LA SETTIMA EDIZIONE DELLA RASSEGNA DEDICATA ALLA FILMOGRAFIA DEL BACINO DEL MEDITERRANEO
Tante star e pellicole al NapoliFilmFestival
di Benedetta de Falco
(...)
Il Napolifilmfestival, in programma a Napoli dal 5 al 16 giugno, creatura di Davide Azzolini e Mario Violini, che ne sono i direttori, è organizzata dall’Associazione Napolicinema in collaborazione con il Warner Village Metropolitan e con la Fondazione Laboratorio Mediterraneo.
A un panel sul tema del grande cinema italiano visto dagli americani, moderato da Antonio Monda(...) interverranno Marco Bellocchio, Tullio Kezich, Roberto Cicutto, Luciano Sovena, Mario Sesti, Gaetano Blandini
(...)
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
martedì 31 maggio 2005
Luciano Canfora, a proposito di antichità greca e di comunismo
Corriere della Sera 31.5.05
di LUCIANO CANFORA
La grande idea-forza del comunismo nacque, a quanto pare, in Grecia. Tutto prese origine dalla scoperta della nozione di «natura», cioè della struttura profonda e non convenzionale dell’agire umano. Quella scoperta poteva far barcollare l’edificio sociale, faceva ad esempio cadere la distinzione tra Greci e barbari (pur così cara all’autostima dei Greci) o tra schiavo e libero. Un frammento del sofista Antifonte queste barriere le infrange; si tratta di un lembo di papiro, ma il concetto è chiaramente distinguibile. Per parte sua Antistene, un discepolo «estremista» di Socrate, portò questa scoperta dell’unità del genere umano alle sue estreme conseguenze. Affermò un acceso cosmopolitismo; si sentiva cittadino del mondo, non di una singola patria. Reclutava i suoi seguaci tra i più poveri. Platone invece - il quale concepì anche lui una utopia comunistica ma fortemente castale - reclutava i suoi tra i ceti più elevati. E aristocratico era egli stesso. Il richiamo alla «natura», cioè all’unità del genere umano ha un sapore rousseauiano. Ed è comprensibile che di lì sia scaturita una spinta di tipo «rivoluzionario» o per lo meno una spinta all’inquietudine sociale, che purtroppo le fonti superstiti non amano mettere in adeguata luce. Ma resta emblematico il fatto che un filosofo di ispirazione storica come Blossio di Cuma, assertore anche lui dell’unità del genere umano, dopo aver sostenuto i Gracchi a Roma sia finito all’altro capo del Mediterraneo, a combattere e a finire i suoi giorni, accanto agli schiavi ribelli di Aristonico, adoratori del Sole, a Pergamo.
Gli schiavi erano di certo gli «ultimi» della società ellenistico-romana. Ma erano masse sterminate, senza voce. In un papiro demotico di epoca tolemaica si legge questa preghiera di uno schiavo fuggitivo: «Signore grande tu conosci questo piccolo servo fino in fondo al suo cuore. Tu vedrai la perversità grande come il mare che pesa su di me. Dall’oppressione continua deriva anche la mia fuga» (traduzione di Aristide Calderini). Difficile che un uomo politico si occupasse di loro. Più facilmente accadeva che di questa assurda condizione umana si occupasse un filosofo. Una spinta «comunistica», come alternativa all’ordine esistente, aveva sempre serpeggiato nella società greca. Altrimenti non capiremmo come mai un Aristofane sentisse il bisogno di destinare la sua pessima derisione (Le donne all’Assemblea) a questo genere di «utopie».
Anche Aristotele, uno dei filosofi che hanno prevalso nel corso della tradizione giunta fino a noi, dedicò non poche energie alla critica delle utopie sociali. Ed è perciò grazie a lui che veniamo a conoscere qualcosa che altrimenti sarebbe stato cancellato del tutto. «Falea di Calcedone - scrive Aristotele nella Politica - è il primo che abbia trattato questo tema: lui vuole che tutti abbiano uguali ricchezze» (II,4). Aristotele è ben consapevole del fatto che la disuguaglianza delle fortune è all’origine di ogni sorta di rivoluzioni, ma è anche convinto che questi utopisti non vedano giusto perché non hanno mai avuto vera e diretta esperienza della gestione di una città. Che il tema della disuguaglianza da sanare fosse incombente nella vita delle città greche è chiaro da vari sintomi, compreso il fatto, che ugualmente ci è noto da Aristotele, che nelle assemblee decisionali i due argomenti principali all’«odg» fossero la guerra (primo in assoluto) e le risorse economiche (secondo ma collegato strettamente al primo, visto che la guerra si faceva per avere più risorse e accontentare, o tenere a bada, i ceti meno ricchi).
Insomma la eterna questione sociale era al centro di tutta la vita. E l’impero era un modo per ammortizzarla, grazie allo sfruttamento (o rapina) inflitti agli altri. Ecco perché i «comunisti» ante litteram, inneggianti all’unità del genere umano, non avevano buona stampa nemmeno presso i ceti «proletari» di condizione libera (per usare un termine caratteristico del linguaggio romano).
A Roma un pensiero originale orientato in modo così radicale non sembra essersi sviluppato. Un grande poeta romano però (il più grande, secondo Theodor Mommsen), cioè Lucrezio, inserì nel quinto libro del suo poema Sulla natura una trattazione che si potrebbe modernamente intitolare «Origine della famiglia, della proprietà e dello Stato». In quel libro osserva, tra l’altro, che i dolori e i conflitti ebbero inizio, nella storia dell’umanità, quando «fu inventata la proprietà» ( res inventa est aurumque repertum ). C’è un che di rousseauiano, ancora una volta, in questa intuizione. Era una veduta sua o la ricavava da Epicuro, sua fonte principale? Quantunque Lucrezio sia stato in alcuni casi (ad es. nel radicale rifiuto della religione) pensatore originale, su di un tema come quello del costituirsi stesso della società dipendeva con ogni probabilità dal suo adorato Epicuro. E non a caso, un uomo come Cicerone riteneva pericoloso - lo dice nelle Tusculanae - il diffondersi «in tutta Italia», al tempo suo, di divulgazioni in lingua latina del pensiero di Epicuro. I pensatori greci dunque, soprattutto le molte correnti di pensiero che si dipartono dal socratismo e che siamo soliti chiamare filosofie «ellenistiche», furono inquietanti: lo furono già per i Romani. Facevano vacillare i capisaldi di una società divisa in classi. Durante il fascismo, nei media come a scuola, la Grecia veniva caparbiamente posposta a Roma. Il professore di liceo che nell’insegnamento dava troppo spazio ai Greci rispetto ai Romani era considerato sospetto, quasi «antifascista». Capitò così a Tommaso Fiore, il quale racconta che fu mandato un ispettore ministeriale nel suo liceo (ad Altamura) a chiedergli conto del fatto che egli leggesse con gli studenti nientemeno che la Repubblica di Platone.
di LUCIANO CANFORA
La grande idea-forza del comunismo nacque, a quanto pare, in Grecia. Tutto prese origine dalla scoperta della nozione di «natura», cioè della struttura profonda e non convenzionale dell’agire umano. Quella scoperta poteva far barcollare l’edificio sociale, faceva ad esempio cadere la distinzione tra Greci e barbari (pur così cara all’autostima dei Greci) o tra schiavo e libero. Un frammento del sofista Antifonte queste barriere le infrange; si tratta di un lembo di papiro, ma il concetto è chiaramente distinguibile. Per parte sua Antistene, un discepolo «estremista» di Socrate, portò questa scoperta dell’unità del genere umano alle sue estreme conseguenze. Affermò un acceso cosmopolitismo; si sentiva cittadino del mondo, non di una singola patria. Reclutava i suoi seguaci tra i più poveri. Platone invece - il quale concepì anche lui una utopia comunistica ma fortemente castale - reclutava i suoi tra i ceti più elevati. E aristocratico era egli stesso. Il richiamo alla «natura», cioè all’unità del genere umano ha un sapore rousseauiano. Ed è comprensibile che di lì sia scaturita una spinta di tipo «rivoluzionario» o per lo meno una spinta all’inquietudine sociale, che purtroppo le fonti superstiti non amano mettere in adeguata luce. Ma resta emblematico il fatto che un filosofo di ispirazione storica come Blossio di Cuma, assertore anche lui dell’unità del genere umano, dopo aver sostenuto i Gracchi a Roma sia finito all’altro capo del Mediterraneo, a combattere e a finire i suoi giorni, accanto agli schiavi ribelli di Aristonico, adoratori del Sole, a Pergamo.
Gli schiavi erano di certo gli «ultimi» della società ellenistico-romana. Ma erano masse sterminate, senza voce. In un papiro demotico di epoca tolemaica si legge questa preghiera di uno schiavo fuggitivo: «Signore grande tu conosci questo piccolo servo fino in fondo al suo cuore. Tu vedrai la perversità grande come il mare che pesa su di me. Dall’oppressione continua deriva anche la mia fuga» (traduzione di Aristide Calderini). Difficile che un uomo politico si occupasse di loro. Più facilmente accadeva che di questa assurda condizione umana si occupasse un filosofo. Una spinta «comunistica», come alternativa all’ordine esistente, aveva sempre serpeggiato nella società greca. Altrimenti non capiremmo come mai un Aristofane sentisse il bisogno di destinare la sua pessima derisione (Le donne all’Assemblea) a questo genere di «utopie».
Anche Aristotele, uno dei filosofi che hanno prevalso nel corso della tradizione giunta fino a noi, dedicò non poche energie alla critica delle utopie sociali. Ed è perciò grazie a lui che veniamo a conoscere qualcosa che altrimenti sarebbe stato cancellato del tutto. «Falea di Calcedone - scrive Aristotele nella Politica - è il primo che abbia trattato questo tema: lui vuole che tutti abbiano uguali ricchezze» (II,4). Aristotele è ben consapevole del fatto che la disuguaglianza delle fortune è all’origine di ogni sorta di rivoluzioni, ma è anche convinto che questi utopisti non vedano giusto perché non hanno mai avuto vera e diretta esperienza della gestione di una città. Che il tema della disuguaglianza da sanare fosse incombente nella vita delle città greche è chiaro da vari sintomi, compreso il fatto, che ugualmente ci è noto da Aristotele, che nelle assemblee decisionali i due argomenti principali all’«odg» fossero la guerra (primo in assoluto) e le risorse economiche (secondo ma collegato strettamente al primo, visto che la guerra si faceva per avere più risorse e accontentare, o tenere a bada, i ceti meno ricchi).
Insomma la eterna questione sociale era al centro di tutta la vita. E l’impero era un modo per ammortizzarla, grazie allo sfruttamento (o rapina) inflitti agli altri. Ecco perché i «comunisti» ante litteram, inneggianti all’unità del genere umano, non avevano buona stampa nemmeno presso i ceti «proletari» di condizione libera (per usare un termine caratteristico del linguaggio romano).
A Roma un pensiero originale orientato in modo così radicale non sembra essersi sviluppato. Un grande poeta romano però (il più grande, secondo Theodor Mommsen), cioè Lucrezio, inserì nel quinto libro del suo poema Sulla natura una trattazione che si potrebbe modernamente intitolare «Origine della famiglia, della proprietà e dello Stato». In quel libro osserva, tra l’altro, che i dolori e i conflitti ebbero inizio, nella storia dell’umanità, quando «fu inventata la proprietà» ( res inventa est aurumque repertum ). C’è un che di rousseauiano, ancora una volta, in questa intuizione. Era una veduta sua o la ricavava da Epicuro, sua fonte principale? Quantunque Lucrezio sia stato in alcuni casi (ad es. nel radicale rifiuto della religione) pensatore originale, su di un tema come quello del costituirsi stesso della società dipendeva con ogni probabilità dal suo adorato Epicuro. E non a caso, un uomo come Cicerone riteneva pericoloso - lo dice nelle Tusculanae - il diffondersi «in tutta Italia», al tempo suo, di divulgazioni in lingua latina del pensiero di Epicuro. I pensatori greci dunque, soprattutto le molte correnti di pensiero che si dipartono dal socratismo e che siamo soliti chiamare filosofie «ellenistiche», furono inquietanti: lo furono già per i Romani. Facevano vacillare i capisaldi di una società divisa in classi. Durante il fascismo, nei media come a scuola, la Grecia veniva caparbiamente posposta a Roma. Il professore di liceo che nell’insegnamento dava troppo spazio ai Greci rispetto ai Romani era considerato sospetto, quasi «antifascista». Capitò così a Tommaso Fiore, il quale racconta che fu mandato un ispettore ministeriale nel suo liceo (ad Altamura) a chiedergli conto del fatto che egli leggesse con gli studenti nientemeno che la Repubblica di Platone.
come non fosse passato più di un secolo, "scienziati" inglesi
rispolverano Lombroso...
Le Scienze 30.05.2005
Comportamento antisociale ereditario
I bambini ereditano dai padri alcune tendenze psicopatiche
Uno studio pubblicato sulla rivista “Journal of Child Psychology & Psychiatry” ipotizza che il comportamento antisociale di alcuni bambini possa essere il risultato del loro corredo genetico.
Una ricerca britannica sui gemelli suggerisce che i bambini con tendenze psicopatiche premature, come l’assenza di rimorso, le abbiano ereditate dai propri padri. Questi bambini hanno forti probabilità di esibire un comportamento antisociale, ma i fattori ambientali sono altrettanto importanti e, se favorevoli, possono agire da tampone. Inoltre, il comportamento antisociale dei bambini privi di tendenze psicopatiche sarebbe dovuto con ogni probabilità principalmente ai fattori ambientali.
In passato, gli stessi ricercatori avevano scoperto che i ragazzi dotati di una particolare versione di un gene avevano molte più probabilità di manifestare un comportamento antisociale se da piccoli avevano subito maltrattamenti. Nel nuovo studio, Terrie Moffitt e colleghi del King’s College di Londra hanno seguito 3687 coppie di gemelli di sette anni. I gemelli vengono spesso usati per studiare le caratteristiche ereditarie, in quanto i gemelli identici condividono gli stessi geni e pertanto le stesse influenze ereditate.
Comportamento antisociale ereditario
I bambini ereditano dai padri alcune tendenze psicopatiche
Uno studio pubblicato sulla rivista “Journal of Child Psychology & Psychiatry” ipotizza che il comportamento antisociale di alcuni bambini possa essere il risultato del loro corredo genetico.
Una ricerca britannica sui gemelli suggerisce che i bambini con tendenze psicopatiche premature, come l’assenza di rimorso, le abbiano ereditate dai propri padri. Questi bambini hanno forti probabilità di esibire un comportamento antisociale, ma i fattori ambientali sono altrettanto importanti e, se favorevoli, possono agire da tampone. Inoltre, il comportamento antisociale dei bambini privi di tendenze psicopatiche sarebbe dovuto con ogni probabilità principalmente ai fattori ambientali.
In passato, gli stessi ricercatori avevano scoperto che i ragazzi dotati di una particolare versione di un gene avevano molte più probabilità di manifestare un comportamento antisociale se da piccoli avevano subito maltrattamenti. Nel nuovo studio, Terrie Moffitt e colleghi del King’s College di Londra hanno seguito 3687 coppie di gemelli di sette anni. I gemelli vengono spesso usati per studiare le caratteristiche ereditarie, in quanto i gemelli identici condividono gli stessi geni e pertanto le stesse influenze ereditate.
© 1999 - 2005 Le Scienze S.p.A.
Usa
depressione: fino a un adolescente su cinque
La Gazzetta del Sud 31.5.05
La depressione può colpire un adolescente su cinque
ROMA – La depressione può colpire oltre un adolescente su cinque e di questi il 40% sarà depresso anche più in là con gli anni, con probabilità elevata di malattia ricorrente per tutta la vita. È uno dei dati riferiti da Constance Hammen, psicologa dell'Università di Los Angeles, che da oltre 30 anni si occupa di questa malattia. Secondo un suo studio tuttora in corso, presentato alla conferenza annuale della American Psychological Society tenutasi a Los Angeles, a rischiare di più una depressione ricorrente sono quei giovani che, quando a 15 anni mostrano i primi segni della malattia, hanno difficoltà relazionali. Lo studio, condotto insieme a Patricia Brennan della Emory University di Atlanta, è finora durato 10 anni e ha visto la partecipazione di 800 famiglie con bambini, ormai ventenni, colpiti da depressione. «Abbiamo trovato che il rischio di depressione ricorrente» è alto in quei ragazzini che a 15 anni hanno insieme alla malattia anche difficoltà nelle relazioni sociali» ha ribadito Hammen, precisando che a questi ragazzi di solito si riscontrano altri problemi come fobie, attacchi di panico, ansia con un esordio anche alla tenera età di cinque anni.
La depressione può colpire un adolescente su cinque
ROMA – La depressione può colpire oltre un adolescente su cinque e di questi il 40% sarà depresso anche più in là con gli anni, con probabilità elevata di malattia ricorrente per tutta la vita. È uno dei dati riferiti da Constance Hammen, psicologa dell'Università di Los Angeles, che da oltre 30 anni si occupa di questa malattia. Secondo un suo studio tuttora in corso, presentato alla conferenza annuale della American Psychological Society tenutasi a Los Angeles, a rischiare di più una depressione ricorrente sono quei giovani che, quando a 15 anni mostrano i primi segni della malattia, hanno difficoltà relazionali. Lo studio, condotto insieme a Patricia Brennan della Emory University di Atlanta, è finora durato 10 anni e ha visto la partecipazione di 800 famiglie con bambini, ormai ventenni, colpiti da depressione. «Abbiamo trovato che il rischio di depressione ricorrente» è alto in quei ragazzini che a 15 anni hanno insieme alla malattia anche difficoltà nelle relazioni sociali» ha ribadito Hammen, precisando che a questi ragazzi di solito si riscontrano altri problemi come fobie, attacchi di panico, ansia con un esordio anche alla tenera età di cinque anni.
Umberto Veronesi
Giornale di Brescia 31.5.05
Veronesi: c’è ancora molta confusione
L’EX MINISTRO DELLA SANITÀ INTERVISTATO DA BONOLIS
ROMA - Paolo Bonolis e Umberto Veronesi faccia a faccia su un tema scottante: quello della legge sulla procreazione assistita. Il primo nei panni dell’intervistatore, il secondo in quelli dell’esperto. E proprio contro la mancanza di chiarezza informativa si è infatti scagliato l’ex ministro della sanità, già schieratosi a favore del sì ai quattro quesiti referendari. Occasione per l’intervista, un incontro organizzato da Il Riformista , alla presenza di vari politici tra i quali Maura Cossutta (Pdci) e Daniele Capezzone (Radicali). Tanti i temi passati in rassegna da Veronesi sotto il fuoco delle domande di Bonolis. E su un punto intervistato e intervistatore concordano pienamente: la mancanza di chiarezza che circonda i prossimi referendum e la «confusione» che, ha avvertito Veronesi, «può alla fine spingere la gente a non pronunciarsi». D’accordo Bonolis: «Non so se rispetto ai referendum si possa parlare di disinformazione - ha detto - ad ogni modo, se uno vuole capirne un po’ di più, può farlo». «Andare a votare è un dovere, sia che si voti per il sì sia che si voti per il no», è stato il monito dello scienziato. È importante andare alle urne, ha sottolineato Veronesi, «per esprimere il proprio pensiero, perchè questo Paese deve crescere: non possiamo pensare di costruire un futuro intelligente e razionale per il nostro Paese se non sappiamo cosa pensa la gente». Secondo Veronesi «questa legge fa di tutto per evitare la procreazione assistita, ponendo tantissimi ostacoli e creando confusione» . Ma se la Chiesa spinge all’astensione, ha commentato, «fa in un certo senso il suo mestiere; non capisco invece gli uomini politici che fanno proprio questo messaggio invitando la gente a non andare a votare. Questo è davvero scorretto e sorprendente». «La legge 40 sulla procreazione assistita è una legge contro le donne, perchè il desiderio di maternità - ha affermato l’ex ministro della S anità - è naturale e questa legge fa di tutto per ostacolarlo» . Veronesi ha fatto riferimento al dibattito circa l’inizio della vita e se il pre-embrione possa o meno essere considerato essere vivente. L’uovo fecondato, ha detto, «può essere considerato un primo passo verso il futuro nascituro, ma una forte corrente scientifica pone l’inizio della vita reale con la nascita dell’abbozzo cerebrale, ovvero verso la terza terza-quarta settimana di gestazione».
Veronesi: c’è ancora molta confusione
L’EX MINISTRO DELLA SANITÀ INTERVISTATO DA BONOLIS
ROMA - Paolo Bonolis e Umberto Veronesi faccia a faccia su un tema scottante: quello della legge sulla procreazione assistita. Il primo nei panni dell’intervistatore, il secondo in quelli dell’esperto. E proprio contro la mancanza di chiarezza informativa si è infatti scagliato l’ex ministro della sanità, già schieratosi a favore del sì ai quattro quesiti referendari. Occasione per l’intervista, un incontro organizzato da Il Riformista , alla presenza di vari politici tra i quali Maura Cossutta (Pdci) e Daniele Capezzone (Radicali). Tanti i temi passati in rassegna da Veronesi sotto il fuoco delle domande di Bonolis. E su un punto intervistato e intervistatore concordano pienamente: la mancanza di chiarezza che circonda i prossimi referendum e la «confusione» che, ha avvertito Veronesi, «può alla fine spingere la gente a non pronunciarsi». D’accordo Bonolis: «Non so se rispetto ai referendum si possa parlare di disinformazione - ha detto - ad ogni modo, se uno vuole capirne un po’ di più, può farlo». «Andare a votare è un dovere, sia che si voti per il sì sia che si voti per il no», è stato il monito dello scienziato. È importante andare alle urne, ha sottolineato Veronesi, «per esprimere il proprio pensiero, perchè questo Paese deve crescere: non possiamo pensare di costruire un futuro intelligente e razionale per il nostro Paese se non sappiamo cosa pensa la gente». Secondo Veronesi «questa legge fa di tutto per evitare la procreazione assistita, ponendo tantissimi ostacoli e creando confusione» . Ma se la Chiesa spinge all’astensione, ha commentato, «fa in un certo senso il suo mestiere; non capisco invece gli uomini politici che fanno proprio questo messaggio invitando la gente a non andare a votare. Questo è davvero scorretto e sorprendente». «La legge 40 sulla procreazione assistita è una legge contro le donne, perchè il desiderio di maternità - ha affermato l’ex ministro della S anità - è naturale e questa legge fa di tutto per ostacolarlo» . Veronesi ha fatto riferimento al dibattito circa l’inizio della vita e se il pre-embrione possa o meno essere considerato essere vivente. L’uovo fecondato, ha detto, «può essere considerato un primo passo verso il futuro nascituro, ma una forte corrente scientifica pone l’inizio della vita reale con la nascita dell’abbozzo cerebrale, ovvero verso la terza terza-quarta settimana di gestazione».
Bertinotti e il papa
La Stampa 31.5.05
IL SEGRETARIO DI RIFONDAZIONE: «INTERVENTO INOPPORTUNO»
Bertinotti: ha scelto di restare sul limite
ROMA. ONOREVOLE Bertinotti, l’intervento del Pontefice cambia qualcosa nel dibattito politico in vista del referendum. O no?
