lunedì 23 maggio 2005

Biennale di Venezia
da "Avvenimenti" in edicola: L'arte degli stracci

Avvenimenti n 20 dal 20 al 26 maggio
L’ARTE DEGLI STRACCI
di Simona Maggiorelli

Solo una manciata di artisti italiani alla prossima biennale di Venezia che sarà inaugurata il 12 giugno. Appena cinque o sei. Qualcuno ha gridato allo scandalo. Qualcun altro vi ha visto il segno tangibile di una crisi creativa che l’arte in Italia starebbe attraversando.
“Artisti italiani di grande e anche grandissimo livello ci sono e ci sono stati in passato in Italia - assicura Daniel Soutif, direttore del Museo Pecci di Prato -. E ciò che si percepisce oggi delle giovani generazioni, lascia pensare che artisti di valore ci saranno in futuro”.
Per lunghi anni critico di Libération ex dirigente del Centre Pompidou, Soutif, a sorpresa, non è affatto catastrofico.
“Un momento alto della creatività , fu all’inizio degli anni ’60, con la generazione dell’arte povera. Tra alti e bassi, con difficoltà di riconoscimento degli artisti, anche dei più grandi, da parte dell’Italia stessa. Ma non è un segreto che la generazione dell’arte povera sia stata una generazione molto felice: per la qualità degli artisti e per la capacità dei critici che hanno portato alla ribalta questo gruppo che, a guardar bene, era molto informale, senza nessuna definizione rigida, di carattere ideologico. Purtroppo non tutti sono ancora vivi, e quelli che sono scomparsi, da Pascali o Boetti, a Merz, hanno lasciato una traccia profondissima.
Si può parlare dell’arte povera solo al passato?
No, in alcuni casi è una realtà viva ancora oggi. Sono rimasto molto colpito dalla qualità formale e dall’intelligenza del recente intervento di Luciano Fabro in piazza del Plebiscito a Napoli. E aggiungerei che negli ultimi cinque o sei anni stanno emergendo artisti davvero significativi, che ne hanno raccolto i semi, quarantenni come Grazia Toderi, Massimo Bartolini e Luca Vitone solo per fare qualche nome. Una generazione incalzata, già da artisti trentenni.
Che profilo hanno questi nuovi artisti?
Intanto sono artisti che si presentano come singoli. Non c’è più un momento di aggregazione forte. Non c’è l’idea del gruppo come qualcosa di organico, strutturato. Un’idea che forse, del resto, non esisteva più nemmeno ai tempi della transavanguardia, che rappresentò , per altro, un ritorno a una base linguistica abbastanza stretta. Oggi ci sono singoli individui. Una ventina di nomi che circolano: Letizia Cariello, Alessandra Tesi, Eva Marisaldi, Paola Pivi, Flavio Favelli e altri ancora. Nessuno di loro ha un linguaggio chiuso, possono fare video, installazioni, possono dipingere. A Firenze ci sono artisti interessanti come Daniela De Lorenzo, Vittorio Corsini e Paolo Parisi, che da poco tempo sto seguendo da vicino. Lui non si vieta di fare un dipinto o istallazioni con cassette di cartone, sorta di cubi abitabili. Lo fa con la sua poetica, molto particolare. Al fondo del loro lavoro di tutti loro trovo una profonda serietà. Insieme a una grande poliedricità.
E se dovesse fare un paragone con il suo paese, la Francia?
Direi che sul piano creativo, spesso, l’Italia ha offerto di più. Con l’arte povera e in maniera un po’ più discutibile con la transavanguardia. Se penso alla Francia mi vengono in mente artisti già affermati come Daniel Buren e Bertrand Lavier. Ma restano nomi isolati. Non ci sono stati momenti di gruppo paragonabili a quelli italiani. La differenza è che la Francia ha investito molto di più dell’Italia sul piano istituzionale per l’arte contemporanea e la sua promozione.
E quanto pesa questo nel fare arte?
Gli artisti italiani si muovono in un contesto molto problematico. Da un lato c’è un collezionismo diffuso - nel bene e nel male, perché non tutte le scelte dei collezionisti sono sempre illuminate -, dall’altro lato c’è il fatto più drammatico: il vuoto istituzionale. Mi riferisco a un compito che le istituzioni dovrebbero avere. Di storicizzare un patrimonio e dare delle linee di lettura per il pubblico. Aspetti che mancano del tutto qui e che fanno sì che per gli artisti italiani la vita non sia affatto facile. Gli artisti hanno bisogno di un riscontro, di un sostegno, di un dialogo istituzionale. Basta pensare ai tedeschi, oggi sono in una posizione di visibilità internazionale, anche materiale, molto forte perché c’è un sistema dietro alle loro carriere. Un sistema che sostiene la produzione artistica. In proporzione minore è quello che accade anche in Francia.
