giovedì 18 settembre 2003

***una intervista a Marco Bellocchio su Famiglia Cristiana

(ricevuto da Daniela Venanzi)

FARE I CONTI
COL PASSATO
intervista a Marco Bellocchio di Maurizio Turrioni


Al di là delle polemiche per la mancata vittoria a Venezia, la pellicola sul "caso Moro" fa riflettere. «Dopo 25 anni», dice il regista, «è ora di riaprire quel doloroso capitolo».

Un polverone. È quello che tanti, troppi, hanno sollevato attorno a Buongiorno, notte di Marco Bellocchio, il film sul "caso Moro" che sarebbe stato scippato del Leone d’oro all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Anacronistica la posizione di RaiCinema che, come produttrice, per bocca del suo amministratore Giancarlo Leone ha minacciato di non mandare più i suoi titoli al Lido. Caduta di stile condivisa da coloro che, in Tv o sui giornali, si sono scagliati contro la pellicola vincitrice senza neppure averla vista, per loro ammissione. E pur se si può comprenderne l’amarezza, ha sbagliato il regista a non restare a Venezia per ritirare il premio per la sceneggiatura, dichiarando: «Noi italiani siamo imbattibili a non difendere le nostre cose!». Lo ribadiamo: Il ritorno del russo Andrey Zvyagintsev ha strameritato la vittoria.

Un dramma troppo coinvolgente

Ciò che è successo in seno alla giuria della Mostra lo ha spiegato il suo presidente Mario Monicelli: «Sono un ammiratore di Bellocchio. Il suo I pugni in tasca fu uno degli esordi più importanti. L’ora di religione è un capolavoro. Ma qui ci siamo trovati di fronte a un film (di chiara bellezza cinematografica) con un gruppetto di terroristi insicuri, confusi, impauriti, dominati da un sequestrato che è quasi il burattinaio. Una specie di glorificazione. E sembra che a farlo morire non siano quei ragazzi spaventati, ma un establishment di destra e di sinistra. Io e Stefano Accorsi abbiamo vissuto il film con tensione. Ma i giurati stranieri, che non sapevano del "caso Moro", non hanno capito».

Insomma, un dramma troppo radicato nella politica e nella coscienza italiana. Proprio per questo, però, un’occasione da non perdere per chi voglia rivisitare emotivamente atmosfere, ansie e tormenti degli "anni di piombo". Sia che abbia vissuto personalmente quei tragici 55 giorni del rapimento Moro, sia che in quel lontano 1978 fosse troppo giovane per averne memoria.

Dato che lo stile cinematografico dell’opera di Bellocchio è fuori discussione, le critiche pro e contro riguardano il cuore del film. Sdegnata Maria Fida Moro: «In un Paese libero la signora Anna Laura Braghetti ha il diritto di esprimersi e il regista Bellocchio di farne un film», ha detto la figlia dello statista. «Ma io ho il diritto sacrosanto di gridare il mio disappunto. Vedendo il film ho provato contrarietà e schifo. Mi sarebbe piaciuto un film sulla tenerezza e la sollecitudine di un papà brutalmente strappate. Non voglio più sentire parlare della sua tragica morte!».

Il contrappunto, però, è nelle parole che il fratello Giovanni ha affidato a una lettera per il regista Bellocchio: «È stato doloroso vedere il film, ma l’ho molto apprezzato. Questo è un caso in cui la creazione artistica è stata capace di accrescere la conoscenza della realtà. Penso che chi lo vedrà potrà cogliere il senso del dramma di un uomo di fronte a un destino tragico quanto insensato».

Vedendo le intense sequenze girate da Bellocchio, si può insomma pensarla come si vuole. Certo, però, il coinvolgimento è inevitabile.

«Ognuno ha la sua testa. Si può amare un film oppure no, sono io il primo a saperlo. Ma diciamo tutta la verità», dice fuori dai denti Bellocchio, «quello per la sceneggiatura è un premio marginale. Ho gradito di più quello della giuria dei giovani. E poi non è una questione di premi...».

Che cosa intende dire?

«Questo film ha per me un’importanza e senso davvero speciali. Io che sono stato solo spettatore di quegli eventi, che avevo una ridicola e utopistica militanza politica dieci anni prima, al tempo della tragedia mi sono tenuto a distanza, ho chiuso gli occhi. Ecco, 25 anni dopo ci sono le condizioni per ripensare a un qualcosa che riguarda tutti, me per primo. È ora di fare i conti con un passato lasciato in sospeso».

Il regista lo fa fin dalle prime sequenze. Notte e giorno. Verità e bugia. Luce e buio, anche nell’anima. Ossimori. Contraddizioni che la brigatista Chiara (Maya Sansa) vive in modo insostenibile, dividendo le giornate tra la grigia quotidianità del lavoro impiegatizio e il suo segreto compito di vivandiera per Aldo Moro, il rapito, l’uomo politico più importante nell’Italia di fine anni ’70.

I processi proletari condotti dagli altri brigatisti, Mariano (Luigi Lo Cascio) ed Ernesto (Piergiorgio Bellocchio, figlio del sessantaquattrenne regista piacentino). I dialoghi sulla morte e la paura. Gli sguardi rubati dal buco della serratura sul dramma privato dello statista (ben incarnato dall’attore Roberto Herlitzka). È un rapporto umano quello tra Chiara e il recluso?

La terrorista finirà per far vincere la pietà liberando, almeno con l’immaginazione, quell’uomo solo che fu Moro.

«Non potevo accettare la verità storica, ammesso che ce ne sia una», spiega Bellocchio. «Dovevo inventarmi qualcosa di falso e infedele».

Quali fonti ha usato per il film?

«Il libro di Flamigni, le lettere di Moro e, per la cronaca della prigionia, mi è stato utile Il prigioniero della Braghetti, che non ho mai incontrato. Lo spirito di Buongiorno, notte non è nella documentazione storica, ma nella ribellione di Chiara, reale o utopistica che essa sia».

Come mai ha voluto dedicare questo film al suo papà?

«Mio padre è morto quando io avevo 16 anni. Aveva qualcosa in comune con Aldo Moro: anche lui era un uomo molto tenace, un conservatore dalla profonda umanità. Un’immagine che è entrata piano piano a dare corpo al personaggio. Il film, in fondo, è tutta una storia di padri e figli. O figlie».