«A me pare che gli interventi vadano letti insieme, quello del Papa e del cardinale Ruini. Dico insieme, perché solo così si legge il senso dell’intervento della Chiesa nella vicenda referendaria attraverso una presa di posizione del Pontefice, diciamo tenuta sul limite... seppure con la forza e l’autorevolezza di un Pontefice... e che sebbene prevedibile, non poteva essere considerata scontata. Il carattere fortemente ecumenico della Chiesa poteva consentire la speranza di un non-intervento da parte del Pontefice».
Bertinotti, lei soppesa le parole. Ma c’è già chi grida allo scandalo.
«Naturalmente qui non si discute la legittimità di questo intervento, ma l’opportunità. E’ chiaro che il Capo della Chiesa può intervenire su tutte le questioni che abbiano a che fare con il vivere della Chiesa nel mondo contemporaneo. Ma la dimensione mondiale della Chiesa poteva lasciare sperare in una scelta di non-ingerenza. Non della Chiesa, bensì del suo massimo rappresentante. Mi spiego: la mia obiezione di opportunità è determinata dal carattere tutto particolare della figura del Pontefice».
Lei, però, non crede che abbia valicato la linea dell’ingerenza.
«Io dico: ha scelto di stare sul limite. Con un messaggio implicito, ma per nulla critpico per chiunque abbia conoscenza delle precedenti posizioni prese dal Pontefice. E il messaggio, una volta scelto di farlo, poteva tranquillamente fermarsi qua. Perché è chiaramente leggibile. Ripeto: sta sul limite. Non credo che gli si possa muovere un’obiezione di tipo istituzionale. Muoverei un’obiezione di opportunità per il contesto: il messaggio del Papa interviene indirettamente, ma inequivocabilmente nella scelta referendaria».
Ci sono appunto le parole di Ruini...
«Quello del cardinale Ruini è un intervento contestuale che, per il ruolo che interpreta e per la scelta dei tempi, è come se fosse (o si incaricasse) di tradurre in linguaggio esplicito ciò che era trattenuto e implicito nel Pontefice. Con questo uno-due, la posizione della Chiesa sul referendum diventa quella di una scelta diretta e attiva per l’astensione. Un intervento diretto e attivo con l’obiettivo di sconfiggere il referendum attraverso l’astensione. Del resto, mi pare che il cardinale dica: “astenetevi per non peggiorare la legge”. La cosa è abbastanza importante. Ricordo un articolo del cardinale Tettamanzi, apparso sull’Osservatore Romano di qualche giorno fa: citando san Tommaso d’Aquino, il cardinale ricordava che i cattolici non chiedono al diritto di identificarsi con la morale perché ciò produrrebbe mali maggiori. Ma, nella sua autonomia, il diritto non può contraddire la morale; i cattolici devono lavorare non perché la legge esprima il loro credo, ma perché rappresenti il male minore. E’ questa la posizione che risulta francamente molto preoccupante: la Chiesa si attribuisce la prerogativa di essere lei a misurare la compatibilità della legge con la morale. Non la sto accusando di Stato etico, ma di fissare lei la linea di confine e di chiamare i cattolici a difendere quel confine. E un’idea neoconfessionale dello Stato. Un’idea più raffinata di rapporto con la modernità dell’antica idea confessionale».
Significa che il diritto è costantemente in mora?
«No, perché c’è uno spazio di autonomia del diritto dalla morale. Anche loro sono avvertiti del pericolo dello Stato etico. Ma la via d’uscita non risolve la questione. Non riconosce l’autonomia della fondazione laica della legge da parte dello Stato e dunque del popolo. La richiesta di astensione da parte di Ruini è come l’erezione di un muro. Fissa il limite di incompatibilità con la morale. Ma siccome è definito dalla Chiesa è perciò anche indiscutibile».
IL SEGRETARIO DI RIFONDAZIONE: «INTERVENTO INOPPORTUNO»
Bertinotti: ha scelto di restare sul limite
ROMA. ONOREVOLE Bertinotti, l’intervento del Pontefice cambia qualcosa nel dibattito politico in vista del referendum. O no?
«A me pare che gli interventi vadano letti insieme, quello del Papa e del cardinale Ruini. Dico insieme, perché solo così si legge il senso dell’intervento della Chiesa nella vicenda referendaria attraverso una presa di posizione del Pontefice, diciamo tenuta sul limite... seppure con la forza e l’autorevolezza di un Pontefice... e che sebbene prevedibile, non poteva essere considerata scontata. Il carattere fortemente ecumenico della Chiesa poteva consentire la speranza di un non-intervento da parte del Pontefice».
Bertinotti, lei soppesa le parole. Ma c’è già chi grida allo scandalo.
«Naturalmente qui non si discute la legittimità di questo intervento, ma l’opportunità. E’ chiaro che il Capo della Chiesa può intervenire su tutte le questioni che abbiano a che fare con il vivere della Chiesa nel mondo contemporaneo. Ma la dimensione mondiale della Chiesa poteva lasciare sperare in una scelta di non-ingerenza. Non della Chiesa, bensì del suo massimo rappresentante. Mi spiego: la mia obiezione di opportunità è determinata dal carattere tutto particolare della figura del Pontefice».
Lei, però, non crede che abbia valicato la linea dell’ingerenza.
«Io dico: ha scelto di stare sul limite. Con un messaggio implicito, ma per nulla critpico per chiunque abbia conoscenza delle precedenti posizioni prese dal Pontefice. E il messaggio, una volta scelto di farlo, poteva tranquillamente fermarsi qua. Perché è chiaramente leggibile. Ripeto: sta sul limite. Non credo che gli si possa muovere un’obiezione di tipo istituzionale. Muoverei un’obiezione di opportunità per il contesto: il messaggio del Papa interviene indirettamente, ma inequivocabilmente nella scelta referendaria».
Ci sono appunto le parole di Ruini...
«Quello del cardinale Ruini è un intervento contestuale che, per il ruolo che interpreta e per la scelta dei tempi, è come se fosse (o si incaricasse) di tradurre in linguaggio esplicito ciò che era trattenuto e implicito nel Pontefice. Con questo uno-due, la posizione della Chiesa sul referendum diventa quella di una scelta diretta e attiva per l’astensione. Un intervento diretto e attivo con l’obiettivo di sconfiggere il referendum attraverso l’astensione. Del resto, mi pare che il cardinale dica: “astenetevi per non peggiorare la legge”. La cosa è abbastanza importante. Ricordo un articolo del cardinale Tettamanzi, apparso sull’Osservatore Romano di qualche giorno fa: citando san Tommaso d’Aquino, il cardinale ricordava che i cattolici non chiedono al diritto di identificarsi con la morale perché ciò produrrebbe mali maggiori. Ma, nella sua autonomia, il diritto non può contraddire la morale; i cattolici devono lavorare non perché la legge esprima il loro credo, ma perché rappresenti il male minore. E’ questa la posizione che risulta francamente molto preoccupante: la Chiesa si attribuisce la prerogativa di essere lei a misurare la compatibilità della legge con la morale. Non la sto accusando di Stato etico, ma di fissare lei la linea di confine e di chiamare i cattolici a difendere quel confine. E un’idea neoconfessionale dello Stato. Un’idea più raffinata di rapporto con la modernità dell’antica idea confessionale».
Significa che il diritto è costantemente in mora?
«No, perché c’è uno spazio di autonomia del diritto dalla morale. Anche loro sono avvertiti del pericolo dello Stato etico. Ma la via d’uscita non risolve la questione. Non riconosce l’autonomia della fondazione laica della legge da parte dello Stato e dunque del popolo. La richiesta di astensione da parte di Ruini è come l’erezione di un muro. Fissa il limite di incompatibilità con la morale. Ma siccome è definito dalla Chiesa è perciò anche indiscutibile».
Margherita Hack
31 Maggio 2005
Intervista a Margherita Hack
di Cristiana Pulcinelli
CON LA PASSIONE di sempre, Margherita Hack affronta la questione referendum. E si indigna:
«È una vergogna che la Chiesa interferisca così nelle questioni dello Stato. Mi sembra che sia anche una violazione del Concordato. Paradossalmente, c'erano meno interferenze quando in Italia dominava la Dc».
Ma l'indignazione della scienziata non finisce qui:
«Ancora più vergognoso del discorso del Papa è il fatto che il presidente del Senato inviti all'astensione: è gravissimo che la seconda carica dello Stato chieda ai cittadini di non servirsi dei diritti di cui dispongono».
Cosa voterà il 12 giugno?
Voterò 4 sì perché penso che questa sia una legge retrograda, medievale, antiscientifica e liberticida. E una legge antiscientifica perché impedisce la ricerca sulle cellule staminali embrionali che sono le più duttili e quindi quelle su cui puntare per cercare una possibile cura per malattie gravi come il Parkinson e l'Alzheimer. È liberticida perché impone molti divieti alla libertà di coppie sterili o portatrici di malattie genetiche che potrebbero usufruire di ciò che la scienza offre loro. Sento discorsi da Inquisizione. Si parla di diavolo, di pericoli insiti nella scienza. Invece è una cosa esaltante vedere come si comincia a capire il mistero della vita. E poi ci sono aspetti della legge davvero retrogradi e assurdi. Il fatto che se la donna non vuole più impiantare gli ovuli fecondati, lo deve fare lo stesso. Come si fa? La si lega? La si imbavaglia? Oppure il divieto della fecondazione eterologa. Sembra quasi che si paragoni la fecondazione eterologa all'adulterio. Quarant'anni fa la donna adultera finiva in galera, come successe alla Dama bianca di Coppi.
L'uomo invece commetteva reato solo in caso di concubinaggio evidente, se lo faceva di nascosto andava tutto bene. Ecco, sento lo stesso clima. Senza contare che, condannando l'eterologa, si arriva all'assurda conseguenza che i genitori dei figli adottivi sono da considerare meno genitori di quelli naturali.
Questa legge è figlia di un clima antiscientifico?
C'è una tendenza a demonizzare quello che fa la scienza. E anche una diminuzione di interesse per i suoi risultati. Un atteggiamento che è frutto anche di una grande ignoranza. Un'ignoranza che viene coltivata, per la verità. Con la riforma della scuola, ad esempio, si riducono le ore dedicate alle materie scientifiche e si va addirittura verso l'abolizione dell'insegnamento della chimica. Un paradosso, perché la chimica ha un posto centrale nella tanto vantata innovazione.
Da cos'altro è nata questa legge?
Da un atteggiamento violento della Chiesa che vuole imporre la morale cattolica a tutti, anche ai non credenti. E da una pratica di arroganza di questo governo che si è rifiutato di discutere gli emendamenti alla legge e non ha ascoltato gli scienziati.
C'è chi dice che siccome il tema del referendum è complicato e non si capisce niente è meglio astenersi.
Le cose che dice la legge sono talmente assurde che sono comprensibili a tutti. Impiantare un embrione malato anche senza la volontà della madre, equiparare i diritti di un embrione a quelli di una persona adulta sono assurdità tali che anche un bambino lo capisce.
Se questa legge passerà così com'è ci saranno conseguenze anche per la legge sull'aborto?
Certamente si crea una contraddizione perché mentre con questa legge si protegge l'embrione, impedendo anche di vedere se è malato per evitare che non venga impiantato, con la legge 194 si permette l'aborto di un feto di 12 settimane. Con l'assurda conseguenza che un feto avrebbe meno anima di un embrione. Io credo che in realtà questo preluda a mettere in discussione la 194 che ha avuto il merito di ridurre il numero di aborti e di morti per aborto.
Si è tornati a parlare di limiti alla scienza. Cosa ne pensa?
Il limite della scienza è che deve agire per il bene degli esseri umani e non per la loro distruzione. Vale anche per gli scienziati il principio generale «non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te.
Ma porre dei divieti alla ricerca non è possibile. Ma la scienza va avanti malgrado tutto. Giordano Bruno è morto sul rogo e Galilei è stato costretto ad abiurare, ma oggi tutti sono convinti che il sole stia fermo e sia la Terra a girare. Così anche questi assurdi divieti alla scienza medica dovranno essere rimossi. Ma, del resto, negli altri paesi la ricerca sulle staminali embrionali già si fa. Vorrà dire che resta indietro l'Italia».
È eticamente accettabile la creazione di possibili organi di ricambio ottenuti clonando cellule di malati?
Se si può guarire qualcuno, perché non farlo? Altrimenti, dovremmo accettare passivamente tutto ciò che ci viene dalla vita e dovremmo lasciare che il malato soffra la sua pena. Se avessimo ragionato così saremmo ancora all'età della pietra.
Perché bisogna andare a votare?
Perché non possiamo fare come Ponzio Pilato.
Intervista a Margherita Hack
di Cristiana Pulcinelli
CON LA PASSIONE di sempre, Margherita Hack affronta la questione referendum. E si indigna:
«È una vergogna che la Chiesa interferisca così nelle questioni dello Stato. Mi sembra che sia anche una violazione del Concordato. Paradossalmente, c'erano meno interferenze quando in Italia dominava la Dc».
Ma l'indignazione della scienziata non finisce qui:
«Ancora più vergognoso del discorso del Papa è il fatto che il presidente del Senato inviti all'astensione: è gravissimo che la seconda carica dello Stato chieda ai cittadini di non servirsi dei diritti di cui dispongono».
Cosa voterà il 12 giugno?
Voterò 4 sì perché penso che questa sia una legge retrograda, medievale, antiscientifica e liberticida. E una legge antiscientifica perché impedisce la ricerca sulle cellule staminali embrionali che sono le più duttili e quindi quelle su cui puntare per cercare una possibile cura per malattie gravi come il Parkinson e l'Alzheimer. È liberticida perché impone molti divieti alla libertà di coppie sterili o portatrici di malattie genetiche che potrebbero usufruire di ciò che la scienza offre loro. Sento discorsi da Inquisizione. Si parla di diavolo, di pericoli insiti nella scienza. Invece è una cosa esaltante vedere come si comincia a capire il mistero della vita. E poi ci sono aspetti della legge davvero retrogradi e assurdi. Il fatto che se la donna non vuole più impiantare gli ovuli fecondati, lo deve fare lo stesso. Come si fa? La si lega? La si imbavaglia? Oppure il divieto della fecondazione eterologa. Sembra quasi che si paragoni la fecondazione eterologa all'adulterio. Quarant'anni fa la donna adultera finiva in galera, come successe alla Dama bianca di Coppi.
L'uomo invece commetteva reato solo in caso di concubinaggio evidente, se lo faceva di nascosto andava tutto bene. Ecco, sento lo stesso clima. Senza contare che, condannando l'eterologa, si arriva all'assurda conseguenza che i genitori dei figli adottivi sono da considerare meno genitori di quelli naturali.
Questa legge è figlia di un clima antiscientifico?
C'è una tendenza a demonizzare quello che fa la scienza. E anche una diminuzione di interesse per i suoi risultati. Un atteggiamento che è frutto anche di una grande ignoranza. Un'ignoranza che viene coltivata, per la verità. Con la riforma della scuola, ad esempio, si riducono le ore dedicate alle materie scientifiche e si va addirittura verso l'abolizione dell'insegnamento della chimica. Un paradosso, perché la chimica ha un posto centrale nella tanto vantata innovazione.
Da cos'altro è nata questa legge?
Da un atteggiamento violento della Chiesa che vuole imporre la morale cattolica a tutti, anche ai non credenti. E da una pratica di arroganza di questo governo che si è rifiutato di discutere gli emendamenti alla legge e non ha ascoltato gli scienziati.
C'è chi dice che siccome il tema del referendum è complicato e non si capisce niente è meglio astenersi.
Le cose che dice la legge sono talmente assurde che sono comprensibili a tutti. Impiantare un embrione malato anche senza la volontà della madre, equiparare i diritti di un embrione a quelli di una persona adulta sono assurdità tali che anche un bambino lo capisce.
Se questa legge passerà così com'è ci saranno conseguenze anche per la legge sull'aborto?
Certamente si crea una contraddizione perché mentre con questa legge si protegge l'embrione, impedendo anche di vedere se è malato per evitare che non venga impiantato, con la legge 194 si permette l'aborto di un feto di 12 settimane. Con l'assurda conseguenza che un feto avrebbe meno anima di un embrione. Io credo che in realtà questo preluda a mettere in discussione la 194 che ha avuto il merito di ridurre il numero di aborti e di morti per aborto.
Si è tornati a parlare di limiti alla scienza. Cosa ne pensa?
Il limite della scienza è che deve agire per il bene degli esseri umani e non per la loro distruzione. Vale anche per gli scienziati il principio generale «non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te.
Ma porre dei divieti alla ricerca non è possibile. Ma la scienza va avanti malgrado tutto. Giordano Bruno è morto sul rogo e Galilei è stato costretto ad abiurare, ma oggi tutti sono convinti che il sole stia fermo e sia la Terra a girare. Così anche questi assurdi divieti alla scienza medica dovranno essere rimossi. Ma, del resto, negli altri paesi la ricerca sulle staminali embrionali già si fa. Vorrà dire che resta indietro l'Italia».
È eticamente accettabile la creazione di possibili organi di ricambio ottenuti clonando cellule di malati?
Se si può guarire qualcuno, perché non farlo? Altrimenti, dovremmo accettare passivamente tutto ciò che ci viene dalla vita e dovremmo lasciare che il malato soffra la sua pena. Se avessimo ragionato così saremmo ancora all'età della pietra.
Perché bisogna andare a votare?
Perché non possiamo fare come Ponzio Pilato.
l'odio della chiesa per la libertà delle donne
L'Unità 31 Maggio 2005
DAL CREATORE
di Oreste Pivetta
«La legge non è obbligata a punire tutto, ma non può andare contro una legge più profonda e più augusta di ogni legge umana: la legge naturale, la quale è iscritta dal Creatore nel cuore dell’uomo come norma che la ragione discopre e si adopera a ben formulare, che bisogna costantemente sforzarsi a meglio comprendere, ma che è sempre male contraddire...». Stop. Se le cose stanno così, come spiegava il cardinal Seper a proposito di aborto durante la Sacra congregazione per la dottrina della Fede, il 18 novembre 1974, c’è poco da discutere. Dal Creatore alla Chiesa, dalla Chiesa allo Stato, che si deve adeguare. In realtà non c’è mai stato niente di chiaro. Il conflitto è secolare. Da Ambrogio, vescovo in Milano, a Teodosio.
Ne sapeva qualche cosa Dante, in Inghilterra la monarchia fece la sua Chiesa, la Rivoluzione francese cacciò il clero, Camillo Benso conte di Cavour inventò la formula «libera Chiesa in libero Stato»: lui il problema ce l’aveva in casa. Porta Pia fu uno scandalo indimenticabile: un secolo dopo alcuni radicali capeggiati da un giovane Marco Pannella deposero una corona di fiori presso la Breccia e vennero denunciati, sulla base di una legge fascista, poco naturale, che limitava la libertà di manifestazione. Interferenza, quasi una lunga mano concordataria, una sintesi legislativa, illuminata naturalmente dalla “legge naturale”.
Il dopoguerra italiano è una perfetta intesa tra una idea democristiana dello Stato e la Chiesa, tra la Dc di De Gasperi e i vescovi, tra il potere e le curie. Nel dicembre del ‘46 Pio XII, papa Pacelli, scese in campo, indicando il pericolo comunista. Nel 1949 con un decreto del Santo Uffizio scomunicò chi aderiva al partito comunista, malgrado Togliatti avesse accolto il Concordato fascista nella Costituzione, sentendosi al riparo grazie all’articolo 3 («Davanti alla legge pari dignità senza distinzione di religione...»), temendo soprattutto la divisione: «La classe operaia non vuole una scissione nel paese per motivi religiosi...». Approvato l’articolo 7 (i patti Lateranensi di Mussolini), il cardinal Ruffini chiese al ministero degli interni che il Pci fosse messo fuori legge.
Intanto scendevano in campo i baschi verdi di Luigi Gedda, che cantavano: «Siamo arditi della fede/ siamo araldi della croce/ siam un esercito all’altar». Poi verranno i Treni dell’Amicizia e la Peregrinatio Mariae, l'anno della Madonna (una cosa nuova, un’invenzione propagandistica). Si mobiliteranno parrocchie, case religiose, istituti di beneficenza, preti, insegnanti. Ad ogni angolo una madonna piangeva, «addolorata dalla belva comunista». Diventò difficile trovare un lavoro se si era contro o non si partecipava con solerzia.
Dalla radio cominciò a tuonare Padre Lombardi, con il suo "Microfono di Dio". Non contento di far arrivare la sua «voce dal cielo» lo si trovava in ogni piazza, contro i comunisti, «atei senza Cristo, senza anima, figli del demonio con le mani sporche di sangue».
L’Italia repubblicana cominciò così. La Dc vinse, poi perse e arrivò il centrosinistra che sperava d’inventarsi un paese diverso. La sinistra comunista cresceva e il Sessantotto rinfrescò l’aria, all’inizio diede una mano al laicismo, smontò tanti miti, contestò la famiglia, eccetera eccetera. Proprio in quegli anni maturò una legge, quella per il divorzio, che venne approvata nel 1970, quarant’anni dopo il Concordato, che aveva riconosciuto «al sacramento del matrimonio, disciplinato dal diritto canonico, gli effetti civili...». Passando il corteo nuziale tra le navate di una chiesa, il matrimonio diventava sacramento e quindi indissolubile. Nel 1974 il referendum bocciò la richiesta di abrogazione. Otto anni dopo il divorzio, fu votata in parlamento anche la legge sull’aborto, la famosa legge 194. Anche in questo caso si andò al referendum, nel 1981, poco dopo l’attentato a Giovanni Paolo II. Anzi due referendum: uno, cattolico, abrogativo della legge, l’altro, radicale, estensivo. Furono vistosamente respinti entrambi. Ma la Chiesa che alle sue origini non aveva condannato l’aborto (ancora al tempo di Agostino era consentito fino al terzo mese), non rinunciò mai alla sua battaglia. Ancora nel 1995 papa Woytila proclamò che «...nessuno può autorizzare l’uccisione di un essere umano innocente, feto o embrione che sia» e definì le leggi che autorizzano l’interruzione di gravidanza «del tutto prive di autentica validità giuridica». Qualcuno andò oltre: il cardinal Meisner definì l’aborto «un genocidio». Evocando Hitler. Come, più tardi, Ratzinger, ancora cardinale: «In un certo senso Hitler anticipò alcuni moderni sviluppi come la clonazione o la sperimentazione medica degli embrioni umani».
DAL CREATORE
di Oreste Pivetta
«La legge non è obbligata a punire tutto, ma non può andare contro una legge più profonda e più augusta di ogni legge umana: la legge naturale, la quale è iscritta dal Creatore nel cuore dell’uomo come norma che la ragione discopre e si adopera a ben formulare, che bisogna costantemente sforzarsi a meglio comprendere, ma che è sempre male contraddire...». Stop. Se le cose stanno così, come spiegava il cardinal Seper a proposito di aborto durante la Sacra congregazione per la dottrina della Fede, il 18 novembre 1974, c’è poco da discutere. Dal Creatore alla Chiesa, dalla Chiesa allo Stato, che si deve adeguare. In realtà non c’è mai stato niente di chiaro. Il conflitto è secolare. Da Ambrogio, vescovo in Milano, a Teodosio.
Ne sapeva qualche cosa Dante, in Inghilterra la monarchia fece la sua Chiesa, la Rivoluzione francese cacciò il clero, Camillo Benso conte di Cavour inventò la formula «libera Chiesa in libero Stato»: lui il problema ce l’aveva in casa. Porta Pia fu uno scandalo indimenticabile: un secolo dopo alcuni radicali capeggiati da un giovane Marco Pannella deposero una corona di fiori presso la Breccia e vennero denunciati, sulla base di una legge fascista, poco naturale, che limitava la libertà di manifestazione. Interferenza, quasi una lunga mano concordataria, una sintesi legislativa, illuminata naturalmente dalla “legge naturale”.
