giovedì 21 aprile 2005

la necrofilia di Derrida

L'Unità 21 Aprile 2005
Un libro raccoglie le orazioni funebri del filosofo per celebri amici morti: da Roland Barthes a Michel Foucault, da Gilles Deleuze a Emmanuel Lévinas
Derrida, la corrispondenza d’amorosi sensi con la morte
Beppe Sebaste

Nelle orecchie avevo ancora il panegirico del Papa che «ci guarda dall’alto», (come ha detto il nuovo Papa), mentre rileggevo la traduzione italiana dell’«ultimo libro» di Jacques Derrida, raccolta di orazioni funebri per gli amici morti: Ogni volta unica, la fine del mondo. I morti sono scrittori e filosofi illustri, da Roland Barthes a Michel Foucault, da Louis Althusser a Maurice Blanchot, da Gilles Deleuze a Emmanuel Lévinas, ecc., e comunque amici, il dialogo coi quali è divenuto monologo senza risposta, ad-Dio.
Parlare dei morti, coi morti, è il cuore stesso della letteratura, anzi della scrittura, la quale - Derrida lo ha insegnato lungo tutta la sua vita - è irriducibilmente testamentaria, e attesta in primo luogo la mortalità (l’assenza) di chi scrive, così come di chi legge. Se questa «pubblicità» della morte è uno dei motivi per cui Platone avversava la scrittura, analogamente è il suo ostentare la trasformazione della carne in verbo, e del Verbo in carne, l’essenza religiosa, giudaico-cristiana, della parola scritta, morte e risurrezione malgrado tutto. Torna in mente poi quel testo molto bello in cui Jean Genet racconta la visita all’atelier di Alberto Giacometti, e gli confida di voler scrivere, da sempre, per i morti. Al che Giacometti esclama: anch’io ho sempre avuto il desiderio di seppellire le mie sculture, per offrirle ai defunti.
I testi «in morte» di Derrida si affacciamo su questo bordo dell’apostrofe estrema, dove silenzio e parola potrebbero finalmente diventare sinonimi. Potrebbero. Il fatto è che, presi singolarmente, questi scritti di circostanza di Derrida (mai formula suona più appropriata), sono «ogni volta unica» un’intensa lettura, una dedica appropriata e commossa che dà al lettore più di quanto promette. Ma la raccolta di questi testi non fa un bel libro. L’hanno voluta e curata due suoi allievi, Pascale-Anne Brault e Michael Naas, rispettivamente francese e americano. Il risultato, involutivo rispetto ad altri testi dell’autore - innumerevoli quelli già dedicati alla morte, al lutto, perfino alla «propria morte» - produce claustrofobia per i suoi effetti ripetetivi e autoreferenziali, per il suo avvilupparsi nella lingua e nella firma di superstite, di testimone che sa bene che la testimonianza non è mai integrale, mai completa, mai esente dall’autobiografia, ma neppure mai abbastanza abbandonata in essa. Il tono è a volte quello della sua Circonfessione (1991), lamento funebre al capezzale della madre morente, e insieme meditazione su sant’Agostino: «Piango come i miei figli sul bordo della mia tomba», scriveva a un certo punto Derrida palesando l’iterabilità e la concatenazione del dolore e del lutto. Ma la fine di un mondo - la morte dell’individuo, dell’amico o la propria - non è la fine del mondo. È questa pretesa apocalissi - proprio mentre da decenni i matematici formalizzano l’ossimoro di «catastrofi lievi» per dire le «trasformazioni» in natura - a far franare un’opera che nel portare il linguaggio e il pensiero agli estremi limiti ha dato il meglio di sé - e il meglio della filosofia. Forse questi limiti sono stati raggiunti (da cui il senso di virtuosismo di certe pagine di Derrida), e l’intensità estrema come progetto della lingua suggerisce altre vie - estasi, uscite - all’espressione della consapevolezza; e forse quindi tra filosofia e letteratura ogni pretesa differenza va ormai deposta. Forse, infine, dietro le ideologiche formule dette da altri, quali «fine della storia», qualcosa di vero c’è, che coincide con lo scoprire, come mai prima di questa nostra epoca, che la propria morte di individui non ha redenzione né consolazione alcuna, né storica né palingenetica, né tantomeno dello «spirito vivente»; ovvero che l’autocoscienza più o meno hegeliana, quel dire e dirsi «io» (il fono-logo-centrismo, lo chiamava decenni fa Derrida) cessa e si estingue con la propria morte. Il senso di claustrofobia di cui parlo sopra è analogo allora a quello che nella vita politica (ma esiste una vita che non sia politica?) produce la variegata follia del pensiero dell’immunità, opposto a quello di comunità. A meno che non sia proprio «politica» la distrazione più grande, il rinvio, la «differAnza», scriveva Derrida. Vale in questo ambito, Derrida, ancora una volta, lo insegna, il pensiero del sopravvivere, sempre. Che fare, che dire allora in occasione della morte degli amici (poiché, illusoriamente, «sono sempre gli altri che muoiono», come scrisse Marcel Duchamp sulla propria tomba)?
Prendere sul serio la dedica e la morte, secondo Derrida è coniugare alla «politica dell’amicizia» una «politica del lutto». In queste parole, del resto, si riassume l’intera tradizione del pensiero occidentale. Viene in mente quella parola intensa, il verbo salutare, che nel Duecento, come attesta la poesia e in particolare Dante nella Vita nuova, era gravida di sensi. Oltre al saluto si intendeva infatti la salute e la salvezza (dell’anima) - il che giustifica la serietà assorta dell’amata «quand’ella altrui saluta». L’apertura del saluto dice la sacralità della relazione etica, l’epifania del volto del prossimo dinnanzi al quale «non possiamo più potere» (Lévinas), solo testimoniare. Che sia possibile coinvolgere i morti in questo gesto di saluto, salute e salvezza, lo mostrano i riti e i culti, nonché il fatto stesso di scrivere, citando i nomi dei morti che ci guardano, che ci riguardano (chissà se dall’alto, dal basso, da dentro o da tutt’intorno). Che la si chiami «social catena» (con Leopardi), o «corrispondenza d’amorosi sensi», è un dialogo che l’interiorizzazione del lutto costituisce in memoria. Parlare coi morti, dei morti, significa ricordare. E ricordare è la colla che tiene insieme il mondo.