VIOLENZA SUI MINORI
A che gioco giochiamo?
NATALIA GREGORINI*
Facciamo che tu prendi i cattivi ed io i buoni? Così il mucchio di soldatini viene diviso e schierato su due file contrapposte. Nell'ordinarli i due bambini si immergono completamente nel ruolo che hanno scelto e quando il combattimento ha inizio sanno perfettamente cosa fare. Il «cattivo» agita con furia distruttiva i suoi soldati e sorride: finalmente può dare sfogo alle sue fantasie più atroci, senza il timore di rimproveri o giudizi. Libero anche da quello sgradevole senso di colpa che tanto spesso lo affligge. Il «buono», dal canto suo, stringe con presa ferma e orgogliosa i suoi soldati che dentro di sé già chiama Eroi. Li vede come uomini valorosi e impavidi, paladini della giustizia e del bene comune, estranei a sentimenti di odio, rabbia, invidia e, men che meno, di egoismo. Questo vissuto di totale bontà lo fa sentire forte e intimamente migliore del suo avversario. Combattono. Finita la battaglia tutti i soldatini, buoni e cattivi, vengono raccolti e gettati alla rinfusa nel sacchetto. I bambini se ne vanno di corsa, soddisfatti del loro gioco e più tranquilli. Hanno preso un po' più di confidenza con le proprie parti, buone e cattive. E' più facile farlo conoscendole una alla volta. Arriva il giorno in cui il sacchetto dei soldatini viene lasciato da parte, riposto in soffitta. I bambini crescono ma l'uomo è per sua natura abitudinario e nostalgico. Ama tornare su terreni già conosciuti ed ha bisogno di farlo soprattutto quando si deve confrontare con eventi penosi che ne mettono in crisi l'equilibrio e che lo spaventano. E cosa c'è di più penoso e spaventoso di un bambino che invece di ricevere cure, amore e protezione dai propri genitori, viene da questi violato e maltrattato nel corpo e nella psiche? L'abuso all'infanzia, in tutte le sue forme (maltrattamento fisico e psicologico, abuso sessuale, violenza assistita e cure insufficienti o inadeguate) attiva in chi, direttamente o indirettamente, ne viene a conoscenza emozioni intense e per lo più penose: tristezza, disgusto, rabbia, impotenza, senso di colpa. Per molti può essere difficile accettare un tale stato di sofferenza e allora... corrono in soffitta, affannati tirano fuori i soldatini e senza esitazione scelgono: io prendo i buoni. Tornano a giocare come avevano fatto tanti anni prima, da bambini. La differenza è che ora si dimenticano che stanno giocando. Non fanno i buoni, sono i buoni e di conseguenza gli altri, gli abusanti, i cattivi. E li chiamano «mostri». Perchè rende meglio l'idea e aiuta a differenziare ancor più nettamente i due schieramenti. Fanno della loro convinzione di assoluta bontà la spada con cui dare la «caccia al mostro» e proteggere quelle fragilità proprie del loro «bambino interno». Ma il gioco non può durare a lungo.
Secondo la psicologia del profondo la mente umana si articola attraverso coppie di opposti (bene-male, amore-odio, potenza-impotenza) le cui polarità sono intimamente connesse anche se in genere solo una delle due prevale a livello manifesto, rimanendo l'altra nascosta in aree più buie e remote delle psiche, pronta però ad emergere qualora le circostanze lo permettano. Il prevalere di una polarità sull'altra dipende in larga misura dall'esperienze di cura e accudimento che si sono ricevute nel tempo, di quanto ci si è sentiti amati e protetti ovvero rifiutati e minacciati. Ci sono persone alle quali le esperienze di vita hanno impedito di scegliere. Le frustrazioni e le carenze subite, soprattutto dal punto di vista affettivo, hanno impedito loro di sviluppare adeguatamente le polarità dell'amore, della fiducia, della possibilità di potenza sul mondo, facendo prevalere l'odio per non essere stati amati, la sfiducia nella possibilità di essere capiti e protetti, l'impotenza rispetto alle violenze e ai soprusi subiti. E' come se queste persone avessero dovuto sempre prendere i cattivi, fino a identificarsi pienamente in questo ruolo, perdendo la consapevolezza dei propri aspetti buoni. E a fare il cattivo con il tempo ci si abitua: ci si costruisce sopra un'identità e una corazza che garantisce l'esistenza stessa, cancellando il ricordo dei dolori subiti. La bipolarità costitutiva dell'uomo in questi casi si sbilancia, polarizzandosi rigidamente su un aspetto e relegando nel buio della psiche quello opposto.
Questo meccanismo spesso impedisce di trasformare le esperienze di accudimento negative ricevute nell'infanzia, spingendo invece a perpetuarle, più o meno consapevolmente. La possibilità di bloccare la trasmissione da una generazione all'altra di modelli relazionali disfunzionali necessita dell'attivazione da parte di un elemento esterno della polarità rimasta inespressa. Se questo non accade, se viene a mancare l'opportunità di prendere i buoni, di vedere come ci si sente a fare i buoni, la scelta continua a essere obbligata. Tu fai il cattivo.
C'è un altro fatto. Chi nell'infanzia è stato «mal-trattato» rispetto ai bisogni fisici ed emotivi, crescendo può incontrare difficoltà nel prendersi cura del proprio corpo e delle proprie emozioni. La dimensione infantile sofferente, rimasta a lungo inascoltata dall'esterno continua ad esserlo anche dall'interno: può venire dimenticata, negata nei suoi aspetti di dolore, idealizzata o anche normalizzata al fine di garantire il proseguo dello sviluppo. Queste strategie difensive possono anche risultare funzionali a garantire un soddisfacente adattamento in ambito sociale e lavorativo ma penalizzano la piena realizzazione dell'individuo e, soprattutto, con facilità entrano in crisi con l'accesso alla genitorialità, quando cioè l'elemento dimenticato o negato dall'interno viene riattivato dall'esterno. Il «bambino reale», rappresentato dal figlio appena nato, va a risvegliare, con i suoi bisogni di cura, protezione e affetto, il «bambino interno» del genitore «cattivo», un bambino spesso sofferente e a lungo dimenticato. La difficoltà di contenere e gestire questa dimensione interna può interferire con la disponibilità del genitore a occuparsi in modo amorevole del proprio figlio. Un figlio che con i suoi bisogni e le sue richieste può acquisire valenze minacciose e persecutorie per l'equilibrio dell'adulto. La dimensione della genitorialità in questo caso viene attivata prevalentemente nella sua polarità negativa, con aspetti di aggressività e distruttività che prendono il sopravvento su quelli di cura e protezione. Così invece di alimentare e proteggere la vita il genitore che si trova in questa rigida polarizzazione interna può arrivare ad agire sul figlio fantasie aggressive o omicide.
In questo meccanismo, che all'inizio può sembrare un semplice gioco, sta la natura transgenerazionale dell'abuso, dove le vittime di oggi saranno i carnefici, gli abusanti, di domani se non si interviene curando, oltre che punendo e giudicando. In questo meccanismo risiede anche la responsabilità di quanti, nell'impossibilità di contattare il proprio dolore e le proprie parti «cattive», si barricano nel ruolo di buoni, rincorrendo i mostri esterni e rinunciando così a comprendere e a trasformare. Le radici della violenza sono da ricercarsi nella sofferenza, quelle del dogmatismo e del radicalismo di idee e valori nella scissione e nella paura che la alimenta. A che gioco giochiamo?
*psicologa