domenica 18 aprile 2004

libri:
«il più perfetto romanzo russo dopo Dostoevskij»

Corriere della Sera 18.4.04
RILEGGERE I CLASSICI
«Il demone meschino» è stato definito il più perfetto romanzo russo dopo Dostoevskij. Ecco i motivi della sua originalità
Sologùb seppe rappresentare in modo geniale una società senza grandezza


Il personaggio più inquietante creato da Kafka è forse Odradek, strana e repellente figura che non si capisce bene se sia un essere vivente o un marchingegno meccanico e aggrovigliato, che nella sua ambiguità contagia la vita stessa e la fa assomigliare a qualcosa di sordido e artificiale. Odradek ha un grande predecessore letterario, Nedotykonka, l’Inafferrabile, il mostriciattolo che divora e sconvolge come un roditore insinuatosi nel cervello, la mente e la fantasia di Peredònov, il protagonista del Demone meschino il capolavoro di Fëdor Sologùb uscito nel 1905 e verosimilmente ignoto a Kafka. Nato a Pietroburgo nel 1863 e formatosi nell’atmosfera culturale simbolista di quella straordinaria città, vicino alla rivoluzione del 1905 ma sostanzialmente estraneo alla realtà sovietica sorta dopo il 1917, Sologùb ha scritto altri romanzi e racconti, ma appartiene alla letteratura universale per un solo libro, Il demone meschino , in cui il suo artiglio satirico, il suo doloroso e talora anche perverso senso del male e la sua eccezionale capacità di fondere indissolubilmente precisione realistica e delirio visionario generano un’opera magistrale, definita da Mirskij «il più perfetto romanzo russo dopo Dostoevskij».
A differenza dalla brevissima parabola kafkiana, il libro di Sologùb è un romanzo che raffigura numerosi personaggi e ritrae genialmente una torpida e cupa provincia russa, quel mondo della vecchia Russia sonnolento e arretrato (anche se meno di quanto si creda) da cui è nata una grandissima letteratura, che ha interpretato come forse nessun’altra le sconvolgenti trasformazioni della storia contemporanea e dell’uomo, quella crepa, fra il modo di essere dei secoli o millenni precedenti e il nostro, che si è aperta tra fine Ottocento e primo Novecento e sta ancora allargandosi, attraversando come una grande e slabbrata ferita la mente e il cuore dell’individuo, dividendolo da se stesso.
Se Odradek è la figura di una realtà indecifrabile e minacciosa, l’Inafferrabile - nel romanzo grottesco ma anche realista di Sologùb - può essere visto anzitutto come una allucinazione di Peredònov, la proiezione della sua dilagante follia, che lo porta a ossessioni paranoiche e infine al più insensato delitto. La grandezza del «Demone meschino» non consiste tuttavia soltanto nella mirabile narrazione del delirio, prima contenuto e poi prorompente, che stravolge a poco a poco tutta la realtà e perfino la natura e che viene raccontato attraverso questa deformazione delle cose, che il lettore vede alterarsi sotto i suoi occhi, come se anch’egli le guardasse e le vivesse nel delirio.
La letteratura universale conosce molte altre grandiose rappresentazioni della follia e della sua incontenibile distorsione del mondo. Ma Perodònov non è Aiace né re Lear o la Clarisse di Musil; non è una creatura la cui umanità sia travolta e disgregata dalla follia, continuando a palpitare dolorosamente pure nella propria disgregazione anche violenta o criminosa. L’anima che, nel romanzo di Sologùb, precipita nel vortice della paranoia, è un’anima radicalmente priva di umanità; una personalità che sembra costituita soltanto da meschinità, malignità, bassezza. Anche l’Inafferrabile che tormenta e incalza il protagonista non ha alcuna grandezza infera di dèmone né la dignità sia pur straziata e sfigurata della pazzia; assomiglia più a un lurido e guizzante animale del sottosuolo che a un principe del male o del dolore. Come Odradek ha qualcosa di ributtante.
