Tempo Medico n. 792 17 aprile 2005
Le cellule del feto che curano le madri
Intervista a Diana Bianchi sullo strano ruolo delle staminali fetali
di Anna Piseri
La Corte costituzionale si è pronunciata: quattro quesiti referendari sono ammissibili. In un giorno tra aprile e giugno tutti potremo decidere, tra l'altro, se la sperimentazione sulle cellule embrionali sarà consentita. Stabiliremo se anche gli scienziati italiani potranno indagare sulla "clonazione terapeutica", tecnica che non ha lo scopo di creare improbabili fotocopie umane, ma di riparare gravi lesioni agli organi o curare importanti malattie degenerative come l'Alzheimer, il morbo di Parkinson e la sclerosi multipla.
Nel frattempo, senza aspettare né il parere dei cittadini italiani né quello di alcun comitato di bioetica, pare che loro, le cellule embrionali, si siano prese la libertà di portare avanti la sperimentazione da sole. Sfruttando le grandi capacità rigenerative di cui sono dotate, sembra riescano a riparare i danni agli organi dell'individuo a loro più caro: la madre che le ha concepite.
E' una donna, negli Stati Uniti, ad aver scoperto che in natura la sperimentazione sulle cellule staminali embrionali è già molto più avanti rispetto a quella che si conduce in modo tanto tormentato nei laboratori di ricerca. Si chiama Diana Bianchi e ha chiare origini italiane: il cognome è quello del padre, emigrato a New York da San Colombano al Lambro (in provincia di Milano) nei primi anni cinquanta. Un giorno alla settimana Diana Bianchi è un medico della Tufts University School of Medicine di Boston; cura donne con patologie riproduttive legate a cause genetiche e si occupa di consulenze alle famiglie nelle quali è nota la presenza di malattie ereditarie.
Negli altri quattro giorni lavorativi è una ricercatrice. Da molti anni il suo laboratorio ha l'obiettivo di mettere a punto nuove tecniche di diagnosi prenatale: la speranza è che un giorno, con un solo prelievo di sangue materno, si possa diagnosticare se il nascituro sarà affetto da un'anomalia cromosomica, come la sindrome di Down, o da malattie genetiche come la distrofia muscolare o la fibrosi cistica. In sostanza, un progetto di ricerca per superare tecniche invasive come amniocentesi e villocentesi, fondato sul fatto che alcune cellule fetali, durante la gravidanza, attraversano la placenta ed entrano nel flusso sanguigno della madre.
Fin qui una storia dalle prospettive interessanti, ma tutto sommato abbastanza normale. Un giorno, però, nel tranquillo laboratorio del Massachusetts accade qualcosa che accende i riflettori sul lavoro che vi si svolge. Molte persone cominciano a interessarsi agli studi di Diana Bianchi, perché potrebbe aver trovato una nuova fonte di cellule staminali; una fonte che non pone problemi di carattere etico. E' una strana scoperta: alcune cellule fetali rimangono nel sangue materno per molti anni (fino a 27) dopo la gravidanza. E non restano solo nel sangue; a quanto pare si ritrovano anche in alcuni organi della madre e con un ruolo quanto mai singolare: quello di indispensabili pezzi di ricambio.
Tempo Medico ha posto alcune domande a Diana Bianchi su questa affascinante scoperta.
Come è possibile che cellule del feto resistano così a lungo nel sangue materno?
Queste cellule hanno le caratteristiche tipiche delle cellule staminali: hanno la capacità di riprodursi rapidamente; normalmente restano nel sangue, nel midollo osseo o nella milza, ma se c'è bisogno possono recarsi in un organo malato e ripopolare.
Cosa significa "ripopolare"?