In Italia solo vuoto istituzionale assoluto?
E’ il problema di fondo, anche se poi il panorama si presenta più sfumato. C’è il Castello di Rivoli, c’è il Mart di Rovereto, ci siamo noi a Prato, c’è il Macro di Roma. Ma sono tutte istituzioni ancora molto giovani, con storie brevi se confrontate a quelle di altre istituzioni internazionali.
In Italia si preferisce spendere molti milioni per delle mostre dal valore discutibile, che danno lustro momentaneo, piuttosto che investire in collezioni pubbliche permanenti che restano poi come patrimonio di una comunità. E’ un fatto che non riguarda solo l’arte contemporanea. E’ un segno di mancanza di maturità del sistema italiano.
Salvatore Settis ha spesso elogiato la qualità del sistema di tutela italiano, denunciando la sua progressiva dismissione a partire dagli anni 80. Cosa ne pensa?
Credo che abbia perfettamente ragione e che la questione non riguardi solo l’arte antica, di cui di solito Settis parla, ma anche l’arte contemporanea. Se non c’è uno Stato in grado di riconoscere il patrimonio, di custodirlo, di valorizzarlo, di farlo conoscere, si piomba, come succede oggi in Italia, in una situazione tragica. Faccio un esempio, molto concreto, in Toscana c’è un patrimonio artistico contemporaneo importante che riguarda la neo avanguardia degli inizi degli anni 60, l’architettura radicale, la poesia visiva, gli artisti di Fluxus per la musica.
Tutto questo patrimonio che fine fa?
Una parte è ancora qui, ma il resto è diventata francese. I pezzi più importanti dell’architettura radicale sono già in Francia e là museificati. E’ assurdo.
E’ come se in Italia ancora non fosse maturata un’idea che l’arte contemporanea sia, al pari di quella antica, patrimonio identitario per il paese?
C’è stato un assessore milanese che in tv ha detto che non va conservato niente oltre l’età di Picasso. Mi pare emblematico, del tutto incurante della comunità scientifica, di ciò che accade al Moma, al Centre Pompidou alla Tate Modern e altrove, che invece riescono a coinvolgere i politici nei loro progetti di ampliamento. Io non sono italiano, ma spesso reagisco come lo fossi, mi sento ferito da certe cose.
E allora come valuta la svendita del patrimonio italiano attraverso la Patrimonio spa?
Sulla politica istituzionale degli ultimi anni davvero mi sento del tutto d’accordo con quanto ha denunciato Salvatore Settis. Putroppo, però, mi sembra una voce abbastanza isolata. Che, invece. andrebbe ascoltata seriamente.
E il nuovo ministro dei beni culturali Rocco Buttiglione?
E’ancora troppo presto per dare un giudizio. Quello che posso dire adesso è che, al di là delle posizioni politiche, mi sembra un ministro un po’ aspecifico. In Francia ci sono stati ministri prestigiosi che venivano specificatamente dal mondo della cultura, basta pensare a Jack Lang. E più recentemente si può anche fare il nome di un ministro di destra come Jean-Jacques Aillagon, che era stato presidente del Centre Pompidou.
Al di là delle scelte di campo politico, lei crede che una gestione privatistica dei musei italiani potrebbe essere la risposta?
Quello che ci insegna il mondo delle grandi istituzioni culturali internazionali è che il mondo della cultura, delle istituzioni culturali non va considerato sotto un angolo manageriale. Non esistono istituzioni culturali che portino profitti e ricavi. Non esistono, né il Moma, né il Centre Pompidou, né altre realtà culturali di questo genere fanno profitti. La loro realtà è di natura educativa. E il loro indotto è di tutt’altra natura, porta dei vantaggi enormi sul piano culturale, che alla fine sono anche economici. Per parlare di una realtà che conosco: il Centre Pompidou genera un po’ meno del 25 per cento del suo bilancio, che è già una cifra enorme, molto cresciuta, del resto, rispetto ai suoi inizi, Ma non c’è l’illusione che questa istituzione possa fare profitti
Un modello quindi,illusorio quello di fare cassa da parte dello Stato attraverso una gestione privatistica del patrimonio d’arte?
Tanto più in Italia, Dove non c’è concentrazione in museo localizzato come in Francia, ma un patrimonio diffuso sul territorio. Una realtà enormemente integrata al resto del territorio e che il progressivo smantellamento delle soprintendenze in Italia sta gravemente mettendo in crisi.