reazione dei scapigliati romantici di Jena. È per ricordare allo smemorato pubblico, almeno nel bicentenario della morte, fatti del genere che le edizioni Insel hanno pubblicato La vita di Friedrich Schiller. Una biografia di 470 pagine a firma di Sigrid Damm, la germanista che ha già ricostruito con successo la vita, all’ombra di Goethe, di Christiane Vulpius (concubina del sommo). E che ora ripercorre minuto per minuto i 46 anni della via crucis di Fritz, come la madre Elisabetha chiamava Schiller. Venuto al mondo nel 1759 nel paesino di Marbach (ove oggi è il famoso archivio). E cresciuto slanciato, magro come un’acciuga, coi capelli rosso rame e - come racconta il suo amico, compagno di fuga e biografo Andreas Streicher - «cosparso ovunque, persino sulle mani, di una miriade di lentiggini». Suo padre, basso e tarchiato invece, è un soldato di Carl Eugen, conte di Württenberg. Arriverà al grado di capitano per trasformarsi poi nel giardiniere della Solitude, il maniero del conte. Quella che per i giovani Hölderlin, Hegel e Schelling sarà l’angustia, nella vicina Tubinga, del colleggio teologico, per il giovane Fritz sono gli otto anni all’accademia militare «Carlsschule»: li passerà senza vedere nemmeno un giorno genitori e sorelle. Per diventare, dopo una laurea in medicina (in latino) e per delibera del sovrano, mediconzolo di un reggimento d’invalidi. Reagirà alla squallida routine di caserma scrivendo di getto, a 22 anni, I masnadieri. Gli costeranno, oltre che le spese di pubblicazione, due settimane in gattabuia: Carl Eugen (a cui Schiller deve rivolgersi come «rappresentante di Dio in terra») non ha gradito che il suddito si sia recato senza il suo licet da Stoccarda a Mannheim per la prima dell’opera. Seguita dalla spericolata fuga «all’estero» - a Mannheim appunto - dello scrittore inseguito, più che dalle guardie, dai debiti (contratti giocando a carte in prigione). Per tutta la sua breve vita, pur quando si fregerà del titolo di von, Schiller sarà tormentato dai debiti. «È il primo scrittore in Germania che ha provato a vivere del suo lavoro intellettuale», ricorda Siegrid Damm.
Goethe, di dieci anni più anziano, fu al confronto baciato dalla sorte: non solo visse (con qualche colica renale e acciacchi alla schiena) sino ad 82 anni. Ma, oltre a due case e sin troppi incarichi, Carlo Augusto di Weimar gli assicurava 1800 talleri all’anno. A Schiller invece, anche all’apogeo della gloria, non più di 400. È per tenersi a galla che il «primo intellettuale» s’inventò una specialità dopo l’altra (non potendo contare a quei tempi sui diritti d’autore). A Jena, ad esempio, dove Goethe per toglierselo dai piedi a Weimar gli fa ottenere nel 1789 laurea e cattedra (in filosofia), il dottorino si trasforma in storico. Gli studenti accorrono il 26 maggio del rivoluzionario anno alla sua altisonante prolusione Che significa e a quale scopo si studia la storia universale. Incuriositi più che altro dalla ribelle nomea dell’autore dei Masnadieri (e del suo incomprensibile dialetto svevo). Nonostante la fama e carriera, Schiller è sempre più in canna: la cattedra gliel’ha conferita il tirchio Carlo Augusto, a gratis. Ecco perché l’ex-drammaturgo si butta a scrivere a nastro «opere di storia per il gran pubblico», come confessa alla futura moglie Charlotte von Lengefeld. Opere oggi pressoché illeggibili e al limite dello storiografico (come la sua dozzinale Storia della guerra dei Trent’anni o la precedente Sollevazione dei Paesi Bassi). Pure e semplici, già a quei tempi, «operazioni commerciali», come commenta la Damm, da cui Schiller uscirà solo per tuffarsi a capofitto, dal 1791, in Kant (che l’anno prima pubblicò la Critica del giudizio). Ne uscirà un ciclo di concettuosi poemi (Sul sublime) e l’idealistica pedagogia delle Lettere sull’educazione estetica. Tutti astratti filosofemi che lo stesso poeta («sono un dilettante in filosofia», dirà di sé) rifiuterà nel magico momento in cui ­ il 14 settembre 1794 ­ Goethe, dopo sei anni di anticamera, gli aprirà la porta di casa. Da quel connubio, che anche a Goethe (dall’Egmont alle Xenie) ridarà verve poetica, nascono a ritmo frenetico i gioielli del suo teatro: la trilogia del Wallenstein, Maria Stuarda, la Pulcella d’Orleans sino all’incompiuto Demetrius nel 1805. Storico e filosofo (d’ispirazione kantiana); poeta, giornalista, traduttore e drammaturgo della sacra idea della libertà: difficile immaginarsi un intellettuale più poliedrico di Friedrich Schiller. Che fu soprattutto, nonostante il viziaccio della pipa e tabacco da fiuto (che tanto molestava Goethe), un uomo malato. Di quella polmonite cronica che, al contrario del girovago Goethe, lo costrinse «a guardare il mondo dalle mie finestre di carta», come scrisse. Rinchiuso nella mansarda sulla Esplanade di Weimar a strappare ­ di notte, dato che si alzava a mezzogiorno - ogni verso al duro legno della sua scrivania. «Scrivania in legno di melo; rifinita; classicismo»: così si legge oggi in un angolo della sua casa-museo a Weimar. Dietro al tavolo color miele, il letto ove morì due secoli orsono. E sul tavolo coi sette cassetti (in uno dei quali ­ come Goethe ricorda - Schiller aveva il tic di riporre mele marce per inebriarsi) due candelabri, un mappamondo, il tagliacarte e la tabacchiera.
