giovedì 21 aprile 2005

Sandor Ferenczi

L'Unità 21 Aprile 2005
Sandor Ferenczi e «Papà» Freud
Valeria Viganò

Come sono complesse le relazioni umane e nello stesso tempo come sono ripetitive nelle loro dinamiche. E chi ha tentato più di ogni altro di spiegarne turbamenti, retropensieri, pulsioni inconsce non ne è stato mai esente, in comunanza e in lotta con i compagni ideali che cercavano di spiegare l’animo umano e la sua evoluzione. In questo senso la corrispondenza tra Sigmund Freud e l’amico, collega Sandor Ferenczi illustra meglio di parecchi saggi il lungo percorso intrapreso dalla psicoanalisi, i suoi cambiamenti esterni e interni, le modalità di confronto spesso inevitabilmente aspro tra il fondatore e i suoi seguaci, a tutti gli effetti tra il Grande Padre e i suoi Figli. Tutti loro, prima del tempo di internet, si scambiavano indefessamente lettere giornaliere in cui teoria e pratica si mescolavano in un connubio strettissimo di elaborazioni interpretative di una scienza e di intrecci assolutamente personali e intimi, fatti di tradimenti, delusioni, ripicche, affidamento.
Freud e Ferenczi si scrissero dal 1908 fino alla morte del più giovane Ferenczi nel 1933. Sono stati già pubblicati i primi due volumi (in Italia se ne occupa Cortina Editore), e ora è appena uscito in Germania il terzo tomo delle lettere tra i due che copre gli anni dal 1925 al ’33 (Sigmund Freud - Sándor Ferenczi: Briefwechsel Band III/2: 1925 bis 1933, a cura di von Ernst Falzeder, Eva Brabant, Patrizia Giampieri-Deutsch, Böhlau Verlag, 2005, pp. 384, euro 47). Una frase dall’introduzione di Andrè Haynal, riportata fedelmente da Die Zeit che presenta il libro è esemplificativa: «la comunità psicanalitica ha avuto sempre molte difficoltà a guardare dritto in faccia la propria storia, con obbedienza cieca e in una ingannevole sicurezza ha preferito sempre un’eccessiva idealizzazione». Dentro la relazione quotidiana fatta di scrittura sono passate molte delle questioni su cui Freud e Ferenczi lavoravano insieme, ma, nello stesso tempo, essendo stato ripetutamente Ferenczi paziente di Freud, passava anche il potere, fischiava il vento dell’autorità e della conseguente condiscendenza contrapposto alle folate di desiderio di deresponsabilizzazione da un lato e autonomia dall’altro. Quando Ferenczi elabora e applica metodi discutibili rispetto alla prassi, Freud stesso lo percepisce come un legittimo desiderio di abbandonare la casa del padre salvo poi giudicarne negativamente i contenuti.
Freud sa che razionalmente si può rifiutare la figura genitoriale e sa anche che negli strati profondi dell’inconscio questo non è veramente possibile. I due sono amici, fanno viaggi insieme, ma è sempre Freud a comandare, sottilmente o insindacabilmente. Freud è un grande vecchio in quegli anni, non approva certo alcune prassi terapeutiche che prevedono abbracci e intimità con i pazienti, eppure nel caso Jung-Spielrein lascia cadere dall’alto l’assoluzione per il suo adepto. Le contraddizioni non mancano e nelle lettere emergono tutte, fino all’ultima cartolina che Ferenczi spedisce a Freud per il suo settantasettesimo compleanno. Appena dopo muore. Forse mai veramente liberato, nonostante la strenua lotta per la sua indipendenza di pensiero da quella figura enormemente presente. Ma almeno rigoroso e onesto con se stesso, infantile sì ma con tutta la passione della ribellione.