giovedì 18 settembre 2003

dopo Famiglia Cristiana non poteva mancare Avvenire, il quotidiano dei vescovi

Avvenire 18.9.03

Editoriale
Anni di piombo, l'assoluzione del nichilismo
di Maurizio Cecchetti


Un film come quello di Marco Bellocchio, «Buongiorno, notte», dimostra il grado di penetrazione che ha raggiunto nella coscienza morale dell'Occidente il concetto che dà il titolo a uno dei saggi più discussi di Hannah Arendt: «La banalità del male». Il XX secolo è stato il tempo dove questa idea del male che s'incarna nell'operato di gente comune, normale, ha toccato un punto di non-ritorno: in fondo, i «volenterosi carnefici» di Hitler sono soltanto l'altra faccia di quella imponderabile pericolosità che Elias Canetti metteva in luce nei comportamenti delle masse. E fu un sogno rivolto alle masse quello degli «anni di piombo», che produsse anche una militanza consistente. Il film di Bellocchio sembra voler sostenere che un pugno di uomini e donne, che tennero in scacco il Paese, partecipavano di una cultura di morte che ha contrassegnato il secolo. Furono interpreti di una «hybris» aleggiante nell'aria stessa che respiravano giorno per giorno. I dubbi, le ingenuità, la fragilità del credere a un'idea che devono ripetersi uno con l'altro per essere certi che abbia un senso, i contrasti fra loro che crescono ora dopo ora mentre si avvicina il momento dell'esecuzione del prigioniero Aldo Moro, è la finzione psicologica del parto immaginativo di Bellocchio che sostanzialmente dice: fu un errore uccidere Moro, fu un errore lasciarlo uccidere, chi lo uccise, in fondo, si trovò costretto in una sorta di obbligo di colpire per non morire a sua volta (la realtà è che, quell'assassinio, fu davvero il suicidio della strategia terroristica). I carnefici di Moro divennero attori di una tragedia ripetutasi infinite volte nel Novecento: il nichilismo. D'altra parte, se così fosse, sarebbe appunto una tragedia fondata sulla «coazione a ripetere», o per così dire su un'azione non-volontaria, ma subita sotto la pressione di un qualche burattinaio, fosse pure la Storia e non il presunto grande vecchio che sempre si postula quando c'è puzza di complotto. Che ci sia voglia di assoluzione anche per loro? Che sia questo il modo per chiudere i conti col passato? Ma, in realtà, il film di Bellocchio non rappresenta uno scavo nelle oscure profondità di quella scelta che, nel sogno catartico rivissuto a posteriori, lascia immaginare che Aldo Moro se ne vada silenzioso dalla sua prigione e alzando il bavero del suo cappotto si avvii verso la libertà. C'era un'altra possibilità, dunque, ma non si realizzò, il perché non ci è dato sapere. In fondo, è questa la debolezza del film: il sogno. Un sogno anch'esso banale come il male che lo cancella: perché sappiamo bene che nel 1978 di sogni in giro ce n'erano parecchi, ma in gran parte fatti di catene, bastoni, aggressioni con la pistola in pugno. E di compassione ben poca. È un plot storicamente noto, che ci viene riproposto in modo poco coraggioso, se si considera che questo film vorrebbe scavare nelle psicologie e si ferma invece all'involucro. Non c'è pietà cristiana alla radice di questa visione, sembra emergere invece una sorta di fatalismo di marca psicoanalitica, che, come sappiamo, nella modernità rischia di prendere il posto dell'esame di coscienza e dell'escatologia religiosa.