domenica 28 marzo 2004

Lolita

Corriere della Sera 28.3.04
ESCLUSIVA Anticipiamo parte del racconto pubblicato nel 1916 da un giornalista tedesco. L’amore tra un intellettuale e un’adolescente che ispirò il celebre capolavoro
La prima volta di Lolita, ninfetta senza Nabokov


Verso la fine del secolo passato vivevo per motivi di studio in una città molto antica e piuttosto grande della Germania meridionale. Abitavo in una via stretta con case antichissime, giacché mi piaceva quell'ubicazione. Nelle vicinanze del mio appartamento si trovava una piccola osteria, uno dei posti più singolari che abbia mai visto. Ci andavo spesso nei tardi pomeriggi autunnali, quando, prima dell'imbrunire, facevo una pausa nel mio lavoro. Tutte le sere, alle sette in punto, veniva chiusa a chiave la porta ed erano serrate le imposte delle finestre. Non chiesi mai spiegazioni in proposito, giacché cominciai ben presto a nutrire un forte e inspiegabile interesse per i proprietari di quella singolare osteria. Si chiamavano Aloys e Anton Walzer, e dovevano essere molto anziani. Entrambi erano incredibilmente alti e magri, non avevano più un capello in testa e portavano lunghe barbe grigio-rossicce, folte e arruffate. Non vidi loro indosso mai nient'altro che calzoni giallognoli e giacche nere lunghe e flosce. Erano senz'altro gemelli, poiché si assomigliavano come due gocce d'acqua, e ci volle parecchio tempo prima che riuscissi a distinguere Anton dalla voce un po' più profonda.
Ogni volta che entravo nel locale mi sorridevano affabili e, senza dire né chiedermi nulla, mi portavano un bicchiere di vino spagnolo, dolce e squisito, al tavolo vicino alla stufa. Aloys si sedeva sempre sulla poltroncina accanto a me, mentre Anton per lo più se ne stava in piedi con la schiena appoggiata alla finestra. Entrambi fumavano un tabacco molto aromatico con pipe simili a quelle che spesso si vedono raffigurate nelle incisioni fiamminghe. Parevano sempre in attesa di qualcosa (...).
Sul finire dell'inverno, un pomeriggio comunicai ai due fratelli che non sarei più potuto tornare perché il giorno dopo partivo per la Spagna. La notizia dovette esercitare uno strano effetto su Anton e Aloys, giacché i loro visi duri e pittorescamente brutti impallidirono di colpo e i loro occhi cercarono il pavimento. Uscirono dalla stanza; li udii bisbigliare fuori tra loro. Dopo qualche tempo, Anton rientrò e mi chiese con voce agitata se andassi anche ad Alicante e alla mia risposta affermativa si affrettò a raggiungere di nuovo il fratello all'esterno. Più tardi rientrarono insieme e si comportarono come se non fosse successo nulla.
Impegnato nei preparativi del viaggio, non pensai più ai due vecchi. Ma quella notte feci un sogno oscuro e confuso su una piccola casetta sghemba color salmone situata in una delle vie malfamate del porto di Alicante. Il giorno dopo, andando alla stazione, vidi che il locale di Anton e Aloys aveva ancora le imposte sbarrate, sebbene fosse pieno giorno.
Una volta in viaggio, i miei studi mi fecero dimenticare presto i piccoli eventi occorsimi nella Germania meridionale. In viaggio ci si scorda facilmente di tutto. Mi fermai qualche giorno a Parigi per far visita ad alcuni amici e rovistare un po' il Louvre. Una sera, stanco di contemplare opere d'arte, me ne andai in un cabaret del Quartiere Latino per ascoltare uno di quei singolari bardi, del quale i miei conoscenti mi avevano tessuto le lodi. Trovai un vegliardo cieco che cantava davvero bene con la sua voce seria e malinconica. Era accompagnato magistralmente al violino dalla graziosa figlia.
In seguito, questa suonò anche da sola e di colpo riconobbi la raffinata melodia proveniente dalla casa dei Walzer che mi aveva sorpreso nella notte, settimane prima. Mi informai: era una gavotta di Giovanni Lully, dell'epoca di Luigi XIV.
Alcuni giorni dopo partii per Lisbona e ai primi di febbraio arrivai ad Alicante, dopo una sosta a Madrid. Ho sempre avuto un debole per il Sud, e in particolare per la Spagna. Laggiù si vive - per così dire - all'ennesima potenza: ogni esperienza viene intensificata e il sole rende la vita torrida e irrefrenabile.
La gente è come il vino locale: dolce, forte e ardente. Ma come il vino, quando si riscalda, ribolle, diventando pericolosamente irascibile. E poi ho la sensazione che ogni meridionale porti in sé un po' di sangue del Don Chisciotte. In realtà non avevo niente di speciale da fare ad Alicante, ma io amo quelle ineffabili notti al porto, quando la luna splende sul castello di Santa Barbara creando bruschi contrasti spettrali. Si sa che in ogni tedesco vi è un po' di sentimentalismo lirico.
Nel momento in cui entrai in città a dorso di mulo, il ricordo dei fratelli Walzer e della loro singolare dimora mi assalì con un'intensità sorprendente. Naturalmente può essere solo una mia fantasia o una costruzione mentale successiva, ma ho l'impressione di aver condotto il mio mulo lungo il Palazzo Algorfa, fin giù al porto, guidato da una forza quasi indipendente dalla mia volontà. Lì, in una delle vecchie vie in cui abitano i marinai, trovai l'alloggio che cercavo.
