alle origini del Logos occidentale
L'Unità 21 Novembre 2004
Il papiro che spiega il mondo
Di Franco Farinelli
L'Unità 21 Novembre 2004
Il papiro che spiega il mondo
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Qaw el - Kebir, l’antica Anteopoli, si trova lungo il Nilo al confine tra l’alto e medio Egitto, proprio dove il maestoso fiume decide di allargare il suo corso per dar luogo alla massima inflessione verso occidente. Di qui proviene, presumibilmente, lo straordinario papiro depositato un mese fa dalla fondazione San Paolo presso il museo Egizio di Torino e noto come il papiro di Artemidoro, dal nome di un geografo di cui all’inizio dell’era volgare si era servito Strabone, ricavandone l’idea che geografia e filosofia sono inseparabili. Il papiro, lungo oltre due metri e mezzo, contiene non soltanto una parte del perduto testo di Artemidoro, ma anche, a sua illustrazione, una rappresentazione cartografica - una mappa - di quella che noi chiamiamo penisola iberica, e poi disegni di animali più o meno fantastici, copie di statue e di ritratti, profili di figure umane: nel complesso la testimonianza senza eguali della successiva attività delle officine e botteghe artistiche (magari di una sola di esse) d’epoca tardo ellenistica, una sorta di taccuino di lavoro che l’analisi paleografica certifica disegnato a più riprese tra il 50 a.C. e il primo secolo successivo. Trasformato alla fine in cartapesta, esso finì col servire da maschera funeraria, e soltanto dopo averla smontata si è adesso riusciti a ripristinare la forma originaria del rotulo. Ha scritto Edgar Morin che tutto quel che accade è sempre qualcosa di improbabile che però in un dato momento e in un dato luogo si muta in qualcosa di necessario. Sicché la domanda diventa: che cosa stabilisce un legame di necessità tra la funzione originaria del papiro di Artemidoro, nato come un’opera geografica e cartografica, e la sua destinazione finale, apparentemente così strana e casuale? Prepariamoci ad un largo giro, proprio come quello che il Nilo inizia a Qaw el-Kebir.
Un mito racconta l’origine del silenzio, gli orfici erano quelli che l’avevano più a cuore. Narra la storia che Dioniso, il fanciullo divino, venne sorpreso dai Titani mentre giocava, e fatto a pezzi. Il racconto poi continua, ma qui il seguito non importa: anche se appena all’inizio, esso è già fin troppo complicato. L’assalto dei giganti coglie un attimo, quello dello stupore di Dioniso nel veder riflesso sullo specchio con cui si trastulla non il suo volto ma la faccia della Terra. Bisogna però sapere che approfittando del suo sonno, i Titani avevano in precedenza cosparso di gesso il volto del dio. Se l’avessero ammazzato subito mentre dormiva dell’origine del silenzio non sapremmo nulla. Proprio perché invece essi non lo fanno ne sappiamo qualcosa, a segno che il senso della storia non riguarda la clamorosa (e provvisoria) morte di Dioniso ma la tacita nascita di un’altra cosa. Anche ammesso, come di solito si vuole, che la reazione di quest’ultimo all’inaspettata vista coincida con un moto di stupore, le condizioni di esercizio di quest’ultimo risultano indubitabilmente silenziose: che nella storia di questo silenzio non si parli significa soltanto che esso ha già iniziato a funzionare.