Il dopoguerra italiano è una perfetta intesa tra una idea democristiana dello Stato e la Chiesa, tra la Dc di De Gasperi e i vescovi, tra il potere e le curie. Nel dicembre del ‘46 Pio XII, papa Pacelli, scese in campo, indicando il pericolo comunista. Nel 1949 con un decreto del Santo Uffizio scomunicò chi aderiva al partito comunista, malgrado Togliatti avesse accolto il Concordato fascista nella Costituzione, sentendosi al riparo grazie all’articolo 3 («Davanti alla legge pari dignità senza distinzione di religione...»), temendo soprattutto la divisione: «La classe operaia non vuole una scissione nel paese per motivi religiosi...». Approvato l’articolo 7 (i patti Lateranensi di Mussolini), il cardinal Ruffini chiese al ministero degli interni che il Pci fosse messo fuori legge.
Intanto scendevano in campo i baschi verdi di Luigi Gedda, che cantavano: «Siamo arditi della fede/ siamo araldi della croce/ siam un esercito all’altar». Poi verranno i Treni dell’Amicizia e la Peregrinatio Mariae, l'anno della Madonna (una cosa nuova, un’invenzione propagandistica). Si mobiliteranno parrocchie, case religiose, istituti di beneficenza, preti, insegnanti. Ad ogni angolo una madonna piangeva, «addolorata dalla belva comunista». Diventò difficile trovare un lavoro se si era contro o non si partecipava con solerzia.
Dalla radio cominciò a tuonare Padre Lombardi, con il suo "Microfono di Dio". Non contento di far arrivare la sua «voce dal cielo» lo si trovava in ogni piazza, contro i comunisti, «atei senza Cristo, senza anima, figli del demonio con le mani sporche di sangue».
L’Italia repubblicana cominciò così. La Dc vinse, poi perse e arrivò il centrosinistra che sperava d’inventarsi un paese diverso. La sinistra comunista cresceva e il Sessantotto rinfrescò l’aria, all’inizio diede una mano al laicismo, smontò tanti miti, contestò la famiglia, eccetera eccetera. Proprio in quegli anni maturò una legge, quella per il divorzio, che venne approvata nel 1970, quarant’anni dopo il Concordato, che aveva riconosciuto «al sacramento del matrimonio, disciplinato dal diritto canonico, gli effetti civili...». Passando il corteo nuziale tra le navate di una chiesa, il matrimonio diventava sacramento e quindi indissolubile. Nel 1974 il referendum bocciò la richiesta di abrogazione. Otto anni dopo il divorzio, fu votata in parlamento anche la legge sull’aborto, la famosa legge 194. Anche in questo caso si andò al referendum, nel 1981, poco dopo l’attentato a Giovanni Paolo II. Anzi due referendum: uno, cattolico, abrogativo della legge, l’altro, radicale, estensivo. Furono vistosamente respinti entrambi. Ma la Chiesa che alle sue origini non aveva condannato l’aborto (ancora al tempo di Agostino era consentito fino al terzo mese), non rinunciò mai alla sua battaglia. Ancora nel 1995 papa Woytila proclamò che «...nessuno può autorizzare l’uccisione di un essere umano innocente, feto o embrione che sia» e definì le leggi che autorizzano l’interruzione di gravidanza «del tutto prive di autentica validità giuridica». Qualcuno andò oltre: il cardinal Meisner definì l’aborto «un genocidio». Evocando Hitler. Come, più tardi, Ratzinger, ancora cardinale: «In un certo senso Hitler anticipò alcuni moderni sviluppi come la clonazione o la sperimentazione medica degli embrioni umani».
dai mondi tolemaici
neuropsichiatri infantili di fronte all'autismo...
Redattore Sociale 31.5.05
DISABILITÀ
2 giugno, Giornata nazionale dell'autismo.
L'Angsa promuove manifestazioni per far conoscere i problemi di 150mila persone in tutta Italia. L'auspicio per il 2005 è la sensibilizzazione sul tema della ricerca delle cause e delle terapie
ROMA - Angsa onlus (Associazione nazionale genitori soggetti autistici) ha proclamato anche quest’anno anche quest’anno la giornata nazionale dell’autismo
(...)
le diverse associazioni regionali aderenti all’Angsa promuoveranno manifestazioni tendenti a fare conoscere i problemi degli autistici e delle loro famiglie, circa 150.000 in tutta Italia. L’elenco delle piazze e delle manifestazioni sarà consultabile visitando il sito: www.angsaonlus.org oppure alla segreteria telefonica dell’Angsa (tel. 06 43587666).
“L’auspicio per il 2005 – afferma l’organizzazione - è la sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul tema della ricerca delle cause specifiche dell’autismo e delle sue terapie. Obbiettivo dell’iniziativa è costituire una fondazione per la raccolta di fondi per la ricerca, da devolvere agli scienziati per consentire la prevenzione e la cura di questa sindrome, tanto grave quanto poco curata”.
Da segnalare che sempre in Emilia-Romagna, il prossimo 18 novembre 2005, la Fondazione Augusta Pini e Ospizi Marini ha indetto a Bologna un grande convegno internazionale su Autismo ed educazione, con la partecipazione di Eric Schopler, massimo rappresentante mondiale nel settore, e degli Esperti del Comitato scientifico dell’Angsa.
“Dalla descrizione dell'autismo fatta da Kanner ad oggi sono passati più di sessant'anni, durante i quali la ricerca scientifica sull’autismo infantile e i disturbi pervasivi dello sviluppo ha compiuto progressi modesti – evidenzia il presidente dell’Angsa, Giovanni Marino -. In questo campo la ricerca è fondamentale, in quanto per la grande maggioranza di casi non si conoscono le cause precise della disabilità e neppure rimedi farmacologici efficaci. Da oltre mezzo secolo, a cominciare dagli studi di Anne Freud, l’epidemiologia aveva ampiamente dimostrato che questi disturbi originano da cause organiche e soprattutto genetiche, ma soltanto dalla metà degli anni ’90 i genetisti si sono occupati di autismo. Da quest’anno i consorzi internazionali che si occupano di genetica dell’autismo hanno deciso di mettere in comune le loro banche e di procedere in sinergia e collaborazione i loro studi: tale novità potrà imprimere una fortissima accelerazione agli studi in questo specifico campo”.
“Negli ultimi due anni varie Regioni hanno emanato le loro linee guida per l’autismo – continua Marino -: Abruzzo, Emilia-Romagna, Sicilia, Campania, Calabria. La Regione Marche ha portato a termine un piano di formazione permanente che ha coinvolto centinaia di operatori e genitori informandoli sulle metodiche di pedagogia speciale validate da decine di anni di esperienza all’estero (www.autismomarche.it). La Sinopia (Società Italiana di Neuropsichiatria Infantile) ha appena emanato le sue linee guida per l’autismo, che costituiscono una corretta raccomandazione per assicurare precocemente la diagnosi, il trattamento e l’abilitazione dei bambini, che possono e devono essere riconosciuti e trattati fin dai 18 mesi di età, con la collaborazione dei pediatri di fiducia, degli specialisti Npi e dei genitori stessi. E’ stata definitivamente abbandonata la falsa ipotesi sull’inadeguatezza affettiva della madre, che aveva impedito il decollo della ricerca scientifica da parte delle neuroscienze”.
“L’Angsa-onlus nazionale ed affiliate, insieme ad altre associazioni come Anffas, Autismo Italia, Apri, aderenti alla Fish, Il Cireneo, Agsas ed altre chiedono da anni un recupero del tempo perduto, con un maggior impegno nella ricerca scientifica – conclude -. Si deve tenere conto di quanto indicato esplicitamente nel Programma di azione del Governo per le politiche dell’handicap 2000-2003, ed applicare l’art.5, lettera a, della legge n.104/92, che prevede si privilegino le ricerche per la prevenzione e la cura della disabilità, con la partecipazione dei disabili e delle loro famiglie. Pur in carenza di nuovi fondi pubblici per la ricerca, proseguono alcune ricerche sull’autismo, una delle quali coinvolge sei Regioni italiane: Abruzzo, Veneto, Emilia-Romagna, Umbria, Marche e Calabria . Telethon devolve una parte dei suoi fondi anche alle ricerche sull’autismo.
(...)
DISABILITÀ
2 giugno, Giornata nazionale dell'autismo.
L'Angsa promuove manifestazioni per far conoscere i problemi di 150mila persone in tutta Italia. L'auspicio per il 2005 è la sensibilizzazione sul tema della ricerca delle cause e delle terapie
ROMA - Angsa onlus (Associazione nazionale genitori soggetti autistici) ha proclamato anche quest’anno anche quest’anno la giornata nazionale dell’autismo
(...)
le diverse associazioni regionali aderenti all’Angsa promuoveranno manifestazioni tendenti a fare conoscere i problemi degli autistici e delle loro famiglie, circa 150.000 in tutta Italia. L’elenco delle piazze e delle manifestazioni sarà consultabile visitando il sito: www.angsaonlus.org oppure alla segreteria telefonica dell’Angsa (tel. 06 43587666).
“L’auspicio per il 2005 – afferma l’organizzazione - è la sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul tema della ricerca delle cause specifiche dell’autismo e delle sue terapie. Obbiettivo dell’iniziativa è costituire una fondazione per la raccolta di fondi per la ricerca, da devolvere agli scienziati per consentire la prevenzione e la cura di questa sindrome, tanto grave quanto poco curata”.
Da segnalare che sempre in Emilia-Romagna, il prossimo 18 novembre 2005, la Fondazione Augusta Pini e Ospizi Marini ha indetto a Bologna un grande convegno internazionale su Autismo ed educazione, con la partecipazione di Eric Schopler, massimo rappresentante mondiale nel settore, e degli Esperti del Comitato scientifico dell’Angsa.
“Dalla descrizione dell'autismo fatta da Kanner ad oggi sono passati più di sessant'anni, durante i quali la ricerca scientifica sull’autismo infantile e i disturbi pervasivi dello sviluppo ha compiuto progressi modesti – evidenzia il presidente dell’Angsa, Giovanni Marino -. In questo campo la ricerca è fondamentale, in quanto per la grande maggioranza di casi non si conoscono le cause precise della disabilità e neppure rimedi farmacologici efficaci. Da oltre mezzo secolo, a cominciare dagli studi di Anne Freud, l’epidemiologia aveva ampiamente dimostrato che questi disturbi originano da cause organiche e soprattutto genetiche, ma soltanto dalla metà degli anni ’90 i genetisti si sono occupati di autismo. Da quest’anno i consorzi internazionali che si occupano di genetica dell’autismo hanno deciso di mettere in comune le loro banche e di procedere in sinergia e collaborazione i loro studi: tale novità potrà imprimere una fortissima accelerazione agli studi in questo specifico campo”.
“Negli ultimi due anni varie Regioni hanno emanato le loro linee guida per l’autismo – continua Marino -: Abruzzo, Emilia-Romagna, Sicilia, Campania, Calabria. La Regione Marche ha portato a termine un piano di formazione permanente che ha coinvolto centinaia di operatori e genitori informandoli sulle metodiche di pedagogia speciale validate da decine di anni di esperienza all’estero (www.autismomarche.it). La Sinopia (Società Italiana di Neuropsichiatria Infantile) ha appena emanato le sue linee guida per l’autismo, che costituiscono una corretta raccomandazione per assicurare precocemente la diagnosi, il trattamento e l’abilitazione dei bambini, che possono e devono essere riconosciuti e trattati fin dai 18 mesi di età, con la collaborazione dei pediatri di fiducia, degli specialisti Npi e dei genitori stessi. E’ stata definitivamente abbandonata la falsa ipotesi sull’inadeguatezza affettiva della madre, che aveva impedito il decollo della ricerca scientifica da parte delle neuroscienze”.
“L’Angsa-onlus nazionale ed affiliate, insieme ad altre associazioni come Anffas, Autismo Italia, Apri, aderenti alla Fish, Il Cireneo, Agsas ed altre chiedono da anni un recupero del tempo perduto, con un maggior impegno nella ricerca scientifica – conclude -. Si deve tenere conto di quanto indicato esplicitamente nel Programma di azione del Governo per le politiche dell’handicap 2000-2003, ed applicare l’art.5, lettera a, della legge n.104/92, che prevede si privilegino le ricerche per la prevenzione e la cura della disabilità, con la partecipazione dei disabili e delle loro famiglie. Pur in carenza di nuovi fondi pubblici per la ricerca, proseguono alcune ricerche sull’autismo, una delle quali coinvolge sei Regioni italiane: Abruzzo, Veneto, Emilia-Romagna, Umbria, Marche e Calabria . Telethon devolve una parte dei suoi fondi anche alle ricerche sull’autismo.
(...)
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lunedì 30 maggio 2005
il laicismo spagnolo
La Stampa 30 Maggio 2005
SULLA SCELTA INCIDERÀ LO SCONTRO SULLE NOZZE GAY E LA FECONDAZIONE ASSISTITA
La Spagna taglierà i fondi al clero
A fine anno scade la proroga dei finanziamenti di Stato
Gian Antonio Orighi
MADRID. Il governo del premier socialista (ed agnostico) José Luis Rodríguez Zapatero minaccia di tagliare i fondi pubblici alla Chiesa cattolica con cui è ai ferri più che corti per divorzio-lampo, nozze ed adozioni gay, clonazione terapeutica, fecondazione assistita. La spada di Damocle è stata annunciata ieri, con una intervista al quotidiano barcellonese «La Vanguardia» dal «padre di tutti i relativismi», il Guardiasigilli Juan Fernando López Aguilar, difensore a spada tratta dell'«allargamento dei diritti civili» come gli imeni omosessuali. Per capire appieno la portata alzo zero, bisogna prima ricordare che le dichiarazioni arrivano, non a caso, in un momento molto delicato: a fine anno scade l'ultima proroga della disposizione transitoria dell'attuale sistema di finanziamento ecclesiale, pattuito nell'87 tra la Conferencia Episcopal Española (Cee) e l'ex governo socialista del premier González. Allora le gerarchie religiose si impegnarano, nel giro di 3 anni, ad autofinanziarsi mediante l'apporto volontario dei fedeli via lo 0,5239% della loro dichiarazione dei redditi sulle persone fisiche. Un compromesso, però, mai rispettato negli ultimi 15 anni. Lo Stato, sia con González che con il premier popolare Aznar, ha sempre anticipato mensualmente (quest'anno 11,78 milioni di €, su 141,46 previsti per il 2005), molto più di quanto poi versavano i fedeli. E non ha mai chiesto indietro la differenza tra la somma anticipata e quella incassata. Un gap a fondo perduto pari, solo tra l'88 ed il 2002, a 450,89 milioni di €. In questo contesto, Aguilar suona la carica: «La realtà è che l'apporto dei fedeli non è sufficente, non arriva neppure al 70%. Quest'anno abbiamo sborsato 35 milioni di euro in più». E subito dopo, tuona: «L'Esecutivo e la Chiesa sanno che questa situazione non è sostenibile all'infinito. É razionale che convochiamo una negoziazione che potrebbe aver luogo quando scade l'ultima proroga, alla fine di quest'anno». Calendario alla mano però, come sottilineava 12 giorni fa il filo-socialista El País, significa che l'accordo sulla riforma del sistema di finanziamento ecclesiastico deve essere concluso prima della redazione della Finanziario 2006, nel prossimo autunno. Ma c'è di più. Il ministro alla Giustizia, da cui dipende il decisivo sottosegretariato agli Affari Religiosi, paventa anche tutta una serie di notevolissime riduzioni fiscali per i religiosi «che bisogna negoziare». Quali? Esenzione dell'Iva (concessa dall'89 contro il parere della Ue), imposte sui beni immobili, successioni, donazioni. Spiega López Aguilar: «Dobbiamo essere capaci di mettere sul tavolo queste questioni senza che si dica che ci scontriamo con la Chiesa. Non dobbiamo dimenticarci che è una situazione eccezionale della Chiesa cattolica, di cui non usifruiscono altre confessioni a cui sono costituzionalmente equiparate». Insomma, è la resa dei conti dell’Esecutivo «dei diritti civili» con la Cee. L' incitamento all' obbiezione di coscienza contro i matrimoni gay, promossa sia dal Vaticano che dalla Conferencia Episcopal è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. E la chiesa spagnola per conseguire l' autosufficenza finanziaria avrebbe bisogno di percentuale fiscale pari al 7-8% della dichiarazione dei redditi sulle persone fisiche.
SULLA SCELTA INCIDERÀ LO SCONTRO SULLE NOZZE GAY E LA FECONDAZIONE ASSISTITA
La Spagna taglierà i fondi al clero
A fine anno scade la proroga dei finanziamenti di Stato
Gian Antonio Orighi
MADRID. Il governo del premier socialista (ed agnostico) José Luis Rodríguez Zapatero minaccia di tagliare i fondi pubblici alla Chiesa cattolica con cui è ai ferri più che corti per divorzio-lampo, nozze ed adozioni gay, clonazione terapeutica, fecondazione assistita. La spada di Damocle è stata annunciata ieri, con una intervista al quotidiano barcellonese «La Vanguardia» dal «padre di tutti i relativismi», il Guardiasigilli Juan Fernando López Aguilar, difensore a spada tratta dell'«allargamento dei diritti civili» come gli imeni omosessuali. Per capire appieno la portata alzo zero, bisogna prima ricordare che le dichiarazioni arrivano, non a caso, in un momento molto delicato: a fine anno scade l'ultima proroga della disposizione transitoria dell'attuale sistema di finanziamento ecclesiale, pattuito nell'87 tra la Conferencia Episcopal Española (Cee) e l'ex governo socialista del premier González. Allora le gerarchie religiose si impegnarano, nel giro di 3 anni, ad autofinanziarsi mediante l'apporto volontario dei fedeli via lo 0,5239% della loro dichiarazione dei redditi sulle persone fisiche. Un compromesso, però, mai rispettato negli ultimi 15 anni. Lo Stato, sia con González che con il premier popolare Aznar, ha sempre anticipato mensualmente (quest'anno 11,78 milioni di €, su 141,46 previsti per il 2005), molto più di quanto poi versavano i fedeli. E non ha mai chiesto indietro la differenza tra la somma anticipata e quella incassata. Un gap a fondo perduto pari, solo tra l'88 ed il 2002, a 450,89 milioni di €. In questo contesto, Aguilar suona la carica: «La realtà è che l'apporto dei fedeli non è sufficente, non arriva neppure al 70%. Quest'anno abbiamo sborsato 35 milioni di euro in più». E subito dopo, tuona: «L'Esecutivo e la Chiesa sanno che questa situazione non è sostenibile all'infinito. É razionale che convochiamo una negoziazione che potrebbe aver luogo quando scade l'ultima proroga, alla fine di quest'anno». Calendario alla mano però, come sottilineava 12 giorni fa il filo-socialista El País, significa che l'accordo sulla riforma del sistema di finanziamento ecclesiastico deve essere concluso prima della redazione della Finanziario 2006, nel prossimo autunno. Ma c'è di più. Il ministro alla Giustizia, da cui dipende il decisivo sottosegretariato agli Affari Religiosi, paventa anche tutta una serie di notevolissime riduzioni fiscali per i religiosi «che bisogna negoziare». Quali? Esenzione dell'Iva (concessa dall'89 contro il parere della Ue), imposte sui beni immobili, successioni, donazioni. Spiega López Aguilar: «Dobbiamo essere capaci di mettere sul tavolo queste questioni senza che si dica che ci scontriamo con la Chiesa. Non dobbiamo dimenticarci che è una situazione eccezionale della Chiesa cattolica, di cui non usifruiscono altre confessioni a cui sono costituzionalmente equiparate». Insomma, è la resa dei conti dell’Esecutivo «dei diritti civili» con la Cee. L' incitamento all' obbiezione di coscienza contro i matrimoni gay, promossa sia dal Vaticano che dalla Conferencia Episcopal è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. E la chiesa spagnola per conseguire l' autosufficenza finanziaria avrebbe bisogno di percentuale fiscale pari al 7-8% della dichiarazione dei redditi sulle persone fisiche.
sinistra
Bertinotti commenta il voto francese
AGI Roma, 29 maggio 2005 - 23:18
COSTITUZIONE UE: BERTINOTTI, SCONFITTI I NEOLIBERISTI
"Un fatto politico straordinario si è prodotto in Europa. Un europeismo di sinistra e di massa ha preso corpo e ha vinto. L'Europa neoliberista del Trattato Costituzionale e di Maastricht è stata sconfitta dalla democrazia del popolo francese". Lo ha detto il segretario di Rifondazione Comunista, Fausto Bertinotti, secondo il quale "una partecipazione al voto straordinaria, più alta di ogni competizione per il governo del Paese e più alta del precedente referendum su Maastricht, ha dimostrato quanto possa essere viva una passione per l'Europa quando può vivere nella democrazia, come in questo referendum, e quando prende corpo una proposta di un'altra Europa come è accaduto nella campagna per il No in Francia". "Per noi, come Partito della Sinistra Europea, e come Partito della Rifondazione Comunista, unico partito in Italia tra le forze democratiche e progressiste ad avere sostenuto il No - ha aggiunto - è una grande gioia quella che condividiamo con le forze della sinistra francese che hanno animato una nuova esperienza unitaria nella campagna contro il Trattato Costituzionale di un'Europa neoliberista", "l'irruzione della questione sociale in questo referendum si è rivelata decisiva". (AGI)
COSTITUZIONE UE: BERTINOTTI, SCONFITTI I NEOLIBERISTI
"Un fatto politico straordinario si è prodotto in Europa. Un europeismo di sinistra e di massa ha preso corpo e ha vinto. L'Europa neoliberista del Trattato Costituzionale e di Maastricht è stata sconfitta dalla democrazia del popolo francese". Lo ha detto il segretario di Rifondazione Comunista, Fausto Bertinotti, secondo il quale "una partecipazione al voto straordinaria, più alta di ogni competizione per il governo del Paese e più alta del precedente referendum su Maastricht, ha dimostrato quanto possa essere viva una passione per l'Europa quando può vivere nella democrazia, come in questo referendum, e quando prende corpo una proposta di un'altra Europa come è accaduto nella campagna per il No in Francia". "Per noi, come Partito della Sinistra Europea, e come Partito della Rifondazione Comunista, unico partito in Italia tra le forze democratiche e progressiste ad avere sostenuto il No - ha aggiunto - è una grande gioia quella che condividiamo con le forze della sinistra francese che hanno animato una nuova esperienza unitaria nella campagna contro il Trattato Costituzionale di un'Europa neoliberista", "l'irruzione della questione sociale in questo referendum si è rivelata decisiva". (AGI)
poeti
il manifesto 28.5.05
Poeti al servizio del dio della parola
Da Omero a Rimbaud, il racconto della vita di sette autori fra i più grandi di ogni tempo, in Amore lontano di Sebastiano Vassalli, da poco uscito per Einaudi
Attilio Lolini
Un romanzo sui poeti, ossia sulla parola poetica, in un tempo in cui i libri vengono venduti confezionati e surgelati, è un'impresa non da poco. A distanza di molti anni dal suo romanzo-verità su Dino Campana, La notte della cometa (dove la vita del grande marradese veniva liberata dai luoghi comuni cari ai critici ufficiali e ai professori universitari più o meno in buona fede), Sebastiano Vassalli torna, con Amore lontano (Einaudi, pp. 192, euro 16,50), a narrarci di poeti, tra i più grandi d'ogni tempo - Omero, Qohélet, Virgilio, Jaufré Rudel, François Villon, Giacomo Leopardi, Arthur Rimbaud - sollevando e spazzando la polvere che sopra di loro i secoli avevano accumulato, insieme alla retorica dei manuali e dei libri di testo che li rendevano (e li rendono tuttora) ostici e illeggibili a legioni di studenti. Liberati così dai paludamenti, dalle gualdrappe scolastiche, questi celebri e, in sostanza, sconosciuti personaggi tornano a vivere come uomini normali con le loro nevrosi e la loro ingenuità e con i vizi e le virtù di ogni umano ma con una vistosa eccezione, quella di aver pronunciato e scritto parole che hanno senso e valore per tutti, per ogni epoca, per ogni tempo. Ogni volta che il miracolo della poesia torna a manifestarsi, nota Vassalli, pare che sia per l'ultima volta anche se non è così. Certo il miracolo non è frequente ma si verificherà finché esisteranno le parole che uniscono a un qualcosa fuori dal loro mondo. Fin dai dai tempi di Omero, fino al «divino monello» Rimbaud, la poesia «trattiene» la vita, anzi è la vita. Proprio con il più antico poeta a cui sia stato dato un nome, Omero, si apre il romanzo di Vassalli: l'autore dell'Iliade e dell'Odissea, un cantore cieco in un tempo in cui la cecità era una condizione ideale per essere poeti, un cieco ossia un nessuno, un involucro vuoto di storie, un uomo che può essere Achille e Ettore, Polifemo e Penelope e tutti gli altri meravigliosi personaggi dei poemi e poi quell'Ulisse, che è la prima figura della letteratura occidentale, che rende narrabile un mondo che prima di lui non si poteva raccontare essendo dominato dalle forze della natura. Vassalli immagina e descrive la morte di Omero nella strada assolata piena di sassi e di polvere che era stata il palcoscenico della sua vita. È accompagnato da un ragazzo, Lica, che poi l'abbandona lasciandolo vagare in una terra ostile e pericolosa; cade, si rialza, cade ancora, poi vengono ad «assisterlo» i suoi personaggi, ma la sua fine è quella di uno dei tanti vecchi abbandonati del suo tempo e di tutti i tempi. Poi Qohélet, ossia il mitico autore dell'Ecclesiaste che, approssimativamente, si potrebbe anche chiamare l'uomo che parlava nelle assemblee, un poeta del tutto laico che ha anche il buon gusto di non negare l'esistenza di Dio (oggi diremmo un materialista o un illuminista). Da qui l'aspetto straordinario dei suoi versi che lo fanno vivere, dice Vassalli, anche fuori dalla Bibbia e da ogni tempo. Il «poeta» Qohélet è assai caro allo scrittore le cui tracce si trovano vistose nei suoi romanzi, così come Virgilio, l'autore dell'Eneide che Vassalli ha fatto «rivivere» nel suo racconto Un infinito numero.
