giovedì 18 settembre 2003

Marco Bellocchio, alla presentazione del film a Piacenza

Libertà 18.9.03
Spettacoli


Il pubblico del Jolly applaude calorosamente “Buongiorno, notte” e il regista bobbiese durante l'incontro dell'altra sera
Bellocchio, essere liberi solo nella verità
«La storia di Moro non offre alternative ma può servire per il domani»


C'è fermento in uno dei soliti, angusti interni tipici del cinema di Marco Bellocchio. Quattro brigatisti hanno appena rapito Aldo Moro e lo nascondono in una stanza bunker dell'appartamento. La sua è una di quelle tragedie che si vorrebbero cambiare con un tocco magico, o magari solo con l'uso della fantasia. Eppure gli eventi che furono li conosciamo tutti e, proprio perché immutabili, ci angosciano. Ma ciò che non sapevamo è che Bellocchio concede una via di fuga, certamente non reale, né palpabile, da rintracciare nel sogno della brigatista meno convinta, Chiara (Maya Sansa) o, chissà, forse solo nelle sue fantasticherie, che sanno essere più dolci della realtà; quelle fantasticherie in cui il prigioniero esce dalla porta e cammina per strada libero e sorridente. Immagini di repertorio che spaccano il cuore; e poi tante parole importanti, come morte, condanna, soldati, guerra rivoluzionaria; contrapposizioni come responsabilità e colpevolezza, uomo e simbolo; oggetti come un crocifisso che pende sul letto del carnefice e lettere come unico residuo della memoria; gesti come la lettura delle proprie missive, dando le spalle ai propri futuri assassini; tanti segni della croce sprecati che ci rimandano all'Ora di religione. E poi confessioni struggenti («vorrei capire con i miei piccoli occhi mortali come si vedrà dopo») e moniti inquietanti («quando vedrà il mio cadavere, la gente non capirà»), in un'opera che attraversa il passato, si chiama fuori dallo schieramento ideologico ma ci congela di fronte alla cecità di esso, concede a parti e controparti l'opportunità di esporre le proprie ragioni e di rincorrere le proprie utopie ma, infine, rivive dolorosamente nel nostro odierno. Un'essenzialità stilistica che non fa la minima sbavatura regala lacrime amare ed emozioni struggenti e ridisegna una figura esile di un uomo che chiede dignità e suscita pietà e rispetto. Tanto rispetto. Per tutti questi motivi e per tanti altri ancora, che si nascondono in ogni singolo fotogramma di questa splendida pellicola, il pubblico del cinema Jolly di San Nicolò applaude con commozione Buongiorno, notte e accoglie calorosamente l'entrata in sala di Marco Bellocchio, accompagnato dall'inseparabile Gianni Schicchi, nel corso di un incontro realizzato in tempi brevissimi, attraverso cui il regista, confrontandosi col pubblico, spiega la genesi e il significato della propria opera. Bellocchio ha preso spunto dal libro-confessione della brigatista Anna Braghetti, Il prigioniero, pur non volendo realizzare un film che vivesse su un giudizio, una condanna alle Br: «Io non sono né uno storico né un politico; quando Rai Cinema mi chiese se fossi interessato a girare un film su questo tragico fatto, sottolineai di non voler sposare una tesi. Al tempo della uccisione di Moro ero già adulto e, ripensando ad allora, mi tornavano alla mente immagini che mi erano familiari. E capii che c'era la possibilità di fare un film di fantasia, di immagini: molte delle scene del film, per l'appunto, partono da dati di cronaca per diventare qualcos'altro, che viene sviluppato, “falsificato”». C'è chi, nel suo film, ha individuato la metafora delle ideologie come gabbia in cui si rimane prigionieri. Inevitabile, dunque, approdare al tema “libertà”: «C'è una libertà di fondo che ogni uomo dovrebbe perseguire. La libertà è la possibilità che, nel film, viene espressa dall'immagine di Moro che passeggia sotto la pioggia. Quando mancò la libertà lo Stato iniziò a negare la veridicità delle lettere che il politico scriveva ai familiari. Non ebbe libertà, in quel caso, di considerarle vere, rimanendo vincolato dalla linea della fermezza. Solo Sciascia ha sollevato il dubbio andando molto più in profondità nell'“affaire Moro” di quanto abbiano fatto tanti politici. Ma non lo fece lo Stato o, per lo meno, gran parte di esso». A qualcuno non è andato giù questo incontro tra cronaca ed elaborazione artistica: «In molti mi hanno attaccato, senza però dare il giusto significato al discorso della rappresentazione, del fare immagini. Il figlio di Moro, Giovanni - prosegue il regista - ha apprezzato il mio film perché l'infedeltà con cui è rappresentato il padre dà alla figura di questi una profondità che nessun giornalista poteva dare. Anche Follini, segretario dell'Udc che al tempo conobbe Moro, ha ritrovato nel mio film una figura molto corrispondente». E quando si inizia a discutere sull'importanza di una “seconda possibilità”, Bellocchio aggiunge: «La vita, la storia non offrono alternative. Ma possono servire comunque per quello che ci capiterà domani». Poi conclude: «Sono un cittadino e faccio questo lavoro. Certo, non mi aspettavo tanta ebollizione: rabbia, adesione, emozione da parte di coloro che nel '79 erano ragazzi, adulti e di chi non era nemmeno nato. E' estremamente interessante constatare, appunto, le diverse reazioni che il film ha suscitato; a Venezia, ad esempio, un uomo che al tempo dell'uccisione faceva l'operaio mi confessò: “Quando seppi dell'uccisione di Moro, fui uno di quelli che applaudii. Ora mi viene da piangere”».