La locanda di Severo Ancosta era un piccolo edificio sghembo con grandi balconi, stretto fra due costruzioni simili. L'affabile e ciarliero padrone mi assegnò una camera con una splendida vista sul mare. Non c'era nulla che mi impedisse di godermi una settimana di indisturbata bellezza.
Finché, il secondo giorno, non vidi Lolita, la figlia di Severo. Era giovanissima, secondo i nostri criteri nordici, e a corredo dei suoi occhi scuri meridionali aveva capelli di una rara tinta rosso dorata. Il suo corpo da fanciulla era snello e flessuoso, e la sua voce piena e profonda. Ma non fu solo la sua bellezza a incantarmi: Lolita irradiava uno strano alone di mistero; un mistero che nelle notti di luna spesso mi assaliva con i suoi interrogativi.
Quando rassettava la mia camera, a volte si fermava nel mezzo del lavoro, stringeva le labbra rosse sino a ridurle a due linee sottili e fissava il sole fuori dalla finestra con occhi angosciati. Allora assumeva la posa ifigeniaca di una grande attrice tragica. In tali istanti provavo sempre l'imperiosa tentazione di abbracciare quella fanciulla per proteggerla da un pericolo ignoto.
Vennero poi giorni in cui i grandi occhi di Lolita mi guardavano timidi, rivolgendomi una muta domanda, e sere in cui la vedevo scoppiare all'improvviso in un pianto convulso.
In quel periodo non pensavo mai alla mia partenza. Il Sud - e Lolita - mi avevano catturato. Torridi giorni dorati e malinconiche notti argentate. E poi giunse la notte di indimenticabile realtà e fiabesco trasognamento in cui Lolita era sul mio balcone, come spesso accadeva, e mi cantava canzoni a bassa voce.
Ma d'un tratto fece scivolare a terra la chitarra e si avvicinò con passo esitante alla ringhiera, dov’ero io. E mentre i suoi occhi cercavano il chiaro di luna scintillante sull'acqua, mi strinse le braccia tremanti intorno al collo come una piccola mendicante, appoggiò la testa sul mio petto e prese a singhiozzare senza ritegno. Aveva le lacrime agli occhi, ma la sua dolce bocca sorrideva.
Il miracolo era accaduto. «Sei così forte» sussurrò.
Giorni e notti vennero e se ne andarono - il mistero della bellezza li avvolgeva di una tranquillità armoniosa, sempre uguale a se stessa. I giorni divennero settimane e io cominciai a rendermi conto che era giunta l'ora di partire. Non che fossi richiamato da un dovere particolare, ma l'amore immenso e pericoloso di Lolita mi incuteva paura. Quando glielo comunicai, mi guardò con un’espressione indescrivibile e annuì in silenzio. Poi mi afferrò lesta la mano e la morse con tutta la forza della sua bocca minuta. Venticinque anni non sono riusciti a cancellare queste cicatrici d'amore.
Prima che potessi dire qualcosa, Lolita si era già dileguata nella casa. La rividi una volta soltanto...
La sera, sulla panchina davanti alla porta della locanda, ebbi una seria conversazione con Severo a proposito di sua figlia. «Vieni, signore - mi disse - voglio farti vedere una cosa e raccontarti tutto!». Mi portò su in una camera che comunicava con la mia per mezzo di una porta. Rimasi impalato per la sorpresa.
Nella bassa stanza rettangolare non vi erano che un tavolino e tre poltroncine. Ma queste ultime erano identiche, o molto simili, a quelle dell'osteria dei fratelli Walzer. E in quell'istante capii: la casa che avevo sognato in Germania la notte prima di partire era la locanda di Severo Ancosta!
Alla parete era appeso un disegno raffigurante Lolita. Era così perfetto che mi avvicinai per esaminarlo. «Tu credi che sia Lolita - sorrise Severo - ma quella è Lola, la nonna della bisnonna di Lolita, che cent'anni or sono fu strangolata nel corso di un litigio tra due suoi amanti!». Ci sedemmo e Severo mi raccontò tutta la storia con la sua consueta affabilità. Mi parlò di Lola, che ai suoi tempi era la più bella donna della città. Così bella che gli uomini che la amavano ne morivano. Poco dopo aver dato alla luce sua figlia, fu uccisa da due dei suoi amanti, che lei aveva tormentato fino alla follia. Da allora, sulla famiglia gravava una sorta di maledizione. Le donne avevano sempre una sola figlia femmina e cadevano in preda alla pazzia poche settimane dopo la sua nascita. Ma erano tutte belle - belle come Lolita! «Mia moglie morì così - sussurrò serio - e anche mia figlia morirà nello stesso modo!». Non riuscii a trovare parole per consolarlo, giacché fui travolto dall'angoscia per la sorte della mia piccola Lolita. Quando la sera mi ritirai in camera mia, trovai sul cuscino del letto un piccolo fiore rosso. Un fiore a me sconosciuto.
È l'addio di Lolita, pensai, e lo presi in mano. Ma afferrandolo, mi accorsi che il fiore in realtà era bianco e reso rosso dal sangue di Lolita. Questo era il suo modo d'amare.
(Traduzione di Alessandro Peroni)