Virgilio come poeta ufficiale dell'Impero romano prediletto da Augusto e autore delle Georgiche, un poema sull'ambiente naturale e sulla vita dei campi, che l'imperatore farà leggere pubblicamente ad Atella, nei dintorni di Napoli, davanti alla Corte, dallo stesso poeta e dal suo amico Mecenate, consacrando la fama del poco più che quarantenne Virgilio come poeta di Stato. Ma se si hanno ampie e dettagliate notizie sulla sua vita pubblica, poco si conosce, di quella privata. L'idea e il progetto dell'Eneide nascono ad Atella, durante la lettura delle Georgiche e da un progetto politico di Augusto che si proponeva di unire il mondo allora conosciuto. Ma ben presto il poeta si rende conto che l'imperatore è un tiranno e poi Virgilio è un cantore della natura, umbratile, malinconico, che non sarebbe riuscito a dare vita e risalto all'uomo nuovo romano destinato a governare il mondo e soprattutto a cambiarlo. Così il suo sogno svanisce mentre lui scrive l'Eneide, constatando che gli uomini non cambiano e anche di fronte a un'altra evidenza; dai buoni sentimenti e dalle buone intenzioni nasce soltanto una mediocre poesia. Il romanzo sulla parola di Vassalli approda poi a un poeta trovatore, Jaufré Rudel, che è l'inventore della poesia della distanza vista come «amore lontano», un sentimento completamente riflesso nelle parole. Della sua vita si sa pochissimo; sull'iniziatore della poesia moderna si possono narrare favole come già fecero tra gli altri, Haine, Rostand e il nostro Carducci. La pagine di Rudel sono tra le più belle di questo libro fino all'improbabile morte del grande poeta trovatore. Anche su François Villon sappiamo poco. Scampato alla forca, lui non crede di essere un poeta: poeti sono i grand'uomini come il professore Philippe de Vitry che lui si è divertito a mettere in burla per i suoi amici studenti della Sorbona, traducendo, scrive Vassalli, nel linguaggio delle cose reali, il suo celebre elogio del «vivere in libertà». Villon ha scritto versi per ridere e le sue poesie dicono della vita scapestrata e delle malefatte che lo portarono perfino a uccidere un prete in una rissa.
I sette poeti di Vassalli vanno a formare una narrazione dalla quale viene fuori un solo personaggio: la parola. Così è per gli ultimi mesi, a Napoli, di Giacomo Leopardi, con l'amicizia di Antonio Ranieri che poi la critica calunniò come poté: Ranieri che lo sottrasse al «borgo» di Recanati dove nacque e che odiò sopra ogni altra cosa, che lo protesse e curò fino alla morte, in un'amicizia vera e disinteressata che non fu capita né dai suoi familiari né dalla critica del tempo capitanata da Niccolò Tommaseo.
L'ultimo «personaggio» del romanzo è Arthur Rimbaud, la cui «stagione all'inferno» durò poco più di due anni che furono quelli del suo sodalizio con Verlaine. L'unico dio del quale gli uomini possono avere certezza, dice Vassalli, è il dio della parola che ogni tanto sceglie i poeti come suoi interlocutori. Nel caso del «divino monello» il rapporto fu breve e traumatico; a Rimbaud la poesia verrà «donata» come un lampo, come una «follia» che coinciderà con la sanguinosa stagione dell'adolescenza. Poi il più grande nostri dei poeti «contemporanei» sparirà non scrivendo più un verso. La sua metamorfosi sarà totale e perfino incomprensibile, da «veggente» si trasformerà in «ottuso». Non saprà mai d'aver scritto poesie sublimi che definirà «disgustose», d'essere stato «scelto» dal dio della parola come, probabilmente, l'ultimo dei suoi interlocutori.
Poeti al servizio del dio della parola
Da Omero a Rimbaud, il racconto della vita di sette autori fra i più grandi di ogni tempo, in Amore lontano di Sebastiano Vassalli, da poco uscito per Einaudi
Attilio Lolini
Un romanzo sui poeti, ossia sulla parola poetica, in un tempo in cui i libri vengono venduti confezionati e surgelati, è un'impresa non da poco. A distanza di molti anni dal suo romanzo-verità su Dino Campana, La notte della cometa (dove la vita del grande marradese veniva liberata dai luoghi comuni cari ai critici ufficiali e ai professori universitari più o meno in buona fede), Sebastiano Vassalli torna, con Amore lontano (Einaudi, pp. 192, euro 16,50), a narrarci di poeti, tra i più grandi d'ogni tempo - Omero, Qohélet, Virgilio, Jaufré Rudel, François Villon, Giacomo Leopardi, Arthur Rimbaud - sollevando e spazzando la polvere che sopra di loro i secoli avevano accumulato, insieme alla retorica dei manuali e dei libri di testo che li rendevano (e li rendono tuttora) ostici e illeggibili a legioni di studenti. Liberati così dai paludamenti, dalle gualdrappe scolastiche, questi celebri e, in sostanza, sconosciuti personaggi tornano a vivere come uomini normali con le loro nevrosi e la loro ingenuità e con i vizi e le virtù di ogni umano ma con una vistosa eccezione, quella di aver pronunciato e scritto parole che hanno senso e valore per tutti, per ogni epoca, per ogni tempo. Ogni volta che il miracolo della poesia torna a manifestarsi, nota Vassalli, pare che sia per l'ultima volta anche se non è così. Certo il miracolo non è frequente ma si verificherà finché esisteranno le parole che uniscono a un qualcosa fuori dal loro mondo. Fin dai dai tempi di Omero, fino al «divino monello» Rimbaud, la poesia «trattiene» la vita, anzi è la vita. Proprio con il più antico poeta a cui sia stato dato un nome, Omero, si apre il romanzo di Vassalli: l'autore dell'Iliade e dell'Odissea, un cantore cieco in un tempo in cui la cecità era una condizione ideale per essere poeti, un cieco ossia un nessuno, un involucro vuoto di storie, un uomo che può essere Achille e Ettore, Polifemo e Penelope e tutti gli altri meravigliosi personaggi dei poemi e poi quell'Ulisse, che è la prima figura della letteratura occidentale, che rende narrabile un mondo che prima di lui non si poteva raccontare essendo dominato dalle forze della natura. Vassalli immagina e descrive la morte di Omero nella strada assolata piena di sassi e di polvere che era stata il palcoscenico della sua vita. È accompagnato da un ragazzo, Lica, che poi l'abbandona lasciandolo vagare in una terra ostile e pericolosa; cade, si rialza, cade ancora, poi vengono ad «assisterlo» i suoi personaggi, ma la sua fine è quella di uno dei tanti vecchi abbandonati del suo tempo e di tutti i tempi. Poi Qohélet, ossia il mitico autore dell'Ecclesiaste che, approssimativamente, si potrebbe anche chiamare l'uomo che parlava nelle assemblee, un poeta del tutto laico che ha anche il buon gusto di non negare l'esistenza di Dio (oggi diremmo un materialista o un illuminista). Da qui l'aspetto straordinario dei suoi versi che lo fanno vivere, dice Vassalli, anche fuori dalla Bibbia e da ogni tempo. Il «poeta» Qohélet è assai caro allo scrittore le cui tracce si trovano vistose nei suoi romanzi, così come Virgilio, l'autore dell'Eneide che Vassalli ha fatto «rivivere» nel suo racconto Un infinito numero.
Virgilio come poeta ufficiale dell'Impero romano prediletto da Augusto e autore delle Georgiche, un poema sull'ambiente naturale e sulla vita dei campi, che l'imperatore farà leggere pubblicamente ad Atella, nei dintorni di Napoli, davanti alla Corte, dallo stesso poeta e dal suo amico Mecenate, consacrando la fama del poco più che quarantenne Virgilio come poeta di Stato. Ma se si hanno ampie e dettagliate notizie sulla sua vita pubblica, poco si conosce, di quella privata. L'idea e il progetto dell'Eneide nascono ad Atella, durante la lettura delle Georgiche e da un progetto politico di Augusto che si proponeva di unire il mondo allora conosciuto. Ma ben presto il poeta si rende conto che l'imperatore è un tiranno e poi Virgilio è un cantore della natura, umbratile, malinconico, che non sarebbe riuscito a dare vita e risalto all'uomo nuovo romano destinato a governare il mondo e soprattutto a cambiarlo. Così il suo sogno svanisce mentre lui scrive l'Eneide, constatando che gli uomini non cambiano e anche di fronte a un'altra evidenza; dai buoni sentimenti e dalle buone intenzioni nasce soltanto una mediocre poesia. Il romanzo sulla parola di Vassalli approda poi a un poeta trovatore, Jaufré Rudel, che è l'inventore della poesia della distanza vista come «amore lontano», un sentimento completamente riflesso nelle parole. Della sua vita si sa pochissimo; sull'iniziatore della poesia moderna si possono narrare favole come già fecero tra gli altri, Haine, Rostand e il nostro Carducci. La pagine di Rudel sono tra le più belle di questo libro fino all'improbabile morte del grande poeta trovatore. Anche su François Villon sappiamo poco. Scampato alla forca, lui non crede di essere un poeta: poeti sono i grand'uomini come il professore Philippe de Vitry che lui si è divertito a mettere in burla per i suoi amici studenti della Sorbona, traducendo, scrive Vassalli, nel linguaggio delle cose reali, il suo celebre elogio del «vivere in libertà». Villon ha scritto versi per ridere e le sue poesie dicono della vita scapestrata e delle malefatte che lo portarono perfino a uccidere un prete in una rissa.
I sette poeti di Vassalli vanno a formare una narrazione dalla quale viene fuori un solo personaggio: la parola. Così è per gli ultimi mesi, a Napoli, di Giacomo Leopardi, con l'amicizia di Antonio Ranieri che poi la critica calunniò come poté: Ranieri che lo sottrasse al «borgo» di Recanati dove nacque e che odiò sopra ogni altra cosa, che lo protesse e curò fino alla morte, in un'amicizia vera e disinteressata che non fu capita né dai suoi familiari né dalla critica del tempo capitanata da Niccolò Tommaseo.
L'ultimo «personaggio» del romanzo è Arthur Rimbaud, la cui «stagione all'inferno» durò poco più di due anni che furono quelli del suo sodalizio con Verlaine. L'unico dio del quale gli uomini possono avere certezza, dice Vassalli, è il dio della parola che ogni tanto sceglie i poeti come suoi interlocutori. Nel caso del «divino monello» il rapporto fu breve e traumatico; a Rimbaud la poesia verrà «donata» come un lampo, come una «follia» che coinciderà con la sanguinosa stagione dell'adolescenza. Poi il più grande nostri dei poeti «contemporanei» sparirà non scrivendo più un verso. La sua metamorfosi sarà totale e perfino incomprensibile, da «veggente» si trasformerà in «ottuso». Non saprà mai d'aver scritto poesie sublimi che definirà «disgustose», d'essere stato «scelto» dal dio della parola come, probabilmente, l'ultimo dei suoi interlocutori.
Ernesto Caffo
La Provincia 30.5.05
Lo psicologo Ernesto Caffo, fondatore di «Telefono azzurro», analizza la dinamica di protezione che inevitabilmente scatta dopo ogni dramma «La famiglia non abbandonerà l'omicida, nessuno l'accusi per questo»
Ernesto Caffo
La famiglia di Maria Patrizio l'ha difesa avvalorando fino alla fine la tesi della rapina finita in tragedia per il piccolo Mirko. Ora sono proprio loro, i familiari della giovane mamma, ad aver bisogno di molto aiuto per accettare un dolore tanto grande. Lo psicologo Ernesto Caffo, fondatore di Telefono Azzurro, raggiunto al telefono analizza la dinamica di protezione che si sviluppata attorno alla mamma omicida. «In questo, come in tanti altri casi, quando il dolore di un lutto derivante da una situazione traumatica emerge si cerca di rimuoverlo - dice lo psicologo Caffo - È come se non lo si volesse vedere perché si ritiene che non sia possibile, si cerca di non portare alla ragione una serie di elementi che erano magari presenti già prima, ma che nessuno aveva avuto il coraggio o l'abilità di leggerli. Il lutto mette infatti in discussione anche il proprio comportamento nei confronti delle persone che stanno attorno. Ci si chiede: come mai non mi sono accorto che aveva problemi tanto seri?». La valenza del legame affettivo vince su qualsiasi altra considerazione: «nel dolore si ritiene - aggiunge Caffo - che gli elementi positivi del legame siano più importanti di tutto. Il legame in famiglia spesso è fatto di tanti affetti e ciò che vince è la paura di perdere la persona. Questo succede anche con i bambini maltrattati e gli adulti che subiscono violenza. C'è un legame che non si vuole in nessun modo perdere e spinge a negare l'evidenza». Ed è a questo punto che secondo Caffo la famiglia di Maria Patrizio ha bisogno di grande aiuto, non di sentirsi puntare l'indice per aver difeso la donna. «Alla famiglia di questa mamma bisogna dare anche tempo di elaborare la situazione, bisogna aiutarla a capire, sapendo che questo porta una profonda sofferenza e che, se non guidata, questa elaborazione rischia di essere fortemente distruttiva. Il percepire un dramma come sta avvenendo ora può fare saltare le protezioni, portare alla separazione o alla malattia mentale. Si mettono in gioco gli investimenti fatti sulla persona amata, il futuro». E non sarebbe solo dei parenti stretti la rimozione dell'evento traumatico, «anche i vicini di casa in parte vivono la stessa condizione, il negare, il non credere è anche un modo per tirarci fuori, per proteggere le nostre competenze sul fatto, inconsciamente per non voler riconoscere di non essersi accorti del disagio della persona che ha ucciso». E si arriva al disagio di Maria Patrizio: «Sappiamo che il disagio non porta a situazioni drammatiche improvvise, ci sono sempre segnali da raccogliere con molta attenzione, anche quando sono spie di momenti di crisi passeggera. Ciò che sarebbe importante fare sarebbe costruire una cultura della responsabilità della cura dell'altro, in una società come la nostra che è sempre più frammentata e ristretta. Dobbiamo fare in modo che cresca una maggiore solidarietà attorno alle persone e che si possa intervenire con aiuti adeguati e tempestivi». Per una madre che vive un momentaneo disagio può, secondo Caffo, essere molto importante avere persone a fianco che la aiutano, anche nei compiti più semplici. «Il poter trovare un aiuto in un momenti di difficoltà può servire come il parlare, è dove si parla molto poco che nascono i problemi, il silenzio di chi sta attorno alla persona in difficoltà è come scaricarsi di responsabilità». Ma i casi di depressione post partum sono tanti? «Ci sono dati dell'Organizzazione mondiale della sanità a dirlo, sono migliaia, vengono rilevati in ogni reparto di ostetricia, rilevati e magari non seguiti». Quindi in Italia non ci sarebbe bisogno di strutture di aiuto alle neomamme in crisi. «In gran parte degli ospedali italiani l'assistenza psichiatrica e psicologica adeguata c'è già, basta la sensibilità dell'ostetrica che quando si accorge di una mamma fragile, e ci si accorge, può chiedere un aiuto al collega psicologo. La mamma in difficoltà va supportata per il dopo, per quando torna a casa, e spesso solo per pochi giorni». Le depressioni per fortuna nella maggior parte dei casi non sfociano in omicidi «ma in atti di violenza sì, ci sono mamme che scottano i bambini mettendoli a fare il bagno nell'acqua troppo calda, o che li vestono poco quando fa freddo, sono tutti comportamenti legati all'inadeguatezza dell'essere genitore». Questa inadeguatezza deriva da molteplici fattori, se è vero che, come sostiene l'Istituto superiore di sanità, fare la mamma non è istintivo come si pensa ma: «è un'attività complessa che richiede l'apprendimento di molte tecniche e astuzie varie. Non deve essere un dramma se inizialmente si incontra qualche insuccesso». «La fragilità di una neomamma - conclude Caffo - non dipende dall'età, può essere acuita dal fatto che la persona è sola o vive la maternità in modo difficile, o che non riesce ad avere un buon rapporto con il partner. Il bambino a quel punto diventa un capro espiatorio, anche perché quando è piccolissimo è un oggetto d'amore che spesso non gratifica. Il passaggio dall'adulto al genitore non è naturale».
Lo psicologo Ernesto Caffo, fondatore di «Telefono azzurro», analizza la dinamica di protezione che inevitabilmente scatta dopo ogni dramma «La famiglia non abbandonerà l'omicida, nessuno l'accusi per questo»
Ernesto Caffo
La famiglia di Maria Patrizio l'ha difesa avvalorando fino alla fine la tesi della rapina finita in tragedia per il piccolo Mirko. Ora sono proprio loro, i familiari della giovane mamma, ad aver bisogno di molto aiuto per accettare un dolore tanto grande. Lo psicologo Ernesto Caffo, fondatore di Telefono Azzurro, raggiunto al telefono analizza la dinamica di protezione che si sviluppata attorno alla mamma omicida. «In questo, come in tanti altri casi, quando il dolore di un lutto derivante da una situazione traumatica emerge si cerca di rimuoverlo - dice lo psicologo Caffo - È come se non lo si volesse vedere perché si ritiene che non sia possibile, si cerca di non portare alla ragione una serie di elementi che erano magari presenti già prima, ma che nessuno aveva avuto il coraggio o l'abilità di leggerli. Il lutto mette infatti in discussione anche il proprio comportamento nei confronti delle persone che stanno attorno. Ci si chiede: come mai non mi sono accorto che aveva problemi tanto seri?». La valenza del legame affettivo vince su qualsiasi altra considerazione: «nel dolore si ritiene - aggiunge Caffo - che gli elementi positivi del legame siano più importanti di tutto. Il legame in famiglia spesso è fatto di tanti affetti e ciò che vince è la paura di perdere la persona. Questo succede anche con i bambini maltrattati e gli adulti che subiscono violenza. C'è un legame che non si vuole in nessun modo perdere e spinge a negare l'evidenza». Ed è a questo punto che secondo Caffo la famiglia di Maria Patrizio ha bisogno di grande aiuto, non di sentirsi puntare l'indice per aver difeso la donna. «Alla famiglia di questa mamma bisogna dare anche tempo di elaborare la situazione, bisogna aiutarla a capire, sapendo che questo porta una profonda sofferenza e che, se non guidata, questa elaborazione rischia di essere fortemente distruttiva. Il percepire un dramma come sta avvenendo ora può fare saltare le protezioni, portare alla separazione o alla malattia mentale. Si mettono in gioco gli investimenti fatti sulla persona amata, il futuro». E non sarebbe solo dei parenti stretti la rimozione dell'evento traumatico, «anche i vicini di casa in parte vivono la stessa condizione, il negare, il non credere è anche un modo per tirarci fuori, per proteggere le nostre competenze sul fatto, inconsciamente per non voler riconoscere di non essersi accorti del disagio della persona che ha ucciso». E si arriva al disagio di Maria Patrizio: «Sappiamo che il disagio non porta a situazioni drammatiche improvvise, ci sono sempre segnali da raccogliere con molta attenzione, anche quando sono spie di momenti di crisi passeggera. Ciò che sarebbe importante fare sarebbe costruire una cultura della responsabilità della cura dell'altro, in una società come la nostra che è sempre più frammentata e ristretta. Dobbiamo fare in modo che cresca una maggiore solidarietà attorno alle persone e che si possa intervenire con aiuti adeguati e tempestivi». Per una madre che vive un momentaneo disagio può, secondo Caffo, essere molto importante avere persone a fianco che la aiutano, anche nei compiti più semplici. «Il poter trovare un aiuto in un momenti di difficoltà può servire come il parlare, è dove si parla molto poco che nascono i problemi, il silenzio di chi sta attorno alla persona in difficoltà è come scaricarsi di responsabilità». Ma i casi di depressione post partum sono tanti? «Ci sono dati dell'Organizzazione mondiale della sanità a dirlo, sono migliaia, vengono rilevati in ogni reparto di ostetricia, rilevati e magari non seguiti». Quindi in Italia non ci sarebbe bisogno di strutture di aiuto alle neomamme in crisi. «In gran parte degli ospedali italiani l'assistenza psichiatrica e psicologica adeguata c'è già, basta la sensibilità dell'ostetrica che quando si accorge di una mamma fragile, e ci si accorge, può chiedere un aiuto al collega psicologo. La mamma in difficoltà va supportata per il dopo, per quando torna a casa, e spesso solo per pochi giorni». Le depressioni per fortuna nella maggior parte dei casi non sfociano in omicidi «ma in atti di violenza sì, ci sono mamme che scottano i bambini mettendoli a fare il bagno nell'acqua troppo calda, o che li vestono poco quando fa freddo, sono tutti comportamenti legati all'inadeguatezza dell'essere genitore». Questa inadeguatezza deriva da molteplici fattori, se è vero che, come sostiene l'Istituto superiore di sanità, fare la mamma non è istintivo come si pensa ma: «è un'attività complessa che richiede l'apprendimento di molte tecniche e astuzie varie. Non deve essere un dramma se inizialmente si incontra qualche insuccesso». «La fragilità di una neomamma - conclude Caffo - non dipende dall'età, può essere acuita dal fatto che la persona è sola o vive la maternità in modo difficile, o che non riesce ad avere un buon rapporto con il partner. Il bambino a quel punto diventa un capro espiatorio, anche perché quando è piccolissimo è un oggetto d'amore che spesso non gratifica. Il passaggio dall'adulto al genitore non è naturale».
domenica 29 maggio 2005
Stefano Rodotà
una segnalazione di Dia Battioni
Repubblica 28.5.05 prima pagina
LE IDEE
La Costituzione e i fondamentalisti
STEFANO RODOTA
ERA prevedibile, ed era stato detto, che la legge sulla procreazione assistita sarebbe stata utilizzata come apripista per mettere in discussione, peraltro in modo improprio, le norme sull´aborto. Qualche difensore della legge 40 aveva sostenuto che questo non era vero, probabilmente preoccupato d´una possibile reazione, in particolare delle donne, ricordando che la legge sull´aborto era stata confermata con un massiccio 88,4% dei votanti in occasione del referendum del 1981.