Ma di quale storia davvero si tratta? Nientemeno che della silenziosa origine del logos, del ragionamento. Sull’origine del logos la versione più seducente è quella dell’ultimo Borges, che racconta di come due uomini, incontrandosi in una piazza greca e dimentichi di miti e metafore, di preghiere e magie, scoprono che attraverso il dialogo possono arrivare ad una verità. La versione più sottile ed ambigua si deve invece a Giorgio Colli che distingue, a proposito di Talete, un ragionamento pubblico, un discorso, e un ragionamento interiore, ascetico, geometrico, appunto silenzioso insomma, il logos astratto. Dunque il logos si biforca, e lo stupore e il silenzio di Dioniso si situano proprio in corrispondenza di tale biforcazione. Il borbottio del fanciullo assorto nel gioco cessa all’improvviso quando, nel passare da un trastullo all’altro, egli prende in mano lo specchio e scorge non la sfera che si attende ma una superficie, non un tridimensionale globo ma una bidimensionale estensione. Il silenzio è così la reazione di chi per la prima volta scorge un viso, di chi scorge il primo viso, di chi per primo perciò riduce la testa ad un suo lato. Ora, anche per l’egiziano Tolomeo, che scrive in greco al tempo del massimo splendore dell’impero romano, la Terra è una testa, come si legge all’inizio della sua Geografia. E così come la sua Ottica è un inventario di trucchi visivi, così la sua Geografia è la spiegazione, in termini schematici e matematici, del silenzio di Dioniso: è l’illustrazione del procedimento per mezzo del quale è possibile sottrarre una dimensione al globo, ridurre la sfera al piano, come i moderni tradurranno. La geografia di Tolomeo è la razionalizzazione del silenzio dionisiaco, e insieme la spiegazione del suo significato e delle sue implicazioni, l’illustrazione così come delle sue conseguenze della sua gravità. Ma proprio da ciò deriva lo stupefatto ammutolimento di Dioniso: egli scorge allo specchio non la testa ma soltanto l’immagine di due sue dimensioni, dunque in definitiva la mappa di una sua parte. È di qui che nasce lo sbigottimento del dio, e la paralisi di tutti i suoi organi di senso ad eccezione della vista: il suo atteggiamento risulta mimetico rispetto a quello che egli vede, è la sua copia, ne assume il carattere rigido e statico, oltre che muto. Così il silenzio di Dioniso testimonia la nascita del rigore scientifico.
Quando si parla di rigore scientifico, ci si riferisce infatti proprio e soltanto alla rigidità del cadavere, che appunto sullo specchio di Dioniso si riflette per la prima volta. Ne facciamo quotidiana esperienza. Quando andiamo al cimitero a trovare i nostri morti, guardiamo la foto sulla tomba: mai ci viene in mente che quella foto sulla tomba non somigli al defunto. Mentre invece quando guardiamo altre foto, o meglio, quando guardiamo foto di qualcuno che non è ancora defunto, che non è ancora morto, noi diciamo spesso che non gli somiglia affatto o facciamo fatica a riconoscerlo. E allora la questione è: perché di fronte alla foto di un morto noi diciamo quasi sempre che proprio gli somiglia, che è proprio lui, che è addirittura «venuto bene»? Proprio perché noi sappiamo che, trattandosi di un morto, non c’è più contraddizione tra effigie fotografica e qualcosa dotato invece di vita, dunque irriducibile ad un insieme di segni; nella foto il morto invece è - finalmente - proprio lui appunto perché ad un insieme di segni, quelli che compongono il ritratto, corrisponde effettivamente un cadavere. La somiglianza di una foto, di un sistema così rigido come quello di un’immagine fotografica, dipende dal fatto che anche la persona cui la foto si riferisce ha finalmente adeguato il proprio essere al simulacro, ha assunto la forma del cadavere, la forma del segno, la rigidità: che è esattamente quella rigidità che ha fondato tutto ciò che noi chiamiamo scienza. Ed è qualcosa che i Greci sapevano molto bene. Per i Greci il massimo della diversità, dell’alterità possibile, coincideva con la testa di Medusa, che aveva lo straordinario potere di pietrificare chi la guardasse. Sotto tal riguardo Medusa è qualcosa che si comporta nei confronti degli uomini esattamente come gli uomini si comportano nei confronti di tutte le cose: è, per così dire, una cosa che rovescia sugli uomini il comportamento che gli uomini hanno normalmente, e che consiste nel tentativo di paralizzare tutto quel che si vede. Se vogliamo capire qualcosa, se vogliamo comprendere qualcosa del mondo, siamo costretti a farlo a pezzi, a irrigidirlo, letteralmente a pietrificarlo. L’arte di irrigidire la vita in un sistema di segni nasce con grande scandalo nel VII secolo a. C., con Anassimandro, quando la prima tavola geografica, la prima mappa, la prima rappresentazione geografica del mondo viene prodotta. Come dire che tutto il sapere occidentale è per natura geografico. E che è Tolomeo a svelarne il meccanismo fondamentale, che egli chiamava «modo di conoscenza» ma che i traduttori moderni chiameranno proiezione.
