sabato 25 giugno 2005

Calasso
«la conturbante figura della ninfa»

Repubblica 25.6.05
Intervista. Da Socrate a Nabokov lungo il cammino segreto che ha posto al centro la conturbante figura della ninfa
La storia della possessione erotica e di una maniera di avvicinarsi alla conoscenza raccontate in un libro
Viviamo in un'epoca dove la profusione delle immagini esterne ostacola quelle mentali
I greci riconoscevano che la nostra vita mentale è abitata da potenze che sfuggono a ogni controllo
La cristianità non ha avuto solo san Tommaso ma anche Meister Eckhart tra i suoi grandi pensatori
L'Incipit a Parigi è una grande città, nel senso in cui Londra e New York
Antonio Gnoli

MILANO. A volte si ha l'impressione che Roberto Calasso sia il prolungamento dei libri che legge, studia e ama. È il puro strumento attraverso cui essi generano altre storie, altre idee, altre avventure. Nelle pagine di questo scrittore tutto appare mosso e lieve, come una luce tremula che si alza dall'acqua delle grandi civiltà. Si è immerso in quella greca e indiana. Ha navigato nello spazio della modernità: intravisto terre dal paesaggio tormentato. E ogni volta è come se ricominciasse da capo. Il suo nuovo libro, una raccolta di saggi che ben lo rappresenta (incursioni nella letteratura, nel cinema, nella filosofia), è una silloge di gusti personali, curiosità, interessi. Ma ogni saggio, verrebbe da dire, è il gradino di un'unica scala, al cui vertice c'è un´idea di conoscenza che l'Occidente ha solo in minima parte frequentato, preferendo rimuovere la parte più enigmatica, quella nata dalle immagini. Il libro non a caso si intitola La follia che viene dalle Ninfe (Adelphi).
Lei sa quanto il tema delle Ninfe nel Novecento abbia affascinato personaggi come Warburg e Nabokov. E mi sembra significativo che a queste figure lei dedichi più che un riconoscimento.
«Nabokov, con la sua perversa ironia, si è ben guardato in Lolita dal rendere esplicito il tema, che però illumina il libro. Era una delle tante vie segrete che lasciava al buon lettore. Quanto a Warburg, la Ninfa - come si vede dalla corrispondenza con André Jolles - attraversa tutta la sua vita. Fino all'estremo ha voluto testimoniare il potere di quella immagine».
Lo subiva?
«Ne era posseduto».
Come fa un'immagine a possederci?
«È il potere che hanno i simulacri, anche quando vengono disconosciuti».
Platone nella Repubblica li condanna.
«È vero. Ma in altre opere Platone si riconosce nel simulacro. Nel Fedro soprattutto, dove sembra quasi voler chiedere scusa alla mitologia».
E lei sta dalla parte della Repubblica o del Fedro?
«Dalla parte del Fedro. I simulacri sono la via regale alla conoscenza. Una delle debolezze fondamentali di tutto quello che accade da qualche secolo (o millennio?) a questa parte risiede nel tentativo di arginare, deprezzare, disprezzare le immagini. Non riconoscendo la potenza che hanno. Oggi viviamo in un'epoca dove la profusione delle immagini esterne ostacola e spesso blocca la percezione delle immagini che ci accompagnano in ogni momento: le immagini mentali».
Lei sostiene che per i greci la possessione fu innanzitutto una forma primaria della conoscenza. Cosa intende dire?
«I greci riconoscevano che la nostra vita mentale è abitata da potenze che la sovrastano e sfuggono a ogni controllo»
Ma a un certo punto l´Occidente ha scelto un altro modo di conoscere: all´essere posseduto ha preferito il possedere.
«È un lungo processo, dove un passo simbolicamente decisivo viene compiuto da Cartesio. Non tanto con il Discorso sul metodo quanto con le Regulae ad directionem ingenii, dove teorizza che esiste solo ciò che viene imbrigliato nella procedura dell'enumerazione, quindi in una procedura di controllo gravida di conseguenze, a tutti i livelli: epistemologico, sociale, politico».
In altre parole, si esclude tutto ciò che non è riducibile al calcolo scientifico?
«Tutto quanto resta fuori dall'enumerazione viene trattato come fenomeno insignificante o patologico. Non a caso per il mondo moderno la possessione è solo un'esperienza di poveretti che vanno internati. Ma i greci non erano degli illusi. Sapevano benissimo quanto la possessione fosse pericolosa e quanto il "delirio divino" fosse diverso da quello degli psicopatici».