Ma ora dall´interno della maggioranza vengono esplicite dichiarazioni in quel senso. È bene, quindi, rendersi conto del fatto che il voto del 12 giugno serve anche a respingere questa tentazione.
In realtà, l´intera vicenda della legge sulla procreazione assistita è nata, si è sviluppata e si svolge all´insegna di una regressione istituzionale, e ormai ha assunto i caratteri di una inequivocabile, anche se indiretta, messa in discussione della stessa Costituzione. È un segnale inquietante, che scavalca la legge in discussione, e che quindi esige da tutti una valutazione approfondita che vada oltre l´occasione referendaria.
Potrebbe sembrare il contrario se si considerano i richiami che molti sostenitori del no e dell´astensione fanno alla Costituzione, sottolineando che assicura tutela al concepito, e alla Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea, sottolineando che il suo articolo 2 riconosce il diritto alla vita. Ma è proprio il modo in cui sono fatti questi richiami a mostrare subito come il quadro costituzionale venga profondamente e pericolosamente distorto.
Il riferimento alla tutela del concepito è tratto dalla sentenza con la quale, nel 1975, la Corte costituzionale dichiarò parzialmente illegittimo l´articolo del codice penale che puniva chi interrompeva la gravidanza di una donna consenziente, avviando così quella depenalizzazione dell´aborto che avrebbe poi trovato pieno riconoscimento nella legge n. 194 del 1978. Ma che cosa dice davvero quella sentenza, pronunciata da una Corte presieduta non da un pericoloso relativista laico, ma da un rigoroso esponente dei giuristi cattolici, Francesco Paolo Bonifacio? Parla sì di un fondamento costituzionale per la tutela del concepito, ma immediatamente dopo aggiunge: "questa premessa va accompagnata dall´ulteriore considerazione che l´interesse costituzionalmente protetto relativo al concepito può venir in collisione con altri beni che godano pur essi di tutela costituzionale e che, di conseguenza, la legge non può dare al primo una prevalenza totale ed assoluta, negando ai secondi adeguata protezione". E, con assoluta nettezza, conclude così: "non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell´embrione che persona deve ancora diventare".
Letta nella sua interezza, quella decisione va dunque nella direzione opposta rispetto a quella verso la quale i sostenitori della legge vorrebbero forzarla. È inammissibile quella sorta di dittatura dell´embrione, che ispira l´intera legge, perché all´interesse del concepito non può darsi una tutela assoluta che travolga ogni altro interesse in gioco e perché l´embrione non può essere considerato persona. Attenzione: il discorso della Corte è tanto più forte in quanto, pur usando termini come concepito e embrione, in realtà si riferisce al feto, dunque ad un embrione in uno stadio molto più avanzato e già impiantato nel corpo materno. A maggior ragione, quindi, esso vale per embrioni nei loro stadi iniziali e ancora non impiantati.
Altrettanto netta è la distorsione operata con il riferimento all´articolo 2 della Carta dei diritti, corrispondente allo stesso articolo della Convenzione europea dei diritti dell´uomo. Ora, proprio la Corte europea dei diritti dell´uomo, con una sentenza del luglio dell´anno scorso, ha constatato che "non v´è consenso a livello europeo sulla definizione scientifica e giuridica su che cosa sia l´inizio della vita"; di conseguenza, sull´inizio della vita si decide a livello nazionale; e, in conclusione, si possono riconoscere tutele all´embrione "senza considerarlo persona con diritto alla vita secondo l´articolo 2". Di nuovo, una corretta lettura dell´articolo 2 della Carta fornisce piuttosto argomenti a chi osserva come non vi sia alcun principio che imponga di identificare l´inizio della vita con il concepimento e di considerare l´embrione come una persona.
Caduto questo maldestro tentativo di dare fondamento costituzionale al modo in cui la legge sulla procreazione assistita definisce lo statuto dell´embrione, risaltano con evidenza ancora maggiore le forzature che essa contiene, vere e proprie cancellazioni di principi e valori che stanno alla base della prima parte della Costituzione, dove si disciplinano libertà e diritti fondamentali. È ignorato il principio di dignità nel momento in cui la donna non è considerata nel suo particolarissimo rapporto con chi solo attraverso di lei può nascere, ma viene ridotta a puro contenitore. Viene negata l´eguaglianza dei cittadini davanti alla legge attraverso una serie di irragionevoli divieti all´accesso delle donne alle tecniche procreative. Si comprime così il diritto alla salute, il cui carattere "fondamentale" è affermato dalla Costituzione e ripetutamente ribadito dalla Corte costituzionale. Si sottopone a controllo il corpo della donna e si cancella la soggettività femminile.
Siamo di fronte ad un disegno perseguito con determinazione, ignorando le molte osservazioni che, in tempi non sospetti, avevano messo in guardia contro questa deriva, questo abbandono di una solida fondazione costituzionale di una legge che incide pesantemente sulla vita delle persone. È necessario, allora, interrogarsi sulla cultura che sostiene questa impresa, sugli obiettivi perseguiti, sulla durezza con cui si difende anche l´indifendibile.
Siamo di fronte ad una operazione analoga a quella realizzata con la riforma che ha alterato principi ed equilibri della seconda parte della Costituzione. Emerge ora la volontà di distaccarsi anche dai valori contenuti nella prima parte, sostituendoli con riferimenti che cancellano principi condivisi (dignità, eguaglianza, salute) e che propongono in modo autoritario un´idea di natura astratta da cultura, storia, scienza. Questo tentativo è ancor più pericoloso di quello perseguito con la riforma costituzionale, perché questa volta si toccano le libertà e i diritti fondamentali.
La ragione dell´asprezza dello scontro di queste settimane sta proprio qui. L´attuale legge sulla procreazione assistita è ormai percepita come il primo atto di una contesa che ha come posta l´occupazione dello spazio costituzionale da parte di diversi fondamentalismi. Si può ben dire che su questo terreno i nostrani teocon stanno facendo con impegno le loro prove. Avanza un´altra idea di Stato e di società ed emerge, con caratteri inediti, la Chiesa cattolica come vero soggetto politico.
Si è aperto un conflitto destinato a proiettarsi nel futuro. E questo accade perché è stato abolito il filtro costruito pazientemente intorno allo Stato costituzionale dei diritti, anche come strumento di coesione sociale e di reciproco riconoscimento tra persone e gruppi.
Ma questo non sta forse avvenendo perché il mondo cattolico, a differenza di quello laico, è oggi l´unico capace di esprimere valori forti? Le cose stanno davvero così? Si abbia la pazienza di guardare ai valori intorno ai quali è stata costruita la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea: dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia. È questo il regno del relativismo, della debolezza, o sono deboli la cultura e la convinzione con cui troppi laici hanno guardato a quel nuovo quadro costituzionale e, prigionieri d´un vecchio pregiudizio che vede il mondo cattolico più attrezzato per le questioni etiche, hanno finito con il cadere nella trappola di chi continua a sostenere che la fondazione dell´Europa è debole perché non ha voluto parlare delle sue radici cristiane?
Oggi ci troviamo su un crinale molto sottile, in bilico tra Stato democratico e Stato etico, tra libertà e autoritarismo. Per uscire da questa difficile situazione non ci si può più affidare alla sola libertà di coscienza dei parlamentari. Per molti motivi. Anzitutto perché, trincerandosi dietro questo argomento, non ci si accorge che, quando si interviene sulla vita, si rischia di negare la libertà di coscienza degli altri, di tutti i cittadini. E poi perché si rimane chiusi in un´idea di legislazione, di produzione delle norme, ignara della necessità di una paziente costruzione di consenso sociale quando si tratta di passare dall´etica al diritto. Altrimenti la legge, che dovrebbe chiudere il conflitto, lo incentiva, esponendosi al rifiuto dei cittadini, all´aggiramento da parte di chi ha risorse culturali ed economiche per farlo. Così le leggi falliscono e il loro autore, il Parlamento, viene delegittimato, o addirittura cade nel discredito.
Forse bisognerebbe riflettere sulle sagge sentenze ricordate all´inizio, che non negano tutela giuridica all´embrione, ma indicano come la via corretta per farlo non sia quella dell´orgoglio ideologico, ma della sobrietà democratica. Che non impone impossibili equiparazioni, ma si impegna nel distinguere e nell´offrire discipline differenziate, permettendo pure quel confronto continuo che, solo, può consentire la nascita di posizioni comuni, come stava accadendo prima dell´improvvido intervento legislativo.
È troppo tardi per tornare su questa strada, per fermare la decostituzionalizzazione ideologica dell´intera Costituzione? La discussione sui referendum dovrebbe aver aperto gli occhi di molti. Dopo il voto, e quale che ne sia l´esito, verrà il momento per rivendicare con forza, contro risse e forzature, le ragioni di una politica colta e appassionata. A condizione di saperlo fare.
Repubblica 28.5.05 prima pagina
LE IDEE
La Costituzione e i fondamentalisti
STEFANO RODOTA
ERA prevedibile, ed era stato detto, che la legge sulla procreazione assistita sarebbe stata utilizzata come apripista per mettere in discussione, peraltro in modo improprio, le norme sull´aborto. Qualche difensore della legge 40 aveva sostenuto che questo non era vero, probabilmente preoccupato d´una possibile reazione, in particolare delle donne, ricordando che la legge sull´aborto era stata confermata con un massiccio 88,4% dei votanti in occasione del referendum del 1981.
Ma ora dall´interno della maggioranza vengono esplicite dichiarazioni in quel senso. È bene, quindi, rendersi conto del fatto che il voto del 12 giugno serve anche a respingere questa tentazione.
In realtà, l´intera vicenda della legge sulla procreazione assistita è nata, si è sviluppata e si svolge all´insegna di una regressione istituzionale, e ormai ha assunto i caratteri di una inequivocabile, anche se indiretta, messa in discussione della stessa Costituzione. È un segnale inquietante, che scavalca la legge in discussione, e che quindi esige da tutti una valutazione approfondita che vada oltre l´occasione referendaria.
Potrebbe sembrare il contrario se si considerano i richiami che molti sostenitori del no e dell´astensione fanno alla Costituzione, sottolineando che assicura tutela al concepito, e alla Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea, sottolineando che il suo articolo 2 riconosce il diritto alla vita. Ma è proprio il modo in cui sono fatti questi richiami a mostrare subito come il quadro costituzionale venga profondamente e pericolosamente distorto.
Il riferimento alla tutela del concepito è tratto dalla sentenza con la quale, nel 1975, la Corte costituzionale dichiarò parzialmente illegittimo l´articolo del codice penale che puniva chi interrompeva la gravidanza di una donna consenziente, avviando così quella depenalizzazione dell´aborto che avrebbe poi trovato pieno riconoscimento nella legge n. 194 del 1978. Ma che cosa dice davvero quella sentenza, pronunciata da una Corte presieduta non da un pericoloso relativista laico, ma da un rigoroso esponente dei giuristi cattolici, Francesco Paolo Bonifacio? Parla sì di un fondamento costituzionale per la tutela del concepito, ma immediatamente dopo aggiunge: "questa premessa va accompagnata dall´ulteriore considerazione che l´interesse costituzionalmente protetto relativo al concepito può venir in collisione con altri beni che godano pur essi di tutela costituzionale e che, di conseguenza, la legge non può dare al primo una prevalenza totale ed assoluta, negando ai secondi adeguata protezione". E, con assoluta nettezza, conclude così: "non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell´embrione che persona deve ancora diventare".
Letta nella sua interezza, quella decisione va dunque nella direzione opposta rispetto a quella verso la quale i sostenitori della legge vorrebbero forzarla. È inammissibile quella sorta di dittatura dell´embrione, che ispira l´intera legge, perché all´interesse del concepito non può darsi una tutela assoluta che travolga ogni altro interesse in gioco e perché l´embrione non può essere considerato persona. Attenzione: il discorso della Corte è tanto più forte in quanto, pur usando termini come concepito e embrione, in realtà si riferisce al feto, dunque ad un embrione in uno stadio molto più avanzato e già impiantato nel corpo materno. A maggior ragione, quindi, esso vale per embrioni nei loro stadi iniziali e ancora non impiantati.
Altrettanto netta è la distorsione operata con il riferimento all´articolo 2 della Carta dei diritti, corrispondente allo stesso articolo della Convenzione europea dei diritti dell´uomo. Ora, proprio la Corte europea dei diritti dell´uomo, con una sentenza del luglio dell´anno scorso, ha constatato che "non v´è consenso a livello europeo sulla definizione scientifica e giuridica su che cosa sia l´inizio della vita"; di conseguenza, sull´inizio della vita si decide a livello nazionale; e, in conclusione, si possono riconoscere tutele all´embrione "senza considerarlo persona con diritto alla vita secondo l´articolo 2". Di nuovo, una corretta lettura dell´articolo 2 della Carta fornisce piuttosto argomenti a chi osserva come non vi sia alcun principio che imponga di identificare l´inizio della vita con il concepimento e di considerare l´embrione come una persona.
Caduto questo maldestro tentativo di dare fondamento costituzionale al modo in cui la legge sulla procreazione assistita definisce lo statuto dell´embrione, risaltano con evidenza ancora maggiore le forzature che essa contiene, vere e proprie cancellazioni di principi e valori che stanno alla base della prima parte della Costituzione, dove si disciplinano libertà e diritti fondamentali. È ignorato il principio di dignità nel momento in cui la donna non è considerata nel suo particolarissimo rapporto con chi solo attraverso di lei può nascere, ma viene ridotta a puro contenitore. Viene negata l´eguaglianza dei cittadini davanti alla legge attraverso una serie di irragionevoli divieti all´accesso delle donne alle tecniche procreative. Si comprime così il diritto alla salute, il cui carattere "fondamentale" è affermato dalla Costituzione e ripetutamente ribadito dalla Corte costituzionale. Si sottopone a controllo il corpo della donna e si cancella la soggettività femminile.
Siamo di fronte ad un disegno perseguito con determinazione, ignorando le molte osservazioni che, in tempi non sospetti, avevano messo in guardia contro questa deriva, questo abbandono di una solida fondazione costituzionale di una legge che incide pesantemente sulla vita delle persone. È necessario, allora, interrogarsi sulla cultura che sostiene questa impresa, sugli obiettivi perseguiti, sulla durezza con cui si difende anche l´indifendibile.
Siamo di fronte ad una operazione analoga a quella realizzata con la riforma che ha alterato principi ed equilibri della seconda parte della Costituzione. Emerge ora la volontà di distaccarsi anche dai valori contenuti nella prima parte, sostituendoli con riferimenti che cancellano principi condivisi (dignità, eguaglianza, salute) e che propongono in modo autoritario un´idea di natura astratta da cultura, storia, scienza. Questo tentativo è ancor più pericoloso di quello perseguito con la riforma costituzionale, perché questa volta si toccano le libertà e i diritti fondamentali.
La ragione dell´asprezza dello scontro di queste settimane sta proprio qui. L´attuale legge sulla procreazione assistita è ormai percepita come il primo atto di una contesa che ha come posta l´occupazione dello spazio costituzionale da parte di diversi fondamentalismi. Si può ben dire che su questo terreno i nostrani teocon stanno facendo con impegno le loro prove. Avanza un´altra idea di Stato e di società ed emerge, con caratteri inediti, la Chiesa cattolica come vero soggetto politico.
Si è aperto un conflitto destinato a proiettarsi nel futuro. E questo accade perché è stato abolito il filtro costruito pazientemente intorno allo Stato costituzionale dei diritti, anche come strumento di coesione sociale e di reciproco riconoscimento tra persone e gruppi.
Ma questo non sta forse avvenendo perché il mondo cattolico, a differenza di quello laico, è oggi l´unico capace di esprimere valori forti? Le cose stanno davvero così? Si abbia la pazienza di guardare ai valori intorno ai quali è stata costruita la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea: dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia. È questo il regno del relativismo, della debolezza, o sono deboli la cultura e la convinzione con cui troppi laici hanno guardato a quel nuovo quadro costituzionale e, prigionieri d´un vecchio pregiudizio che vede il mondo cattolico più attrezzato per le questioni etiche, hanno finito con il cadere nella trappola di chi continua a sostenere che la fondazione dell´Europa è debole perché non ha voluto parlare delle sue radici cristiane?
Oggi ci troviamo su un crinale molto sottile, in bilico tra Stato democratico e Stato etico, tra libertà e autoritarismo. Per uscire da questa difficile situazione non ci si può più affidare alla sola libertà di coscienza dei parlamentari. Per molti motivi. Anzitutto perché, trincerandosi dietro questo argomento, non ci si accorge che, quando si interviene sulla vita, si rischia di negare la libertà di coscienza degli altri, di tutti i cittadini. E poi perché si rimane chiusi in un´idea di legislazione, di produzione delle norme, ignara della necessità di una paziente costruzione di consenso sociale quando si tratta di passare dall´etica al diritto. Altrimenti la legge, che dovrebbe chiudere il conflitto, lo incentiva, esponendosi al rifiuto dei cittadini, all´aggiramento da parte di chi ha risorse culturali ed economiche per farlo. Così le leggi falliscono e il loro autore, il Parlamento, viene delegittimato, o addirittura cade nel discredito.
Forse bisognerebbe riflettere sulle sagge sentenze ricordate all´inizio, che non negano tutela giuridica all´embrione, ma indicano come la via corretta per farlo non sia quella dell´orgoglio ideologico, ma della sobrietà democratica. Che non impone impossibili equiparazioni, ma si impegna nel distinguere e nell´offrire discipline differenziate, permettendo pure quel confronto continuo che, solo, può consentire la nascita di posizioni comuni, come stava accadendo prima dell´improvvido intervento legislativo.
È troppo tardi per tornare su questa strada, per fermare la decostituzionalizzazione ideologica dell´intera Costituzione? La discussione sui referendum dovrebbe aver aperto gli occhi di molti. Dopo il voto, e quale che ne sia l´esito, verrà il momento per rivendicare con forza, contro risse e forzature, le ragioni di una politica colta e appassionata. A condizione di saperlo fare.
150 opere di Antonio Ligabue
L'Arena Domenica 29 Maggio 2005
Ligabue, espressionismo tragico
Due mostre celebrano il grande pittore naif italiano a quarant’anni dalla morte
Quella allestita a Palazzo Mignani di Reggio Emilia e a Palazzo Bentivoglio di Gualtieri fino al 28 agosto è la più grande antologica mai realizzata prima sull’arte di Ligabue, presenta 270 opere e s’intitola , «Antonio Ligabue. Espressionismo tragico».
Curata da Sergio Negri e Sandro Parmiggiani, l’esposizione allestisce nella sede reggiana 110 dipinti, tra cui molti di grandi dimensioni, mentre in quella di Gualtieri (dove nel 1965 Ligabue è morto ed è stato sepolto) si può ammirare un’ampia raccolta di opere su carta (60 disegni e 30 incisioni originali) e 70 sculture, tra terrecotte e bronzi. La selezione compiuta dai curatori è finalizzata a documentare in modo esaustivo l’intero percorso creativo dell’artista, mirando comunque a sottolinearne il grande valore al di là delle etichette riduttive che l’hanno a lungo travisato e penalizzato.
L’obiettivo è far conoscere un Ligabue non «naif», bensì esponente sanguigno e tragico del filone «primitivo» ed espressionista del ’900 non solo italiano, protagonista indiscusso del panorama artistico internazionale. La mostra si pone quindi, proprio in base al numero e alla qualità delle opere scelte, come un rinnovato punto fermo nella valutazione critica e nella comprensione dell’artista. Mentre spesso ci si limita alle tristi vicende che accompagnarono l’intera vita di Antonio Ligabue, nato nel 1899 a Zurigo, dalla madre operaia (e padre sconosciuto), Elisabetta Costa, che si sposa dopo due anni con Bonfiglio Leccabue, di Gualtieri, che gli da il nome.
È proprio nel comune della Bassa reggiana che fa ritorno a vent’anni, dopo un’infanzia di sofferenze e miseria, il successivo affidamento (alla morte della madre, nel 1913) a un istituto rieducativo di Marbach e quindi, nel 1917, il ricovero nel manicomio di Psafers.
Espulso dalla Svizzera per la sua vita turbolenta arriva così a Gualtieri nel 1919, scortato dai carabinieri come un malavitoso, straniero in terra straniera perchè d’italiano ha il nome, ma parla unicamente tedesco. Il municipio gli assegna un letto al Ricovero di mendicità Carri, una modesta sovvenzione e la possibilità di lavorare presso qualche contadino o nella costruzione degli argini del Po. Preso da nostalgia per la sua prima patria, Ligabue cerca di fuggire più volte per rientrare clandestinamente in Svizzera, ma viene sempre fermato e non vi farà mai più ritorno.
I primi dipinti dell’artista risalgono alla fine degli anni venti, quando entra in contatto con uno dei fondatori della Scuola Romana, Marino Renato Mazzacurati che insegna a quell’uomo ridotto a vivere come un selvaggio nei boschi e nelle golene del Po l’uso dei colori a olio.
Il genio di Ligabue esplode nei cromatismi che plasmano «atmosfere incantate, scene idilliache, piante lussureggianti, animali in lotta», scrive nel catalogo pubblicato da Skira Giuseppe Amadei, suggestioni di un’infanzia per sempre vagheggiata passando da un ospedale psichiatrico all’altro. «Dileggiato in vita», il reietto Ligabue viene osannato dopo la morte. Lui lo sapeva, e a chi lo scherniva rispondeva: «A me faranno un film, quando sarò morto, a me faranno una grande mostra a Parigi, a me faranno un monumento, perchè sono un grande artista, avete capito?».
Una sorta di ritorno alle origini a quarant'anni dalla morte: potrebbe essere definita così la grande mostra antologica di Ligabue a Cencenighe Agordino che rimarrà aperta fino al 25 settembre.