Se la Terra per Tolomeo è una testa, e il suo modo di descrizione è la geografia, la corografia è la descrizione di una parte della testa, come ad esempio l’occhio o l’orecchio: sono questo gli esempi che lo stesso Tolomeo sceglie. Egli intende con ciò indicare fin dall’inizio l’equivalenza funzionale tra testa e viso, tra globo e mappa, equivalenza di cui il suo manuale illustra la tecnica. E per Tolomeo la seconda sta al primo esattamente come i ritratti funebri della regione egiziana del Fayum, sostanzialmente analoghi alla maschera di cui il papiro di Artemidoro faceva parte, stanno al capo delle mummie cui sono sovrimposti. Non si ricorda più dove, in Egitto, Tolomeo fosse nato. Si sa soltanto che egli operò ad Alessandria tra il 127 e il 145 dopo Cristo, dunque al momento della piena e compiuta relazione tra le due culture, l’egiziana e la greco-romana, di cui tali celebri immagini funerarie sono espressione. E così come la cultura locale e quella dei dominatori non arrivarono mai a fondersi, ma soltanto a sovrapporsi, allo stesso modo la tavoletta dipinta, importata dai nuovi padroni, venne applicata sulla testa del cadavere imbalsamato secondo il costume locale: il rito funebre come metafora dello scontro-incontro tra civiltà, sorta di rappresentazione del suo esito, di materiale raffigurazione del loro rapporto. Per Jean-Cristophe Bailly i ritratti del Fayum sono volti che stanno sulla soglia, né di qua né di là, già nella morte e ancora nella vita, presentati come vivi alla morte. E questo è vero alla lettera: come le foto che stanno sulle nostre tombe essi erano realizzati quando il soggetto era ancora animato, mentre il modello era ancora vivente, e soltanto in seguito, a decesso avvenuto, venivano applicati sulla mummia. Di qui la loro natura di limite metafisico, nel «bilico fuori dal tempo che fonda tutti i tempi», come commenta Rocco Ronchi, per il quale essi possono essere eletti a paradigma della raffigurazione. E anche tale affermazione è da intendersi letteralmente, ma soltanto perché le figure di Fayum e le relative mummie costituiscono nel complesso il materiale paradigma della rappresentazione cartografica, dalla quale ogni altra raffigurazione dipende, nel senso che ne stabilisce a sua volta il paradigma. In tal modo il divino silenzio di Dioniso, improvviso e momentaneo, anticipa e prefigura quello eterno e fin troppo previsto di noi mortali, e allo stesso tempo ricapitola e definisce tutte le condizioni del nostro fragile e precario rapporto conoscitivo con il mondo. È lo stesso silenzio dei primi prospettici, che all’inizio del Quattrocento a Firenze riscoprono Tolomeo e danno con ciò inizio alla modernità, iniziando a tradurre il mondo in spazio: paralizzati come se fossero avvelenati dal curaro, spiegava Pavel Florenskji, ma anche evidentemente muti e stupiti dalla portentosa trasformazione. Il soggetto moderno nasce a Firenze sotto il Portico degli Innocenti del Brunelleschi, e non è l’Homo viator, il viaggiatore come fin qui ci hanno fatto credere, ma è invece un essere immobile, attonito e silenzioso, proprio come per un attimo Dioniso era stato. La modernità altro non è stata che l’imbalsamazione di quest’attimo. Come soltanto oggi possiamo iniziare a comprendere, perché soltanto oggi la mummia di quel silenzio è andata in pezzi. Esattamente allo stesso modo della maschera che ci ha restituito il papiro di Artemidoro perché la storia che qui finisce potesse essere raccontata.