Cè differenza tra possessione, delirio e follia?
«Tutto parte dalla stessa parola, che è mania. I greci nel loro lessico distinguevano molto bene tra i vari tipi di possessione. Ma la cosa decisiva per capire il loro mondo è notare la preminenza che hanno attribuito alla possessione erotica. E qui appare la Ninfa - e con essa un dettaglio fondamentale che spesso viene trascurato: la possessione non investe soltanto gli uomini, i quali soggiacciono a varie passioni, ma agisce innanzitutto sugli dèi».
Parlare di possessione in qualche modo significa far riferimento a Dioniso. Ma la cultura greca ha conosciuto anche Apollo, ovvero l'esatto opposto.
«È stato Nietzsche, con un colpo di genio, a isolare questa polarità. Ma, nel santuario di Delfi, Apollo e Dioniso condividevano la conoscenza attraverso la possessione. L'unità greca non è data né da Atene né da Sparta, ma da Delfi. È il punto magnetico a cui si riferisce tutta la storia greca».
Ma una conoscenza che scaturisce dalla possessione che cosa è?
«La chiamerei conoscenza metamorfica, dove il rapporto che il soggetto ha con l'oggetto non è di rappresentazione ma di commistione. Ed è una via incompatibile con l'altra, che da Cartesio in poi ha segnato il corso del conoscere in Occidente».
Però già nel mondo greco c'era una via misterica e una razionale alla conoscenza.
«C'è una lotta antichissima fra le due conoscenze. Riassumibile nel dissidio fra filosofia e poesia di cui parla Platone nella Repubblica. Il mondo greco è pieno di resistenze e di attacchi agli dèi, alle immagini, alle passioni. Ma fino all'ultimo quel mondo difenderà la via misterica alla conoscenza. Le Dionisiache di Nonno sono l'ultimo, immenso poema epico in cui si ritrova integra questa maniera di conoscere».
Non ritiene che questo tipo di conoscenza sia oggi pericolosamente esposta a cadute e manipolazioni piuttosto discutibili?
«A che cosa pensa?».
Come lei sa il fenomeno della possessione tornò di moda nell'Ottocento con l'occultismo. Ma anche la proliferazione di ex voto nell'ambito del cattolicesimo fu un modo di legare in senso basso e popolare l'immagine al miracolo e alla guarigione.
«L'immagine è un'ordalia, una prova attraverso la quale si può passare o sviluppando un pensiero che sia all'altezza dell'oggetto o altrimenti restandone sopraffatti. Quanto all'occultismo, c'è sempre stato. In senso moderno, il contagio dei tavolini che ballano ha inizio nel 1848. Pochi fanno caso alle date di questa voga, che dall'Inghilterra e dalla Francia dilaga poi negli Stati Uniti: allo scuotimento generale corrisponde uno scuotimento psichico».
E le immagini che il cattolicesimo ha prodotto?
«Fino a un certo punto sono state all'altezza della sua storia. Ma il rapporto che oggi la Chiesa ha con esse è il segno più evidente della sua debolezza dottrinale. Le immagini che la cristianità ha sviluppato nel ventesimo secolo non reggono, quasi senza eccezione, alla prova estetica. È un fallimento che si può constatare entrando in una qualunque chiesa degli ultimi cento anni. Nessuna riesce a presentarsi come supporto adeguato della liturgia, che è fatta di immagini».
Lei come spiega questa involuzione?
«Non c´è più un pensiero in grado di sostenere la liturgia».
Ma il pensiero cattolico è stato un pensiero legato alla metafisica. È andato in direzione opposta al pensiero metamorfico.
«La cristianità non ha avuto solo san Tommaso ma anche Meister Eckhart, uno dei grandi pensatori dell'immagine».
Fu uno dei grandi pensatori della mistica.
«Ma una mistica non effusiva, non sentimentale. Eckhart fu innanzitutto un grande metafisico. Un pensatore che costruì un edificio di pensiero».
Perché nell'uso che lei fa della parola metafisica non tiene conto della condanna che a più riprese essa ha subito, a partire da Heidegger?
«Ormai c'è una fila troppo lunga di quelli che pretendono di parlare al di fuori della metafisica. Mi ricordano Berlinguer quando parlava di "fuoruscita" dal capitalismo. Quando dico metafisica intendo qualsiasi discorso che dia un nome preciso a ciò che è. E questo non avviene necessariamente in forme riconducibili ai trattati filosofici».
Il pensiero non si esaurisce nella filosofia?
«Certamente non si esaurisce in quella forma trattatistica che ha trovato in Kant la sua espressione suprema».