In realtà tra i monti del Veneto Ligabue non c'è mai stato: vi era nata la madre Elisabetta Costa che, emigrata, lo metterà alla luce in Svizzera per poi morire tre anni dopo. Forse in quei primi tre anni di vita questa mamma semplice, attaccata come tutti gli emigranti alla nostalgia della sua terra, gli avrà parlato dei monti e gli avrà sussurrato le nenie agordine. Forse…. di certo Ligabue, destinato (o condannato) a vivere per buona parte della sua vita in una pianura piatta come l'olio, avrà sempre un rapporto speciale con le montagne, che fossero svizzere o quelle ancestrali del Veneto.
E speciale possiamo definire il rapporto tra le genti della montagna e Ligabue, a giudicare dall'enorme successo che ebbe la prima mostra a Cencenighe nel ventennale della morte: quasi 100.000 visitatori, con personaggi in pellegrinaggio dalla vicina Cortina del calibro di Barilla, Montanelli, Casaroli. Un record rimasto imbattuto.
Il secondo motivo che rende quest'occasione davvero speciale è la presentazione e messa in vendita in mostra del Catalogo Generale Ragionato delle opere di Ligabue a cura di Augusto Agosta Tota e Marzio Dall'Acqua, con la prefazione di Vittorio Sgarbi. Si può definire senza dubbio "ufficiale", a contare gli attestati, i patrocinii e i riconoscimenti che l'erede di Ligabue, lo Stato Italiano, ha conferito all'opera: a partire dall'Alto Patronato del Presidente della Repubblica per arrivare ai patrocini della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero per i Beni e Attività Culturali. Promosso dal Comune di Gualtieri e dal Museo Documentario di Ligabue, è indispensabile per gli amanti dell'artista, e per tutti coloro che vogliono avere un punto di riferimento scientifico chiaro e sicuro sulla sua opera.
La rassegna, a cura di Augusto Agosta Tota, comprende 150 opere -110 dipinti, 23 disegni e 17 sculture - tutti capolavori selezionati e reperiti in Italia e all'estero tra la miglior produzione artistica di Ligabue.
Ligabue, espressionismo tragico
Due mostre celebrano il grande pittore naif italiano a quarant’anni dalla morte
- A Reggio Emilia e a Gualtieri la più grande antologica mai realizzata prima, con 270 quadri, finalizzata a documentare in modo esaustivo l’intero percorso creativo dell’artista, mirando a sottolinearne il valore al di là delle etichette riduttive. A Cencenighe Agordino esposti 150 lavori, tra dipinti, disegni e sculture, e in vendita il Catalogo Generale Ragionato delle opere
Quella allestita a Palazzo Mignani di Reggio Emilia e a Palazzo Bentivoglio di Gualtieri fino al 28 agosto è la più grande antologica mai realizzata prima sull’arte di Ligabue, presenta 270 opere e s’intitola , «Antonio Ligabue. Espressionismo tragico».
Curata da Sergio Negri e Sandro Parmiggiani, l’esposizione allestisce nella sede reggiana 110 dipinti, tra cui molti di grandi dimensioni, mentre in quella di Gualtieri (dove nel 1965 Ligabue è morto ed è stato sepolto) si può ammirare un’ampia raccolta di opere su carta (60 disegni e 30 incisioni originali) e 70 sculture, tra terrecotte e bronzi. La selezione compiuta dai curatori è finalizzata a documentare in modo esaustivo l’intero percorso creativo dell’artista, mirando comunque a sottolinearne il grande valore al di là delle etichette riduttive che l’hanno a lungo travisato e penalizzato.
L’obiettivo è far conoscere un Ligabue non «naif», bensì esponente sanguigno e tragico del filone «primitivo» ed espressionista del ’900 non solo italiano, protagonista indiscusso del panorama artistico internazionale. La mostra si pone quindi, proprio in base al numero e alla qualità delle opere scelte, come un rinnovato punto fermo nella valutazione critica e nella comprensione dell’artista. Mentre spesso ci si limita alle tristi vicende che accompagnarono l’intera vita di Antonio Ligabue, nato nel 1899 a Zurigo, dalla madre operaia (e padre sconosciuto), Elisabetta Costa, che si sposa dopo due anni con Bonfiglio Leccabue, di Gualtieri, che gli da il nome.
È proprio nel comune della Bassa reggiana che fa ritorno a vent’anni, dopo un’infanzia di sofferenze e miseria, il successivo affidamento (alla morte della madre, nel 1913) a un istituto rieducativo di Marbach e quindi, nel 1917, il ricovero nel manicomio di Psafers.
Espulso dalla Svizzera per la sua vita turbolenta arriva così a Gualtieri nel 1919, scortato dai carabinieri come un malavitoso, straniero in terra straniera perchè d’italiano ha il nome, ma parla unicamente tedesco. Il municipio gli assegna un letto al Ricovero di mendicità Carri, una modesta sovvenzione e la possibilità di lavorare presso qualche contadino o nella costruzione degli argini del Po. Preso da nostalgia per la sua prima patria, Ligabue cerca di fuggire più volte per rientrare clandestinamente in Svizzera, ma viene sempre fermato e non vi farà mai più ritorno.
I primi dipinti dell’artista risalgono alla fine degli anni venti, quando entra in contatto con uno dei fondatori della Scuola Romana, Marino Renato Mazzacurati che insegna a quell’uomo ridotto a vivere come un selvaggio nei boschi e nelle golene del Po l’uso dei colori a olio.
Il genio di Ligabue esplode nei cromatismi che plasmano «atmosfere incantate, scene idilliache, piante lussureggianti, animali in lotta», scrive nel catalogo pubblicato da Skira Giuseppe Amadei, suggestioni di un’infanzia per sempre vagheggiata passando da un ospedale psichiatrico all’altro. «Dileggiato in vita», il reietto Ligabue viene osannato dopo la morte. Lui lo sapeva, e a chi lo scherniva rispondeva: «A me faranno un film, quando sarò morto, a me faranno una grande mostra a Parigi, a me faranno un monumento, perchè sono un grande artista, avete capito?».
Una sorta di ritorno alle origini a quarant'anni dalla morte: potrebbe essere definita così la grande mostra antologica di Ligabue a Cencenighe Agordino che rimarrà aperta fino al 25 settembre.
In realtà tra i monti del Veneto Ligabue non c'è mai stato: vi era nata la madre Elisabetta Costa che, emigrata, lo metterà alla luce in Svizzera per poi morire tre anni dopo. Forse in quei primi tre anni di vita questa mamma semplice, attaccata come tutti gli emigranti alla nostalgia della sua terra, gli avrà parlato dei monti e gli avrà sussurrato le nenie agordine. Forse…. di certo Ligabue, destinato (o condannato) a vivere per buona parte della sua vita in una pianura piatta come l'olio, avrà sempre un rapporto speciale con le montagne, che fossero svizzere o quelle ancestrali del Veneto.
E speciale possiamo definire il rapporto tra le genti della montagna e Ligabue, a giudicare dall'enorme successo che ebbe la prima mostra a Cencenighe nel ventennale della morte: quasi 100.000 visitatori, con personaggi in pellegrinaggio dalla vicina Cortina del calibro di Barilla, Montanelli, Casaroli. Un record rimasto imbattuto.
Il secondo motivo che rende quest'occasione davvero speciale è la presentazione e messa in vendita in mostra del Catalogo Generale Ragionato delle opere di Ligabue a cura di Augusto Agosta Tota e Marzio Dall'Acqua, con la prefazione di Vittorio Sgarbi. Si può definire senza dubbio "ufficiale", a contare gli attestati, i patrocinii e i riconoscimenti che l'erede di Ligabue, lo Stato Italiano, ha conferito all'opera: a partire dall'Alto Patronato del Presidente della Repubblica per arrivare ai patrocini della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero per i Beni e Attività Culturali. Promosso dal Comune di Gualtieri e dal Museo Documentario di Ligabue, è indispensabile per gli amanti dell'artista, e per tutti coloro che vogliono avere un punto di riferimento scientifico chiaro e sicuro sulla sua opera.
La rassegna, a cura di Augusto Agosta Tota, comprende 150 opere -110 dipinti, 23 disegni e 17 sculture - tutti capolavori selezionati e reperiti in Italia e all'estero tra la miglior produzione artistica di Ligabue.
Giovanni Sartori
Corriere della Sera 29.5.05
Contraddizioni dei sostenitori della legge 40
L’EMBRIONE E LA PERSONA
di GIOVANNI SARTORI
La legge 40 che sarà sottoposta tra poco (il 12-13 giugno) a referendum è una legge su che cosa? Ufficialmente è una legge sulla «fecondazione artificiale», o assistita, anche detta, seppur impropriamente ed erroneamente, sulla fecondazione eterologa. In verità è molto molto di più. È una legge che stabilisce che l’embrione è già vita umana, e che perciò correda l’embrione di «diritti». Ora, nessuno contesta che l’embrione sia vita. Un sasso non ha vita; ma tutto ciò che nasce, si sviluppa e muore, è vita. Le piante sono vita, gli animali sono vita. E da un punto di vista biologico il genoma (i geni) di uno scimpanzé è quasi eguale - al 99,5% - a quello di un essere umano. Eppure la differenza tra uno scimpanzé e un homo sapiens è immensa. Qual è? Perché l’embrione umano va protetto e quello dello scimpanzé no? Se dobbiamo proteggere la vita, allora di questa «vita e basta» esistono miliardi di miliardi di specie e di varietà. Ma se ci interessa specificamente la protezione della vita umana, allora la dobbiamo definire, allora dobbiamo stabilire quale vita è umana e perché. Fino a circa mezzo secolo fa, lo sapevamo. Grosso modo (ci sono eccezioni) per la Chiesa e per la fede l’uomo è caratterizzato dall’anima, e l’«anima razionale», per dirla con San Tommaso, arriva tardi, non certo con il concepimento. Invece per la filosofia, o per la riflessione razionale, l’uomo è caratterizzato dalla ragione, dalla autocoscienza o quanto meno da stati mentali e psicologici coscienti. Per Locke, per esempio, la persona è «un essere consapevole di sé», e «senza coscienza non c’è persona» ( Saggio , II, 27). Ma ecco che d’un tratto, la Chiesa cattolica dimentica l’anima (e con essa tutta la sua teologia) e si affida alla biologia, alla quale fa dire che tra il mio embrione e me non c’è differenza: vita umana la sua, vita umana la mia. Ma purtroppo la differenza c’è; ed è anche addirittura a mio danno. Se, come mi augura un simpatico lettore, io fossi stato ucciso in embrione io non me ne sarei accorto e nemmeno avrei sofferto; invece io come persona umana so che dovrò morire e forse anche soffrire. E il discorso serio, l’argomento logico, è questo: che se un embrione sarà una persona, ancora non lo è come embrione. E sfido qualsiasi ruiniano a fornire una definizione di «persona umana» che si applichi all’embrione.
Passo ai risvolti pratici e agli aspetti concreti della questione. Un primo argomento dei sostenitori della 40 è che proteggere l’embrione è proteggere il più debole, la vita più debole. Ma da questo punto di vista gli embrioni non se la stanno cavando tanto male. I testi di demografia di quando nascevo prevedevano per il 2000 una popolazione di 2 miliardi; invece siamo addirittura più di 6 miliardi e si prevede che saliremo fino a 9. Ne risulta un eccesso di successo degli embrioni: una sovrappopolazione che porta alla distruzione della Terra, del pianeta Terra, e così anche al suicidio tendenziale del genere umano. In questo contesto, il diritto alla vita si capovolge in una straziante condanna a morte per i già nati, i viventi in eccesso.
Un altro argomento è che la 40 tutela la donna. Questa poi. Se l’embrione è sacro e inviolabile, anche la pillola (contraccettiva) del giorno dopo deve essere proibita. Così centinaia di milioni di minorenni inesperte o anche violentate si devono tenere un bambino indesiderato o altrimenti ricorrere all’aborto. Che però dovrà essere anch’esso lestamente proibito, perché se passa la 40, la legge 194/78 sull’aborto non potrà essere mantenuta: la contraddizione non lo consente. E così torneremo alle «mammane» clandestine che spesso massacrano e ammazzano le loro clienti. Davvero una bella tutela.
Contraddizioni dei sostenitori della legge 40
L’EMBRIONE E LA PERSONA
di GIOVANNI SARTORI
La legge 40 che sarà sottoposta tra poco (il 12-13 giugno) a referendum è una legge su che cosa? Ufficialmente è una legge sulla «fecondazione artificiale», o assistita, anche detta, seppur impropriamente ed erroneamente, sulla fecondazione eterologa. In verità è molto molto di più. È una legge che stabilisce che l’embrione è già vita umana, e che perciò correda l’embrione di «diritti». Ora, nessuno contesta che l’embrione sia vita. Un sasso non ha vita; ma tutto ciò che nasce, si sviluppa e muore, è vita. Le piante sono vita, gli animali sono vita. E da un punto di vista biologico il genoma (i geni) di uno scimpanzé è quasi eguale - al 99,5% - a quello di un essere umano. Eppure la differenza tra uno scimpanzé e un homo sapiens è immensa. Qual è? Perché l’embrione umano va protetto e quello dello scimpanzé no? Se dobbiamo proteggere la vita, allora di questa «vita e basta» esistono miliardi di miliardi di specie e di varietà. Ma se ci interessa specificamente la protezione della vita umana, allora la dobbiamo definire, allora dobbiamo stabilire quale vita è umana e perché. Fino a circa mezzo secolo fa, lo sapevamo. Grosso modo (ci sono eccezioni) per la Chiesa e per la fede l’uomo è caratterizzato dall’anima, e l’«anima razionale», per dirla con San Tommaso, arriva tardi, non certo con il concepimento. Invece per la filosofia, o per la riflessione razionale, l’uomo è caratterizzato dalla ragione, dalla autocoscienza o quanto meno da stati mentali e psicologici coscienti. Per Locke, per esempio, la persona è «un essere consapevole di sé», e «senza coscienza non c’è persona» ( Saggio , II, 27). Ma ecco che d’un tratto, la Chiesa cattolica dimentica l’anima (e con essa tutta la sua teologia) e si affida alla biologia, alla quale fa dire che tra il mio embrione e me non c’è differenza: vita umana la sua, vita umana la mia. Ma purtroppo la differenza c’è; ed è anche addirittura a mio danno. Se, come mi augura un simpatico lettore, io fossi stato ucciso in embrione io non me ne sarei accorto e nemmeno avrei sofferto; invece io come persona umana so che dovrò morire e forse anche soffrire. E il discorso serio, l’argomento logico, è questo: che se un embrione sarà una persona, ancora non lo è come embrione. E sfido qualsiasi ruiniano a fornire una definizione di «persona umana» che si applichi all’embrione.
Passo ai risvolti pratici e agli aspetti concreti della questione. Un primo argomento dei sostenitori della 40 è che proteggere l’embrione è proteggere il più debole, la vita più debole. Ma da questo punto di vista gli embrioni non se la stanno cavando tanto male. I testi di demografia di quando nascevo prevedevano per il 2000 una popolazione di 2 miliardi; invece siamo addirittura più di 6 miliardi e si prevede che saliremo fino a 9. Ne risulta un eccesso di successo degli embrioni: una sovrappopolazione che porta alla distruzione della Terra, del pianeta Terra, e così anche al suicidio tendenziale del genere umano. In questo contesto, il diritto alla vita si capovolge in una straziante condanna a morte per i già nati, i viventi in eccesso.
Un altro argomento è che la 40 tutela la donna. Questa poi. Se l’embrione è sacro e inviolabile, anche la pillola (contraccettiva) del giorno dopo deve essere proibita. Così centinaia di milioni di minorenni inesperte o anche violentate si devono tenere un bambino indesiderato o altrimenti ricorrere all’aborto. Che però dovrà essere anch’esso lestamente proibito, perché se passa la 40, la legge 194/78 sull’aborto non potrà essere mantenuta: la contraddizione non lo consente. E così torneremo alle «mammane» clandestine che spesso massacrano e ammazzano le loro clienti. Davvero una bella tutela.
«la fede non è un argomento»
L'Unità 29 Maggio 2005
La fede non è un argomento
Paolo Flores d’Arcais
Stimato cardinal Ruini,
con tutta l’autorevolezza che le viene dall’essere presidente della Conferenza Episcopale Italiana (Cei) e Vicario delle diocesi di Roma (quasi un «vice Papa», insomma) non solo lei è intervenuto sistematicamente nelle vicende politiche italiane, non solo ha teorizzato il diritto a tale «presenza» politica delle gerarchie ecclesiastiche, ma ne ha sostenuto addirittura la necessità. Per il bene della democrazia stessa.
Qualche mese fa Eugenio Scalfari ha sostenuto - con dovizia di riferimenti testuali - che i suoi interventi violano le norme del Concordato, e quindi la Costituzione italiana. Non entro nel merito, ma solo perché voglio spingermi oltre, e domandare se i suoi interventi, malgrado il paternalistico abbraccio alla democrazia («per il suo bene») non rinverdiscano invece ostilità e sospetti tradizionali nella Chiesa di Roma nei confronti della democrazia stessa, ancora orgogliosamente rivendicati da papa Pacelli e felicemente attenuati e posti in sordina durante la stagione (evidentemente assai breve) del cattolicesimo conciliare.
Valga il vero. Converrà certamente anche lei che una società democratica è tale perché in essa ciascuno partecipa in modo eguale alla comune sovranità, ha eguale titolo a determinare ogni decisione. Credente o non credente che sia. Ma tale decisione ha poi carattere vincolante per tutti, anche per chi non la ha condivisa.
(...) L'unico “fondamento” della convivenza democratica, insomma, è solo un diffuso e saturante ethos democratico. L'abc del quale - davvero minimo e irrinunciabile - è che ad ogni decisione si arrivi attraverso un processo deliberativo in cui ciascuno ha il dovere di rivolgersi a tutti gli altri cittadini, e argomentare, per convincerli della propria opinione.
Poniamo che una persona X, debitamente eletta in parlamento, voglia introdurre una legge che consente la poligamia. Se ne dovrà discutere. Cioè ciascuno dovrà addurre argomenti. Pro e contro.
Argomenti. Cioè valori democratici, fatti empirici accertabili, logica. Potrà, l’on. X, partire ad esempio dal valore democratico della libera scelta, e allora la poligamia, se consensuale, perché no? Gli si potrà ampiamente obiettare, gli argomenti "contro" non mancano. Non entro nel merito. Mi interessa solo sottolineare quelle che non potrebbero essere considerate argomentazioni (democratiche) a favore della poligamia. Non si potrebbe, ad esempio, pretendere di introdurre la poligamia solo per gli uomini. Violerebbe il principio di eguaglianza. E a tale obiezione non si potrebbe replicare: ma lo dice il Corano, che esprime la volontà di Dio.
Dio non può essere un argomento, insomma, perché non può essere mai convincente - in linea di principio - per chi non è credente, per chi creda in un Dio diverso, per chi creda nello stesso Dio ma ritenga che la Sua Parola vada interpretata differentemente. Non può, in linea di principio, diventare fattore di un dia-logos fra cittadini. Anzi: annulla dia-logos, argomentazione raziocinante, persuasione reciproca, dunque deliberazione democratica, nella regressione dello scontro tra dogmi.
Prendiamo altri due esempi. Il signor Y, debitamente eletto in parlamento, vorrebbe stabilire per legge la proibizione del preservativo, e la signora W, sua collega, la proibizione per legge delle trasfusioni di sangue. Dovranno argomentare. Il che, ovviamente, non ha nulla a che fare con la disponibilità personale e soggettiva a rinunciare, nella loro vita, all'uso del preservativo o delle trasfusioni.
(...) Tutto questo è noto da secoli come il fondamento della convivenza laica (precondizione di quella democratica). Che recita: Etsi Deus non daretur. Una legge, proprio perchè dovrà vincolare tutti, credenti e miscredenti (e ogni credente è miscredente rispetto ad un diverso credente) deve essere proposta, discussa, decisa, ricorrendo solo ed esclusivamente ad argomenti che, in linea di principio, non discriminino. Mentre la fede, per definizione, è un dono. Appartiene a pochi. Comunque non a tutti (diversamente dalla ragione, per ipotesi).
La propria fede non è un argomento, insomma. Non può essere mai invocata in quanto tale nell'argomentazione per la legge, dunque. Altrimenti l'islamico potrà invocare la volontà del suo Dio, e così l'ebreo e il gentile, e il cattolico e il testimone di Geova. E all'interno di ogni fede poi, secondo un pluralismo ermeneutico che rende ciascuno eretico all'altro. Ecco perché, in democrazia, la fede deve restare privata. L'opinione di ciascuno, per farsi pubblica, per farsi valere, per essere valore che si propone come legge, deve partire da valori comuni (cioè quelli non in contrasto con una costituzione democratica), e dai fatti accertabili, e dalla logica.
Questo lascerà ampio margine all'incertezza nella reciproca persuasione e nella decisione (ampi margini anche alla scelta irrazionale, se vogliamo: degli interessi). Ma se ammettessimo che Dio può valere come argomento, non potremmo che piombare nel contenzioso teologico-dogmatico, e della logica dell'anatema reciproco.
Del resto, anche nelle recenti polemiche sul referendum che riguarda la legge sulla procreazione assistita, personalità cattoliche note per il loro integralismo non fanno che ribadire che la loro posizione è perfettamente argomentabile in termini e logica puramente umani, a prescindere da ogni convinzione di fede. Di nuovo: non entro nel merito se tali argomenti siano davvero di peso o assolutamente claudicanti. Sotto il profilo del metodo è invece certo che si tratti dell’unico approccio compatibile con la democrazia. Un "argomento" che facesse riferimento alla fede, cioè a qualcosa di cui, per definizione, alcuni cittadini sono privi, violerebbe quell'abc dell'ethos democratico di cui abbiamo parlato.
Eppure, è proprio quello che lei ha fatto, ripetutamente. Lei infatti non si è rivolto agli italiani in quanto prof. Ruini, utilizzando tutti gli argomenti empiricamente e razionalmente possibili per rifiutare il referendum. Lei ha parlato in quanto card. Ruini, presidente dei vescovi italiani, e si è rivolto ai cattolici in quanto cattolici. Lei cioè ha intimato, in nome di una fede religiosa - non della comune ragione umana - una linea di comportamento politico. E con ciò, lei si è allineato, sul piano del metodo, con l'eventuale testimone di Geova che intendesse far proibire per legge le trasfusioni di sangue o il futuro deputato islamico che volesse per legge consentire la poligamia (solo per gli uomini). Ma il piano del metodo è qui cruciale, perché mette in gioco la logica, la sostanza, l'ethos della democrazia stessa.
Delle due l'una, infatti. O i suoi argomenti possono, almeno in linea di principio, rivolgersi ad ogni coscienza raziocinante, e allora lei deve parlare a tutti noi (quando si tratti di leggi dello Stato e di politica) in quanto prof. Ruini, in quanto cittadino Ruini. O i suoi "argomenti" sono invece costituiti dalla fede in un Dio e nella Sua Volontà interpretata secondo la "tradizione apostolica" della Chiesa di Roma, e allora è comprensibile che lei parli da cardinale ai fedeli.
Ma in tal modo sancisce un principio: che Dio possa diventare "argomento" nello scontro politico. E se il suo Dio, allora inevitabilmente anche il Dio della Torah in tutte le sue interpretazioni, e il Dio di Maometto (anche in ermeneutica fondamentalista), e accanto ad Allah Geova, e infine ogni Dio che una qualsiasi religione (vecchia o nuova) voglia adorare, e la cui Volontà voglia rendere "argomento".