Significa che possono essere utilizzate come materia prima per rigenerare parti dell'organo. Per esempio, noi abbiamo studiato donne, madri di figli maschi, con malattie alla tiroide. Nella parte sana dell'organo le cellule fetali (riconoscibili perché di tipo maschile) restano nel sangue, ma nella parte malata le stesse cellule si trasformano in cellule della tiroide, per curare la lesione. La tiroide diventa così una sorta di chimera, formata da un miscuglio di cellule d'origine materna e fetale. Dal mio punto di vista, questa è la prova evidente che le cellule fetali hanno un ruolo nel riparare le malattie della madre.
E se fosse il contrario? Non potrebbero essere le cellule fetali a creare il danno?
Ce lo siamo chiesto. Nei topi abbiamo incrociato femmine e maschi modificati con marcatori genetici che rendessero riconoscibili le cellule fetali e abbiamo poi indotto danni corporei alle madri. Le cellule fetali si recano dove si induce la lesione ed esprimono geni specifici. Abbiamo anche cercato le cellule fetali nei tumori e ne abbiamo trovate poche. Sempre in quantità tali da far pensare che non siano state loro a creare il tumore.
C'è chi sostiene che queste cellule possano essere all'origine di malattie autoimmuni, più frequenti nelle donne che negli uomini.
Non è mai stata trovata alcuna prova di questo, anche se in alcuni casi si trova un aumento delle cellule fetali in donne affette da malattie autoimmuni. Noi riteniamo che le cellule fetali si trovino lì perché stanno reagendo contro il processo patologico, non perché lo stanno causando.
In sostanza più effetti positivi che negativi?
Noi la pensiamo proprio così: si tratta di un dono naturale che la madre riceve con la gravidanza. E dato che la gravidanza è molto impegnativa in termini fisici (il feto deve essere nutrito a lungo, il parto comporta perdita di sangue), è bello credere che vi sia un tornaconto. Anche da un punto di vista evolutivo si può pensare che qualsiasi feto "desideri" che la propria madre sopravviva, per cui è sensato che esistano meccanismi per assicurarne la salute.
Questo potrebbe anche spiegare perché le donne sono più longeve degli uomini?
Ce lo siamo chiesto: in quasi tutti i paesi del mondo le donne vivono più a lungo degli uomini, ma perché? Nessuno realmente lo sa. Nessuno si è mai posto la domanda se ciò riguardi tutte le donne o solo quelle che hanno avuto figli.
Cosa ne pensa della controversia cellule staminali embrionali/adulte?
Personalmente sono una sostenitrice della ricerca sulle cellule staminali embrionali, negli Stati Uniti limitata dal fatto che non può essere finanziata con fondi federali. Il nostro lavoro però non pone problemi su questo fronte, la ricerca è stata approvata dal comitato di bioetica dell'ospedale. Quando prendiamo campioni di sangue o di tessuti, chiediamo solo il consenso a una donna adulta. Ma l'esperienza del mio lavoro di ricerca mi insegna una cosa che vorrei dire a chi fa sperimentazione su cellule staminali prelevate da adulti: bisognerebbe controllare meglio ogni campione utilizzato. Io mi sono chiesta perché vi siano tanti contrasti sulle potenzialità effettive delle cellule staminali adulte: alcuni sostengono che siano efficaci nel riparare lesioni a molti organi, altri non riescono a ottenere gli stessi esiti. Dal mio punto di vista questi risultati scientifici poco chiari potrebbero dipendere dal fatto che quando si prende un campione di cellule staminali da un adulto, non si specifica mai se provengono da un uomo o da una donna. Né se derivano da una donna che non ha mai avuto figli o da una donna che ha avuto almeno una gravidanza. E non mi sembra irrilevante, perché in questo ultimo caso potrebbe trattarsi di un miscuglio di cellule staminali adulte e fetali. Così i buoni risultati potrebbero dipendere solo dall'eventuale presenza di queste ultime.
I mezzi di comunicazione si concentrano sulla controversia cellule staminali adulte o embrionali, ma la realtà è davvero molto più complessa e potrebbe non esserci una distinzione così chiara.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
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