Il 10 novembre 1934, a 175 anni dalla nascita del poeta, così si legge sul Völkische Beobachter, organo del Terzo Reich: «Il Führer ha visitato col Dottor Goebbels la casa di Schiller. È rimasto a lungo nella stanza del poeta ponendovi sul letto di morte rosse rosse con la scritta: Adolf Hitler pose». Ancora in piena guerra, nel febbraio del ’42 e in uno dei suoi sproloqui notturni nel bunker della Wolfschanze, Hitler ricorda quell’omaggio a Schiller. «Nella casa di Goethe», filosofeggiò il dittatore-imbianchino, «s‘è accerchiati da cose morte, in quella di Schiller si è umanamente commossi». Non che l’autore del Mein Kampf fosse navigato nei Classici (nelle sue tiritere notturne confessò «di dovere a Karl May», il Salgari tedesco, «tutte le mie nozioni letterarie»). È comunque tra questi due estremi - la storia della scrivania di Schiller e l’uso fattone dai nazisti dei testi lì scritti - che si muove il libro di Dieter Kühn appena uscito (per le edizioni Fischer): La scrivania di Schiller a Buchenwald. E già perché i gerarchi di Weimar, dopo Monaco la città più intrisa di nazismo nel Terzo Reich, pensarono bene di proteggere la mobilia di Schiller dalle bombe degli Alleati. Trasportando il 14 maggio del ’42 la sedia e la famosa scrivania, il letto di morte e la spinetta dalla mansarda nel vicino Lager di Buchenwald. Le bombe, nell’agosto del ’44, piovvero anche nella città dei Classici, uccidendo 315 prigioneri del Lager, e ferendone oltre 1400. Non una scheggia però scalfì la venerabile mobilia di Schiller: quella autentica se ne stava dal 18 ottobre del ’43 nel Bunker dell’archivio-Nietzsche (dove i Bonzi del Terzo Reich progettavano, anche col supporto di Mussolini, un mega «Tempio dello spirito tedesco»). I visitatori di casa-Schiller a Weimar invece ­ aperta anche durante la guerra ­ ammiravano la perfetta copia della scrivania eseguita nella falegnemeria di Buchenwald. «L’officina si trovava all’interno del lager - scrive Dieter Kühn - nei pressi del crematorio, nelle cui cantine le SS eseguivano fucilazioni ed impiccagioni». È in questo inferno che le mani d’oro del falegname tedesco Willy Werth ­ veterano del campo col numero 647 e con la categoria di «criminale» ­ ricostruirono il tavolo che Schiller comprò a Jena nel 1789.
Termina nell’orrore del lager la lunga storia che, a partire dalle guerre anti-napoleoniche, trasformò Schiller «nel primo poeta nazionale», come disse Riemer, il segretario di Goethe, «nell’uomo dei nostri soldati». Anzi, a differenza dell’apolitico e cosmopolitico Goethe, «nel più nazionalista dei poeti tedeschi», come Hebbel appuntò nel suo diario del 1859. Gli stessi versi del Wallenstein, gli stessi inni alla libertà del Tell che a Nietzsche ­ nella sua polemica contro «il bonario idealismo dai luccicori d’argento» di Schiller - suonavano pacchiani e piccolo-borghesi, finirono già nel 1932 per fare di «Schiller, il compagno di battaglia di Hitler». È il titolo del saggio che Hans Fabricius pubblicò, un anno prima della scalata al potere, nella casa editrice dei nazisti (la Kultur-Verlag di Bayreuth). Un anno dopo, nel ’34, uno dei primi film commissionati da Goebbels fu un pessimo Tell del regista Hanns Johst (con Emmy Sonnemmann, futura consorte di Hermann Göring, nei panni della moglie del Tell). E dell’olimpico Goethe che ne fecero i nazisti? Non si azzardarono, come progettato, a chiamare il Lager di Weimar KZ-Ettersberg: il monte tanto caro alla vita e poesia di Goethe. L’incredibile però, come Kühn svela nel libro, è che di nessun tavolo di Goethe la falegnameria di Buchenwald approntò mai delle copie. Segno evidente di quella verità scappata nell’aprile ’45 a Walter Schulze, presidente della polizia di Jena (dove in un Bunker erano nascoste le tombe dei due Classici): «Noi odiamo Goethe ed è ora di toglierselo di mezzo». Di farne cioè saltare in aria anche la tomba dopo che, il 9 febbraio, le bombe degli Alleati ne avevano sventrato la casa a Weimar. Ci pensò il maggiore americano William Brown, il 12 maggio ’45, a riportare le spoglie di Goethe e Schiller nella cripta di Weimar. Stendendo sulle tombe dei poeti un ramoscello di sambuco: segno di pace e misericordia per le torture inferte ad entrambi dai loro furiosi pronipoti.