In una società pluralista, insomma, ci sono solo due vie possibili: o tutte le fedi rinunciano alla tentazione di far valere i propri principi erga omnes (cioè di farli diventare leggi dello Stato), e dunque si limitano a proporre quanto delle loro convinzioni è argomentabile anche a prescindere dalla fede, o tutte le fedi hanno un eguale diritto a tentare di far diventare legge i valori della propria fede (etici, sociali, eccetera) in quanto fede.
E sarebbe risposta risibile quella del cattolico che sostenesse che le sue norme morali (che vietano la poligamia, il divorzio, il preservativo, l'aborto, l'eutanasia) sono norme naturali, dunque argomentabili in modo semplicemente umano (basandosi su logica, fatti accertabili, valori democratici), mentre quelle dell'islamico che volesse consentire la poligamia o del testimone di Geova intenzionato a proibire le trasfusioni devono far ricorso al dogma delle rispettive religioni, poiché infondate sul piano semplicemente naturale, razional-umano (argomentabile a prescindere dalla fede). Perché, se davvero è così, sarebbe logico e coerente (e magari anche utile per la Chiesa) che - quando si tratta di politica e di leggi - lei si esprimesse solo e sempre in quanto prof. Ruini e mai in quanto cardinale e vescovo.
Temo invece che l'antica e antidemocratica pretesa della chiesa di imporre al secolo le norme morali desunte dal dogma stia conoscendo una nuova stagione di fioritura opulenta. Ma questa volta più pericolosa e contraddittoria che mai. (...)
C'è poco da illudersi. Se non si esce radicalmente dalla pretesa di far valere qualcosa (ogni fede e ogni Dio) che esuli dal mero argomentare umano (e lei da tale pretesa non esce, anzi la riafferma, ogni volta che parla di politica e di leggi in quanto card. Ruini) saranno tutte le fedi, ciascuna con il proprio Dio, a voler decidere la norma penale e civile, in uno scontro interreligioso micidiale, oltre che in una tracimante ostilità alla logica della convivenza laica e democratica. Moltissimi anni fa sostenni che due capisaldi "irrinunciabili" della politica vaticana, l'8 per mille e il finanziamento alle scuole private confessionali, in un paio di generazioni si sarebbero rivelati dei tragici boomerang anche dal punto di vista della Chiesa. Non è passato ancora il tempo di una sola generazione, e già ci siamo: per quanto anni ancora si riuscirà e mantenere l'islam italiano (nelle sue diverse componenti) incostituzionalmente fuori dall'8 per mille? E le scuole private ispirate ad Allah e sostenute da finanziamento pubblico non sono ormai all'ordine del giorno?
(...) Infine, un accenno al merito dei suoi interventi. Lei, nella sua veste di card. Ruini, ha intimato ai fedeli di non andare a votare nel prossimo referendum. Tecnicamente, per chi vuole sconfiggerne i promotori, è la scelta più "furba". Poiché un'astensione del 30% in un referendum è ormai fisiologica, basta convincere due italiani su dieci a restare a casa e il referendum è sconfitto. Il referendum in quanto strumento, però, non solo il sì a questo referendum. Ma è sicuro che questa scelta "furba", che affossa di fatto l'istituto (perché in futuro tutti agiranno nello stesso modo, e convincere il 20% è alla portata di quasi tutti), sia anche lungimirante? Ha forse dimenticato che a voler l'introduzione del referendum fu proprio la sua Chiesa, per poter abrogare la legge che introduceva il divorzio? E se domani una maggioranza parlamentare introducesse altre leggi in contrasto con il diritto "naturale" (posto che come tale riesca ad argomentarlo, da professor Ruini, non da cardinale) non sarà il referendum uno strumento di tutela anche per il cittadino Ruini?
La fede non è un argomento
Paolo Flores d’Arcais
Stimato cardinal Ruini,
con tutta l’autorevolezza che le viene dall’essere presidente della Conferenza Episcopale Italiana (Cei) e Vicario delle diocesi di Roma (quasi un «vice Papa», insomma) non solo lei è intervenuto sistematicamente nelle vicende politiche italiane, non solo ha teorizzato il diritto a tale «presenza» politica delle gerarchie ecclesiastiche, ma ne ha sostenuto addirittura la necessità. Per il bene della democrazia stessa.
Qualche mese fa Eugenio Scalfari ha sostenuto - con dovizia di riferimenti testuali - che i suoi interventi violano le norme del Concordato, e quindi la Costituzione italiana. Non entro nel merito, ma solo perché voglio spingermi oltre, e domandare se i suoi interventi, malgrado il paternalistico abbraccio alla democrazia («per il suo bene») non rinverdiscano invece ostilità e sospetti tradizionali nella Chiesa di Roma nei confronti della democrazia stessa, ancora orgogliosamente rivendicati da papa Pacelli e felicemente attenuati e posti in sordina durante la stagione (evidentemente assai breve) del cattolicesimo conciliare.
Valga il vero. Converrà certamente anche lei che una società democratica è tale perché in essa ciascuno partecipa in modo eguale alla comune sovranità, ha eguale titolo a determinare ogni decisione. Credente o non credente che sia. Ma tale decisione ha poi carattere vincolante per tutti, anche per chi non la ha condivisa.
(...) L'unico “fondamento” della convivenza democratica, insomma, è solo un diffuso e saturante ethos democratico. L'abc del quale - davvero minimo e irrinunciabile - è che ad ogni decisione si arrivi attraverso un processo deliberativo in cui ciascuno ha il dovere di rivolgersi a tutti gli altri cittadini, e argomentare, per convincerli della propria opinione.
Poniamo che una persona X, debitamente eletta in parlamento, voglia introdurre una legge che consente la poligamia. Se ne dovrà discutere. Cioè ciascuno dovrà addurre argomenti. Pro e contro.
Argomenti. Cioè valori democratici, fatti empirici accertabili, logica. Potrà, l’on. X, partire ad esempio dal valore democratico della libera scelta, e allora la poligamia, se consensuale, perché no? Gli si potrà ampiamente obiettare, gli argomenti "contro" non mancano. Non entro nel merito. Mi interessa solo sottolineare quelle che non potrebbero essere considerate argomentazioni (democratiche) a favore della poligamia. Non si potrebbe, ad esempio, pretendere di introdurre la poligamia solo per gli uomini. Violerebbe il principio di eguaglianza. E a tale obiezione non si potrebbe replicare: ma lo dice il Corano, che esprime la volontà di Dio.
Dio non può essere un argomento, insomma, perché non può essere mai convincente - in linea di principio - per chi non è credente, per chi creda in un Dio diverso, per chi creda nello stesso Dio ma ritenga che la Sua Parola vada interpretata differentemente. Non può, in linea di principio, diventare fattore di un dia-logos fra cittadini. Anzi: annulla dia-logos, argomentazione raziocinante, persuasione reciproca, dunque deliberazione democratica, nella regressione dello scontro tra dogmi.
Prendiamo altri due esempi. Il signor Y, debitamente eletto in parlamento, vorrebbe stabilire per legge la proibizione del preservativo, e la signora W, sua collega, la proibizione per legge delle trasfusioni di sangue. Dovranno argomentare. Il che, ovviamente, non ha nulla a che fare con la disponibilità personale e soggettiva a rinunciare, nella loro vita, all'uso del preservativo o delle trasfusioni.
(...) Tutto questo è noto da secoli come il fondamento della convivenza laica (precondizione di quella democratica). Che recita: Etsi Deus non daretur. Una legge, proprio perchè dovrà vincolare tutti, credenti e miscredenti (e ogni credente è miscredente rispetto ad un diverso credente) deve essere proposta, discussa, decisa, ricorrendo solo ed esclusivamente ad argomenti che, in linea di principio, non discriminino. Mentre la fede, per definizione, è un dono. Appartiene a pochi. Comunque non a tutti (diversamente dalla ragione, per ipotesi).
La propria fede non è un argomento, insomma. Non può essere mai invocata in quanto tale nell'argomentazione per la legge, dunque. Altrimenti l'islamico potrà invocare la volontà del suo Dio, e così l'ebreo e il gentile, e il cattolico e il testimone di Geova. E all'interno di ogni fede poi, secondo un pluralismo ermeneutico che rende ciascuno eretico all'altro. Ecco perché, in democrazia, la fede deve restare privata. L'opinione di ciascuno, per farsi pubblica, per farsi valere, per essere valore che si propone come legge, deve partire da valori comuni (cioè quelli non in contrasto con una costituzione democratica), e dai fatti accertabili, e dalla logica.
Questo lascerà ampio margine all'incertezza nella reciproca persuasione e nella decisione (ampi margini anche alla scelta irrazionale, se vogliamo: degli interessi). Ma se ammettessimo che Dio può valere come argomento, non potremmo che piombare nel contenzioso teologico-dogmatico, e della logica dell'anatema reciproco.
Del resto, anche nelle recenti polemiche sul referendum che riguarda la legge sulla procreazione assistita, personalità cattoliche note per il loro integralismo non fanno che ribadire che la loro posizione è perfettamente argomentabile in termini e logica puramente umani, a prescindere da ogni convinzione di fede. Di nuovo: non entro nel merito se tali argomenti siano davvero di peso o assolutamente claudicanti. Sotto il profilo del metodo è invece certo che si tratti dell’unico approccio compatibile con la democrazia. Un "argomento" che facesse riferimento alla fede, cioè a qualcosa di cui, per definizione, alcuni cittadini sono privi, violerebbe quell'abc dell'ethos democratico di cui abbiamo parlato.
Eppure, è proprio quello che lei ha fatto, ripetutamente. Lei infatti non si è rivolto agli italiani in quanto prof. Ruini, utilizzando tutti gli argomenti empiricamente e razionalmente possibili per rifiutare il referendum. Lei ha parlato in quanto card. Ruini, presidente dei vescovi italiani, e si è rivolto ai cattolici in quanto cattolici. Lei cioè ha intimato, in nome di una fede religiosa - non della comune ragione umana - una linea di comportamento politico. E con ciò, lei si è allineato, sul piano del metodo, con l'eventuale testimone di Geova che intendesse far proibire per legge le trasfusioni di sangue o il futuro deputato islamico che volesse per legge consentire la poligamia (solo per gli uomini). Ma il piano del metodo è qui cruciale, perché mette in gioco la logica, la sostanza, l'ethos della democrazia stessa.
Delle due l'una, infatti. O i suoi argomenti possono, almeno in linea di principio, rivolgersi ad ogni coscienza raziocinante, e allora lei deve parlare a tutti noi (quando si tratti di leggi dello Stato e di politica) in quanto prof. Ruini, in quanto cittadino Ruini. O i suoi "argomenti" sono invece costituiti dalla fede in un Dio e nella Sua Volontà interpretata secondo la "tradizione apostolica" della Chiesa di Roma, e allora è comprensibile che lei parli da cardinale ai fedeli.
Ma in tal modo sancisce un principio: che Dio possa diventare "argomento" nello scontro politico. E se il suo Dio, allora inevitabilmente anche il Dio della Torah in tutte le sue interpretazioni, e il Dio di Maometto (anche in ermeneutica fondamentalista), e accanto ad Allah Geova, e infine ogni Dio che una qualsiasi religione (vecchia o nuova) voglia adorare, e la cui Volontà voglia rendere "argomento".
In una società pluralista, insomma, ci sono solo due vie possibili: o tutte le fedi rinunciano alla tentazione di far valere i propri principi erga omnes (cioè di farli diventare leggi dello Stato), e dunque si limitano a proporre quanto delle loro convinzioni è argomentabile anche a prescindere dalla fede, o tutte le fedi hanno un eguale diritto a tentare di far diventare legge i valori della propria fede (etici, sociali, eccetera) in quanto fede.
E sarebbe risposta risibile quella del cattolico che sostenesse che le sue norme morali (che vietano la poligamia, il divorzio, il preservativo, l'aborto, l'eutanasia) sono norme naturali, dunque argomentabili in modo semplicemente umano (basandosi su logica, fatti accertabili, valori democratici), mentre quelle dell'islamico che volesse consentire la poligamia o del testimone di Geova intenzionato a proibire le trasfusioni devono far ricorso al dogma delle rispettive religioni, poiché infondate sul piano semplicemente naturale, razional-umano (argomentabile a prescindere dalla fede). Perché, se davvero è così, sarebbe logico e coerente (e magari anche utile per la Chiesa) che - quando si tratta di politica e di leggi - lei si esprimesse solo e sempre in quanto prof. Ruini e mai in quanto cardinale e vescovo.
Temo invece che l'antica e antidemocratica pretesa della chiesa di imporre al secolo le norme morali desunte dal dogma stia conoscendo una nuova stagione di fioritura opulenta. Ma questa volta più pericolosa e contraddittoria che mai. (...)
C'è poco da illudersi. Se non si esce radicalmente dalla pretesa di far valere qualcosa (ogni fede e ogni Dio) che esuli dal mero argomentare umano (e lei da tale pretesa non esce, anzi la riafferma, ogni volta che parla di politica e di leggi in quanto card. Ruini) saranno tutte le fedi, ciascuna con il proprio Dio, a voler decidere la norma penale e civile, in uno scontro interreligioso micidiale, oltre che in una tracimante ostilità alla logica della convivenza laica e democratica. Moltissimi anni fa sostenni che due capisaldi "irrinunciabili" della politica vaticana, l'8 per mille e il finanziamento alle scuole private confessionali, in un paio di generazioni si sarebbero rivelati dei tragici boomerang anche dal punto di vista della Chiesa. Non è passato ancora il tempo di una sola generazione, e già ci siamo: per quanto anni ancora si riuscirà e mantenere l'islam italiano (nelle sue diverse componenti) incostituzionalmente fuori dall'8 per mille? E le scuole private ispirate ad Allah e sostenute da finanziamento pubblico non sono ormai all'ordine del giorno?
(...) Infine, un accenno al merito dei suoi interventi. Lei, nella sua veste di card. Ruini, ha intimato ai fedeli di non andare a votare nel prossimo referendum. Tecnicamente, per chi vuole sconfiggerne i promotori, è la scelta più "furba". Poiché un'astensione del 30% in un referendum è ormai fisiologica, basta convincere due italiani su dieci a restare a casa e il referendum è sconfitto. Il referendum in quanto strumento, però, non solo il sì a questo referendum. Ma è sicuro che questa scelta "furba", che affossa di fatto l'istituto (perché in futuro tutti agiranno nello stesso modo, e convincere il 20% è alla portata di quasi tutti), sia anche lungimirante? Ha forse dimenticato che a voler l'introduzione del referendum fu proprio la sua Chiesa, per poter abrogare la legge che introduceva il divorzio? E se domani una maggioranza parlamentare introducesse altre leggi in contrasto con il diritto "naturale" (posto che come tale riesca ad argomentarlo, da professor Ruini, non da cardinale) non sarà il referendum uno strumento di tutela anche per il cittadino Ruini?
sabato 28 maggio 2005
Paolo Izzo propone un'altra conversazione sui referendum. È la volta di Maria Pace Ottieri.
Questo è il link:
http://www.quaderniradicali.it/agenzia/index.php?op=read&nid=3479
"iperattività"
Brescia Oggi Sabato 28 Maggio 2005
Seminario di approfondimento in Cattolica. Il disturbo colpisce il 4% della popolazione scolastica
Bimbi iperattivi, dibattito aperto
Gli esperti: «Disturbo neurologico». Ma è scontro sull’uso di psicofarmaci
l.c.
Impulsivi, irrequieti, disattenti, tanto da compromettere la loro vita di relazione e scolastica. Sono i bambini che erroneamente vengono descritti come «quelli che fanno soffrire ma che non soffrono». Una lettura superficiale del disturbo da deficit di attenzione e iperattività, che in tempi recenti è stata ribaltata, di pari passo con una tardiva presa di coscienza del problema a livello clinico, pedagogico e sociale. Oggi l’attenzione è puntata proprio sui bambini, personalità condannate a essere sempre fuori luogo e a disagio, inadeguate, incapaci di frenarsi. Il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (definito Adhd dall’acronimo inglese) è oggi un problema che interessa il 4% della popolazione scolastica, e rappresenta il più comune disturbo comportamentale infantile. Una patologia cui l’Università Cattolica, con il corso di laurea in Scienze della Formazione primaria, e con Aifa, Associazione italiana famiglie Adhd, ha dedicato un seminario di approfondimento.
Fra i più frequenti disturbi neuropsichiatrici dell’età evolutiva, l’Adhd può essere individuato già dai 3 anni, anche se l’età classica in cui viene «scoperto» è i 6 anni, con l’ingresso in prima elementare e la difficoltà a stare seduti e concentrarsi. «Quando affiorano questi sintomi - ha spiegato Enzo D’Alessandro, psichiatra del Royal College of Canada e consulente del Gaslini di Genova - è fondamentale che la diagnosi venga fatta con un approccio multimodale, cioè clinico, psicologico, pedagogico. Questo proprio per escludere possibili altre patologie come i disturbi dell’apprendimento che sono altra cosa rispetto all’Adhd, ma che comunque, nel 60-70% dei casi comporta anche disturbi di apprendimento, come difficoltà a leggere, scrivere e fare i calcoli». Bambini (il rapporto maschi-femmine colpiti è 10 a 1) incapaci di selezionare gli stimoli, di controllare impulsi, di pianificare azioni «con il futuro in testa». Bambini il cui disturbo, secondo gli studi più recenti, sembrerebbe legato a fattori di tipo biologico e nello specifico neurologico, «una ipo-irrorazione della corteccia prefrontale del cervello, e a livello biochimico un’alterazione di un neurotrasmettitore, la dopamina» ha aggiunto D’Alessandro, introducendo il grande scontro politico oltre che scientifico sui diversi trattamenti da usare, in particolare l’approccio agli psicofarmaci. «Il trattamento d’elezione - ha detto - è quello cognitivo comportamentale, per lavorare col coinvolgimento di famiglia e scuola sull’attenzione, l’impulsività e il rinforzo dell’autostima, dal momento che la difficoltà a socializzare li rende spesso frustrati. L’uso dei farmaci deve essere il rimedio estremo, da riservare ai casi gravi, tenendo conto che 3 su 4 sono comunque lievi».
L’Adhd è una patologia che può essere trattata con successo, ma che non può essere trascurata, come si tendeva a fare, quale problema marginale che si risolve con l’età: al bivio dell’adolescenza, infatti, il 50% dei casi vengono risolti dalla naturale maturazione cerebrale, ma nella restante metà permangono atteggiamenti oppositivo-provocatori destinati a tradursi in disturbi della condotta e disagi dell’adattamento sociale, come personalità devianti, che trovano rifugio nell’abuso di sostanze e sono a rischio di depressione. «Per questo è essenziale intervenire per tempo - ha detto Astrid Gollner, mamma che ha conosciuto da vicino il problema con il proprio figlio -. Tutti gli insegnanti dovrebbero avere le conoscenze e gli strumenti per cogliere il problema. Cosa che oggi, purtroppo, non accade».
Seminario di approfondimento in Cattolica. Il disturbo colpisce il 4% della popolazione scolastica
Bimbi iperattivi, dibattito aperto
Gli esperti: «Disturbo neurologico». Ma è scontro sull’uso di psicofarmaci
l.c.
Impulsivi, irrequieti, disattenti, tanto da compromettere la loro vita di relazione e scolastica. Sono i bambini che erroneamente vengono descritti come «quelli che fanno soffrire ma che non soffrono». Una lettura superficiale del disturbo da deficit di attenzione e iperattività, che in tempi recenti è stata ribaltata, di pari passo con una tardiva presa di coscienza del problema a livello clinico, pedagogico e sociale. Oggi l’attenzione è puntata proprio sui bambini, personalità condannate a essere sempre fuori luogo e a disagio, inadeguate, incapaci di frenarsi. Il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (definito Adhd dall’acronimo inglese) è oggi un problema che interessa il 4% della popolazione scolastica, e rappresenta il più comune disturbo comportamentale infantile. Una patologia cui l’Università Cattolica, con il corso di laurea in Scienze della Formazione primaria, e con Aifa, Associazione italiana famiglie Adhd, ha dedicato un seminario di approfondimento.
Fra i più frequenti disturbi neuropsichiatrici dell’età evolutiva, l’Adhd può essere individuato già dai 3 anni, anche se l’età classica in cui viene «scoperto» è i 6 anni, con l’ingresso in prima elementare e la difficoltà a stare seduti e concentrarsi. «Quando affiorano questi sintomi - ha spiegato Enzo D’Alessandro, psichiatra del Royal College of Canada e consulente del Gaslini di Genova - è fondamentale che la diagnosi venga fatta con un approccio multimodale, cioè clinico, psicologico, pedagogico. Questo proprio per escludere possibili altre patologie come i disturbi dell’apprendimento che sono altra cosa rispetto all’Adhd, ma che comunque, nel 60-70% dei casi comporta anche disturbi di apprendimento, come difficoltà a leggere, scrivere e fare i calcoli». Bambini (il rapporto maschi-femmine colpiti è 10 a 1) incapaci di selezionare gli stimoli, di controllare impulsi, di pianificare azioni «con il futuro in testa». Bambini il cui disturbo, secondo gli studi più recenti, sembrerebbe legato a fattori di tipo biologico e nello specifico neurologico, «una ipo-irrorazione della corteccia prefrontale del cervello, e a livello biochimico un’alterazione di un neurotrasmettitore, la dopamina» ha aggiunto D’Alessandro, introducendo il grande scontro politico oltre che scientifico sui diversi trattamenti da usare, in particolare l’approccio agli psicofarmaci. «Il trattamento d’elezione - ha detto - è quello cognitivo comportamentale, per lavorare col coinvolgimento di famiglia e scuola sull’attenzione, l’impulsività e il rinforzo dell’autostima, dal momento che la difficoltà a socializzare li rende spesso frustrati. L’uso dei farmaci deve essere il rimedio estremo, da riservare ai casi gravi, tenendo conto che 3 su 4 sono comunque lievi».
L’Adhd è una patologia che può essere trattata con successo, ma che non può essere trascurata, come si tendeva a fare, quale problema marginale che si risolve con l’età: al bivio dell’adolescenza, infatti, il 50% dei casi vengono risolti dalla naturale maturazione cerebrale, ma nella restante metà permangono atteggiamenti oppositivo-provocatori destinati a tradursi in disturbi della condotta e disagi dell’adattamento sociale, come personalità devianti, che trovano rifugio nell’abuso di sostanze e sono a rischio di depressione. «Per questo è essenziale intervenire per tempo - ha detto Astrid Gollner, mamma che ha conosciuto da vicino il problema con il proprio figlio -. Tutti gli insegnanti dovrebbero avere le conoscenze e gli strumenti per cogliere il problema. Cosa che oggi, purtroppo, non accade».
bulimia e anoressia nel Lazio
Il Messaggero Sabato 28 Maggio 2005
Nel Lazio 30.000 colpiti da bulimia e anoressia
Trentamila giovani nel Lazio, di età compresa tra i 12 e i 25 anni, soffrono di disturbi del comportamento alimentare. Si tratta di patologie come anoressia nervosa, bulimia nervosa, disturbo da alimentazione incontrollata e disturbi del comportamento alimentare. Di questi circa 2.200 (il 24% del totale) soffre di bulimia nervosa e 7.300 (7,5%) di anoressia nervosa.
Nel Lazio 30.000 colpiti da bulimia e anoressia
Trentamila giovani nel Lazio, di età compresa tra i 12 e i 25 anni, soffrono di disturbi del comportamento alimentare. Si tratta di patologie come anoressia nervosa, bulimia nervosa, disturbo da alimentazione incontrollata e disturbi del comportamento alimentare. Di questi circa 2.200 (il 24% del totale) soffre di bulimia nervosa e 7.300 (7,5%) di anoressia nervosa.
il voto in Francia e l'Europa
Aprile on line 28.5.05
Il Trattato europeo è nelle mani della Francia. E intanto l'urna di ''aprileonline'' ci dice...
Europa. Fiato sospeso per il referendum che divide destra e sinistra dando in vantaggio il ''no''. Anche in Italia le opinioni sono controverse: lo dimostra il nostro sondaggio
A. G.
Quale sarà il risultato del referendum francese sul Trattato di Costituzione europea? Per molte settimane i sondaggi hanno dato in testa il "no", poi hanno dato in risalita il "sì". Poi ancora è ritornato il "no" a primeggiare, anche se la fascia degli indecisi – coloro che decideranno poco prima di recarsi ai seggi nella giornata di domenica – è molto alta e sarà sicuramente decisiva.
Sono scesi in campo tutti i leader francesi. Il presidente Chirac ha provato a far pesare la sua autorità. E' tornato a tenere comizi perfino l'ex premier socialista Jospin, andato in pensione dopo la sua sconfitta alle presidenziali, che in caso di vittoria dei "sì" potrebbe essere tentato di riprovare la scalata all'Eliseo. Ma "sì" e "no" sono tutti trasversali. A sinistra pesano le divisioni dei socialisti: l'ex primo ministro Fabius è per il "no", il neo segretario del partito Hollande la pensa all'opposto. A destra, Le Pen è ovviamente per il "no" ma chiracchiani e seguaci dell'ex presidente Giscard d'Estaing la pensano in modo contrario. A sinistra, i comunisti dell'inossidabile Pcf e la miriade di gruppi della nuova sinistra – trotzkista o no – sono tutti schierati per il "no". Insomma, prevedere cosa accadrà il 29 maggio a Parigi assomiglia a un rompicapo o al gioco del lotto.
Come "aprileonline", abbiamo provato a tastare gli umori dei nostri lettori pubblicando un questionario molto semplice ma articolato in varie opzioni. Ringraziamo gli oltre 750 lettori che hanno voluto farci sapere come la pensano. Il risultato, con il 42 per cento, fa vincere l'opinione di chi voterebbe "no" perché auspica una Costituzione migliore (solo il 5 per cento è decisamente contraria a qualsiasi idea di unità politica dell'Europa).
Il 26 per cento sceglie un "sì" convinto. Il 27 per cento, invece, voterebbe "sì" perché si rende conto che se in Francia vincessero i "no" sarebbe a rischio l'intera impalcatura politica dell'Europa. La somma di questi due "sì" dà un 53 per cento, quindi la maggioranza di coloro che hanno partecipato al nostro sondaggio. Non bisogna però dimenticare che sono due "sì" con motivazioni diverse e quindi sarebbe consolatorio sommarli.
E' quel 42 per cento che vorrebbe un Trattato di Costituzione migliore che deve farci riflettere. Non ce la possiamo cavare dicendo che l'eventuale vittoria dei "no" a Parigi avrebbe l'effetto di una brusca frenata su tutti i processi di integrazione europea, proprio ora che l'Europa ha deciso di allargarsi a molti paesi dell'Est e finanche alla Turchia. Sventolare il male minore non sempre produce l'effetto voluto, e soprattutto non convince.
Il problema è che in Italia c'è un deficit di confronto sul destino dell'Europa. Da noi, il Trattato è stato ratificato da Camera e Senato pressoché in sordina. Le stesse elezioni europee di un anno fa non sono servite a far discutere sul serio sui problemi del vecchio continente (come sempre, a casa nostra, ha prevalso la politica nazionale). E' questo il grande tema a cui ci dovremmo applicare: come fare informazione e dibattito intorno alla questione cruciale dell'Europa politica nel contesto del mondo globalizzato e dell'unipolarismo dettato dagli Stati Uniti, non solo sugli scenari delle guerre in Iraq e Afghanistan.
Il Trattato su cui ora pende il referendum francese come fosse una ghigliottina di cui sono esperti i parigini da due secoli a questa parte, ma altri ce ne saranno in altri paesi dell'Unione (la Spagna ha già votato "sì", l'Olanda si appresta a votare "no"), è indubbiamente farraginoso, complesso, poco attento ai diritti sociali e di cittadinanza anche se ha un'ispirazione laica e in qualche articolo progressista. Il Trattato è indubbiamente frutto di una mediazione logorante (l'iter di discussione è stato lunghissimo). Ed è anche vero che se quello stesso Trattato venisse buttato nel cestino sarebbe difficile ritrovare un cammino unitario, e comunque i tempi di un salto di qualità dell'idea di un'Europa politicamente più unita si allungherebbero all'infinito. Insomma, è molto difficile orientarsi in questo labirinto di pro e contro. Quello che è certo, è che l'Italia risulta il fanalino di coda di questa discussione anche perché abbiamo un governo poco europeista, anzi il meno europeista d'Europa dopo la bruciante sconfitta di Aznar in Spagna.
Ieri, su "Liberazione", Fausto Bertinotti ha scritto un impegnato articolo dal titolo "La Francia vota per tutti noi". Secondo il leader di Rifondazione, non è più solo "Sinistra europea" (la formazione transnazionale presieduta proprio da Bertinotti) a essere schierata per il "no": il fronte si è molto allargato, come dimostrerebbe la situazione francese. Di qui la riproposizione di una scelta nettamente contraria al Trattato di Costituzione europea per favorire un'altra idea di Europa, con al centro il rifiuto della guerra, la difesa dei diritti del lavoro, la piena occupazione e l'accoglienza solidale ai migranti.
Bertinotti non ci ha convinto del tutto, come non ci convincono del tutto i tanti entusiasti del Trattato che abitano nei Ds. Il destino dell'Europa è intanto nelle mani della Francia. A noi italiani non è concesso il lusso di poterci esprimere, perché – ma le opinioni sono controverse – le nostre normative in materia referendaria impediscono referendum su materie internazionali. Un handicap che si aggiunge agli altri e che certo non ci aiuta a conquistare l'opinione pubblica tricolore ai colori della bandiera europea.
Il Trattato europeo è nelle mani della Francia. E intanto l'urna di ''aprileonline'' ci dice...
Europa. Fiato sospeso per il referendum che divide destra e sinistra dando in vantaggio il ''no''. Anche in Italia le opinioni sono controverse: lo dimostra il nostro sondaggio
A. G.
Quale sarà il risultato del referendum francese sul Trattato di Costituzione europea? Per molte settimane i sondaggi hanno dato in testa il "no", poi hanno dato in risalita il "sì". Poi ancora è ritornato il "no" a primeggiare, anche se la fascia degli indecisi – coloro che decideranno poco prima di recarsi ai seggi nella giornata di domenica – è molto alta e sarà sicuramente decisiva.
Sono scesi in campo tutti i leader francesi. Il presidente Chirac ha provato a far pesare la sua autorità. E' tornato a tenere comizi perfino l'ex premier socialista Jospin, andato in pensione dopo la sua sconfitta alle presidenziali, che in caso di vittoria dei "sì" potrebbe essere tentato di riprovare la scalata all'Eliseo. Ma "sì" e "no" sono tutti trasversali. A sinistra pesano le divisioni dei socialisti: l'ex primo ministro Fabius è per il "no", il neo segretario del partito Hollande la pensa all'opposto. A destra, Le Pen è ovviamente per il "no" ma chiracchiani e seguaci dell'ex presidente Giscard d'Estaing la pensano in modo contrario. A sinistra, i comunisti dell'inossidabile Pcf e la miriade di gruppi della nuova sinistra – trotzkista o no – sono tutti schierati per il "no". Insomma, prevedere cosa accadrà il 29 maggio a Parigi assomiglia a un rompicapo o al gioco del lotto.
Come "aprileonline", abbiamo provato a tastare gli umori dei nostri lettori pubblicando un questionario molto semplice ma articolato in varie opzioni. Ringraziamo gli oltre 750 lettori che hanno voluto farci sapere come la pensano. Il risultato, con il 42 per cento, fa vincere l'opinione di chi voterebbe "no" perché auspica una Costituzione migliore (solo il 5 per cento è decisamente contraria a qualsiasi idea di unità politica dell'Europa).
Il 26 per cento sceglie un "sì" convinto. Il 27 per cento, invece, voterebbe "sì" perché si rende conto che se in Francia vincessero i "no" sarebbe a rischio l'intera impalcatura politica dell'Europa. La somma di questi due "sì" dà un 53 per cento, quindi la maggioranza di coloro che hanno partecipato al nostro sondaggio. Non bisogna però dimenticare che sono due "sì" con motivazioni diverse e quindi sarebbe consolatorio sommarli.
E' quel 42 per cento che vorrebbe un Trattato di Costituzione migliore che deve farci riflettere. Non ce la possiamo cavare dicendo che l'eventuale vittoria dei "no" a Parigi avrebbe l'effetto di una brusca frenata su tutti i processi di integrazione europea, proprio ora che l'Europa ha deciso di allargarsi a molti paesi dell'Est e finanche alla Turchia. Sventolare il male minore non sempre produce l'effetto voluto, e soprattutto non convince.
Il problema è che in Italia c'è un deficit di confronto sul destino dell'Europa. Da noi, il Trattato è stato ratificato da Camera e Senato pressoché in sordina. Le stesse elezioni europee di un anno fa non sono servite a far discutere sul serio sui problemi del vecchio continente (come sempre, a casa nostra, ha prevalso la politica nazionale). E' questo il grande tema a cui ci dovremmo applicare: come fare informazione e dibattito intorno alla questione cruciale dell'Europa politica nel contesto del mondo globalizzato e dell'unipolarismo dettato dagli Stati Uniti, non solo sugli scenari delle guerre in Iraq e Afghanistan.
Il Trattato su cui ora pende il referendum francese come fosse una ghigliottina di cui sono esperti i parigini da due secoli a questa parte, ma altri ce ne saranno in altri paesi dell'Unione (la Spagna ha già votato "sì", l'Olanda si appresta a votare "no"), è indubbiamente farraginoso, complesso, poco attento ai diritti sociali e di cittadinanza anche se ha un'ispirazione laica e in qualche articolo progressista. Il Trattato è indubbiamente frutto di una mediazione logorante (l'iter di discussione è stato lunghissimo). Ed è anche vero che se quello stesso Trattato venisse buttato nel cestino sarebbe difficile ritrovare un cammino unitario, e comunque i tempi di un salto di qualità dell'idea di un'Europa politicamente più unita si allungherebbero all'infinito. Insomma, è molto difficile orientarsi in questo labirinto di pro e contro. Quello che è certo, è che l'Italia risulta il fanalino di coda di questa discussione anche perché abbiamo un governo poco europeista, anzi il meno europeista d'Europa dopo la bruciante sconfitta di Aznar in Spagna.
Ieri, su "Liberazione", Fausto Bertinotti ha scritto un impegnato articolo dal titolo "La Francia vota per tutti noi". Secondo il leader di Rifondazione, non è più solo "Sinistra europea" (la formazione transnazionale presieduta proprio da Bertinotti) a essere schierata per il "no": il fronte si è molto allargato, come dimostrerebbe la situazione francese. Di qui la riproposizione di una scelta nettamente contraria al Trattato di Costituzione europea per favorire un'altra idea di Europa, con al centro il rifiuto della guerra, la difesa dei diritti del lavoro, la piena occupazione e l'accoglienza solidale ai migranti.
Bertinotti non ci ha convinto del tutto, come non ci convincono del tutto i tanti entusiasti del Trattato che abitano nei Ds. Il destino dell'Europa è intanto nelle mani della Francia. A noi italiani non è concesso il lusso di poterci esprimere, perché – ma le opinioni sono controverse – le nostre normative in materia referendaria impediscono referendum su materie internazionali. Un handicap che si aggiunge agli altri e che certo non ci aiuta a conquistare l'opinione pubblica tricolore ai colori della bandiera europea.
La Stampa Tuttolibri 28.5.05
Squillano i telefonini, tace la ricerca: l’Italia della scienza negata
Ermanno Bencivenga
ENRICO Bellone è uno storico della scienza. Uno di quelli, è importante aggiungere, che sanno di scienza quanto di storia; ed è anche una persona profondamente preoccupata del destino culturale dell'Italia. Trent'anni fa, ricorda in apertura e in chiusura del suo La scienza negata, Giuliano Toraldo Di Francia definì il nostro un Paese in via di sottosviluppo; e da allora la situazione è molto peggiorata. Siamo terzi al mondo per la diffusione dei telefoni cellulari ma quarantacinquesimi per capacità di innovazione (preceduti dalla Tunisia e dalla Giordania) e quarantottesimi per interventi pubblici in imprese coinvolte nella ricerca (stime fornite dal World Economic Forum). «Siamo così giunti al bivio», conclude Bellone: «O investiamo risorse finanziarie e umane nella ricerca di base, oppure ci trasformiamo in una appendice turistica del mondo civile». In certa misura, il problema è politico, e Bellone dedica la prima (ahimè, troppo corta) parte del libro a spiegare come governi d'ogni risma, per almeno un secolo, abbiano costantemente mortificato le aspettative di scienziati e ricercatori e anzi tentato di screditarli. Tipica la situazione degli Anni Sessanta del Novecento, con i poteri occulti di destra impegnati a «frenare quelle modernizzazioni del Paese che erano in contrasto con ben precisi interessi economici sui fronti dell'energia e dei farmaci» e legati da una «strana alleanza» con i «punti di vista che, da sinistra, raffiguravano le università come strumenti ideologici della borghesia e gli enti di ricerca come strumenti del dominio tecnologico del capitale». C'è anche, però, un aspetto intellettuale della questione - se poi «intellettuale» è il termine giusto in questo caso. Ci sono, e ci sono stati per decenni, in Italia chiacchieroni dall'aria intensa e ispirata che di scienza sanno pochino ma in compenso ne parlano a ogni piè sospinto, di solito per stigmatizzarne la disumanità, la denaturalizzazione, la crudeltà e per metterci in guardia contro i pericoli connessi a questa sciagurata attività. E, quando gli indigeni non bastano, ci facciamo in quattro per importare autorevoli giudizi dall'estero; ecco allora, per esempio, il sociologo Edgar Morin informarci che «la razionalizzazione astratta e unidimensionale» genera «catastrofi umane» e «catastrofi naturali», che si tratta di «un'intelligenza nello stesso tempo miope, presbite, daltonica, monocola, che finisce il più delle volte per essere cieca». Che fare con personaggi del genere? Scrollare le spalle sembra un atteggiamento irresponsabile: si tratta di autori che hanno un grande seguito, che straparlano davanti a folle oceaniche, che opinionano su giornali e riviste di alta tiratura, che sembrano offrire un'ancora di salvezza a un pubblico desolato dall'idiozia dominante. Come non dire a questo pubblico che spesso l'ancora gli viene appesa al collo e lo trascina a fondo? E, d'altra parte, a che pro argomentare con cogenza e precisione contro l'assurdo? Che cosa si può rispondere a Galimberti quando afferma che l'età della tecnica mette a nudo ciò che è nascosto in ogni operazione razionale: la tensione mirata a eliminare l'ignoto, «fonte originaria dell'angoscia»? O a Severino quando osserva sagace che «la previsione scientifica riesce a dominare realmente il divenire, al di fuori del sortilegio in cui l'immutabile dissolve il divenire»? O a Gargani quando critica «l'atteggiamento razioide, che è proprio della ragione sobria, economica, angusta e un po' codarda che è interessata soprattutto alla verifica, al controllo ripetitivo e inesorabile della verità e delle conoscenze»? Da che parte si comincia a controbattere «tesi» del genere? Bellone è esterrefatto, e non trova soluzione migliore che elencare una lunga serie di simili perle accompagnate da commenti sarcastici. In questa seconda parte, il suo libro ricorda i florilegi composti da alcuni insegnanti, che un po' sadicamente annotano le più sublimi scemenze prodotte dai loro allievi. È però, purtroppo, una soluzione insoddisfacente - e dico «purtroppo» in tutta onestà, perché sottoscrivo fino in fondo lo sdegno di Bellone, perché ritengo di essere dalla sua stessa parte. La soluzione è insoddisfacente per due motivi. Primo, cade facilmente nel qualunquismo. Di scemenze ne dicono tutti, anche i migliori; ma c'è una bella differenza tra Husserl e Galimberti, o tra Marcuse e Di Trocchio. Da un lato ci sono profondi ingegni che presentano conclusioni magari controverse ma fondate su una visione coerente del mondo; dall'altro ci sono appunto dei chiacchieroni. E il peggio che potrebbe capitare è che questi ultimi chiudano un libro così sentendosi tutti dei Marcuse o degli Husserl. Secondo, il sarcasmo è a ben vedere il riconoscimento di una sconfitta: avendo deciso che il convento non passa di meglio, non ci resta che farci quattro risate. Ma non bisogna considerarsi sconfitti; bisogna continuare testardamente a lottare per dare un'immagine alternativa e in positivo della scienza. La domanda chiave si ripropone, dunque: che fare? Non ho ricette o bacchette magiche; posso solo raccomandare l'ovvio. Cioè una seria e chiara opera di comunicazione scientifica, aperta e franca nei confronti dei rischi della ricerca tanto quanto informativa delle sue promesse e dei suoi vantaggi, attenta nel valutare priorità e nell'identificare possibili condizionamenti, e insieme affascinante come solo sa essere lo studio dei segreti dell'universo. Non è facile, ma quando riusciamo a spiegare bene la relatività generale o la fisiologia del cervello, la struttura di un nucleo o l'ultimo teorema di Fermat, nessuno che ci abbia seguiti saprà più che farsene dei chiacchieroni.
Squillano i telefonini, tace la ricerca: l’Italia della scienza negata
Ermanno Bencivenga
ENRICO Bellone è uno storico della scienza. Uno di quelli, è importante aggiungere, che sanno di scienza quanto di storia; ed è anche una persona profondamente preoccupata del destino culturale dell'Italia. Trent'anni fa, ricorda in apertura e in chiusura del suo La scienza negata, Giuliano Toraldo Di Francia definì il nostro un Paese in via di sottosviluppo; e da allora la situazione è molto peggiorata. Siamo terzi al mondo per la diffusione dei telefoni cellulari ma quarantacinquesimi per capacità di innovazione (preceduti dalla Tunisia e dalla Giordania) e quarantottesimi per interventi pubblici in imprese coinvolte nella ricerca (stime fornite dal World Economic Forum). «Siamo così giunti al bivio», conclude Bellone: «O investiamo risorse finanziarie e umane nella ricerca di base, oppure ci trasformiamo in una appendice turistica del mondo civile». In certa misura, il problema è politico, e Bellone dedica la prima (ahimè, troppo corta) parte del libro a spiegare come governi d'ogni risma, per almeno un secolo, abbiano costantemente mortificato le aspettative di scienziati e ricercatori e anzi tentato di screditarli. Tipica la situazione degli Anni Sessanta del Novecento, con i poteri occulti di destra impegnati a «frenare quelle modernizzazioni del Paese che erano in contrasto con ben precisi interessi economici sui fronti dell'energia e dei farmaci» e legati da una «strana alleanza» con i «punti di vista che, da sinistra, raffiguravano le università come strumenti ideologici della borghesia e gli enti di ricerca come strumenti del dominio tecnologico del capitale». C'è anche, però, un aspetto intellettuale della questione - se poi «intellettuale» è il termine giusto in questo caso. Ci sono, e ci sono stati per decenni, in Italia chiacchieroni dall'aria intensa e ispirata che di scienza sanno pochino ma in compenso ne parlano a ogni piè sospinto, di solito per stigmatizzarne la disumanità, la denaturalizzazione, la crudeltà e per metterci in guardia contro i pericoli connessi a questa sciagurata attività. E, quando gli indigeni non bastano, ci facciamo in quattro per importare autorevoli giudizi dall'estero; ecco allora, per esempio, il sociologo Edgar Morin informarci che «la razionalizzazione astratta e unidimensionale» genera «catastrofi umane» e «catastrofi naturali», che si tratta di «un'intelligenza nello stesso tempo miope, presbite, daltonica, monocola, che finisce il più delle volte per essere cieca». Che fare con personaggi del genere? Scrollare le spalle sembra un atteggiamento irresponsabile: si tratta di autori che hanno un grande seguito, che straparlano davanti a folle oceaniche, che opinionano su giornali e riviste di alta tiratura, che sembrano offrire un'ancora di salvezza a un pubblico desolato dall'idiozia dominante. Come non dire a questo pubblico che spesso l'ancora gli viene appesa al collo e lo trascina a fondo? E, d'altra parte, a che pro argomentare con cogenza e precisione contro l'assurdo? Che cosa si può rispondere a Galimberti quando afferma che l'età della tecnica mette a nudo ciò che è nascosto in ogni operazione razionale: la tensione mirata a eliminare l'ignoto, «fonte originaria dell'angoscia»? O a Severino quando osserva sagace che «la previsione scientifica riesce a dominare realmente il divenire, al di fuori del sortilegio in cui l'immutabile dissolve il divenire»? O a Gargani quando critica «l'atteggiamento razioide, che è proprio della ragione sobria, economica, angusta e un po' codarda che è interessata soprattutto alla verifica, al controllo ripetitivo e inesorabile della verità e delle conoscenze»? Da che parte si comincia a controbattere «tesi» del genere? Bellone è esterrefatto, e non trova soluzione migliore che elencare una lunga serie di simili perle accompagnate da commenti sarcastici. In questa seconda parte, il suo libro ricorda i florilegi composti da alcuni insegnanti, che un po' sadicamente annotano le più sublimi scemenze prodotte dai loro allievi. È però, purtroppo, una soluzione insoddisfacente - e dico «purtroppo» in tutta onestà, perché sottoscrivo fino in fondo lo sdegno di Bellone, perché ritengo di essere dalla sua stessa parte. La soluzione è insoddisfacente per due motivi. Primo, cade facilmente nel qualunquismo. Di scemenze ne dicono tutti, anche i migliori; ma c'è una bella differenza tra Husserl e Galimberti, o tra Marcuse e Di Trocchio. Da un lato ci sono profondi ingegni che presentano conclusioni magari controverse ma fondate su una visione coerente del mondo; dall'altro ci sono appunto dei chiacchieroni. E il peggio che potrebbe capitare è che questi ultimi chiudano un libro così sentendosi tutti dei Marcuse o degli Husserl. Secondo, il sarcasmo è a ben vedere il riconoscimento di una sconfitta: avendo deciso che il convento non passa di meglio, non ci resta che farci quattro risate. Ma non bisogna considerarsi sconfitti; bisogna continuare testardamente a lottare per dare un'immagine alternativa e in positivo della scienza. La domanda chiave si ripropone, dunque: che fare? Non ho ricette o bacchette magiche; posso solo raccomandare l'ovvio. Cioè una seria e chiara opera di comunicazione scientifica, aperta e franca nei confronti dei rischi della ricerca tanto quanto informativa delle sue promesse e dei suoi vantaggi, attenta nel valutare priorità e nell'identificare possibili condizionamenti, e insieme affascinante come solo sa essere lo studio dei segreti dell'universo. Non è facile, ma quando riusciamo a spiegare bene la relatività generale o la fisiologia del cervello, la struttura di un nucleo o l'ultimo teorema di Fermat, nessuno che ci abbia seguiti saprà più che farsene dei chiacchieroni.
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