Nel Demone meschino Sologùb affronta - e supera magistralmente - una delle più grandi difficoltà dell’arte, la rappresentazione dell’assoluta negatività, di un buio radicale e di una raggelante crudeltà della vita. Apparentemente, la letteratura pullula di raffigurazioni o celebrazioni del male; non si contano i libri che narrano e talora esaltano la trasgressione, la violenza, l’assassinio, l’orgia di sangue e di sesso, Jack lo Squartatore, le più svariate perversioni sadiche. Molto spesso si tratta, malgrado le intenzioni magari luciferine degli autori, di pagine sentimentali ed edificanti: nel gesto più malvagio lo scrittore fa balenare una nobile ancorché sviata ansia di redenzione, nella trasgressione più efferata una sete di libertà, nella violenza una paradossale ricerca d’amore o quanto meno un’espressione di dolore o una rivendicazione di giustizia. Molti che si credono o si atteggiano ad apologeti del male sono invece predicatori del bene; nel delinquente di cui magari magnificano il delitto c’è, iniquamente violentata e spinta al crimine, la trepida e indifesa innocenza degli orfanelli perseguitati in tanti romanzi strappalacrime ottocenteschi.
Sologùb si confronta con una miseria più radicale, con una cattiveria oggettiva della vita che sembra aver prosciugato dall’anima ogni linfa di umanità. Peredònov è un insegnante di ginnasio, che persegue minime e irreali promozioni sociali, perseguita i suoi allievi, si sente perseguitato da tutti e in parte lo è realmente, tra le insidie della gretta società cittadina, i raggiri della sua donna per farsi sposare, le beffe malvagie di cui è vittima; a sua volta egli si invischia in un delirio di persecuzioni che lo induce a pensieri e atti sempre più folli. Intorno a lui si muove, ritratto mirabilmente, un universo provinciale e rancoroso di indimenticabili personaggi - burocrati, ragazze vedove smaniose di sposarsi, direttori didattici, studenti, artigiani - che non patiscono l’angoscia degli incubi di Peredònov, ma ne condividono la meschinità.
Sologùb non si compiace di rappresentare spietatamente la crudeltà, una crudeltà che si annida nei gesti, nei dettagli e nei sentimenti quotidiani. Il mondo, per lui, è il regno del male, in cui gli uomini sono, come Peredònov, vittime e persecutori. Con intuizione di grande poeta e di grande moralista, Sologùb sa che il male non ha alcuna grandezza. Si possono ammirare alcune qualità torbidamente intrecciate al male, ma di per sé buone, come ad esempio il coraggio di lady Macbeth, ma non la malvagità di lady Macbeth. Il male, nel suo romanzo, è la meschinità, la volgarità che sfuma nella brutalità, un’indegna acredine. Impalpabile e irresistibile, il male s’infiltra nella personalità e ne diviene un elemento costitutivo, quasi fisico, come lo sporco sotto le unghie o un inquinamento respirato con l’aria.
Pur alterata da un crescente grottesco, la vicenda conserva una sua sinistra normalità, sicché il lettore si chiede, a un certo punto, se quella piccina abiezione non sia il volto della vita stessa; se anche ognuno di noi non stravolga, senza avvedersene, la realtà in un analogo, opaco delirio. Ci si accorge, con ripugnanza, che, in misure diverse, la miseria morale di Peredònov può abitare pure nel nostro cuore mediocre, ma la mente ricoperta da convenzioni decorose, come la veste di Varvàra - l’amante e poi, con l’inganno, moglie di Peredònov - copre il suo corpo sensuale e non irreprensibilmente pulito.
Sologùb non è un cinico indifferente. Appartiene a quella letteratura russa che Thomas Mann definiva «santa» perché protesa alle cose ultime, scandalizzata della sofferenza, pervasa da un’ansia di redenzione, volta a cogliere, nell’arte ma al di là dell’arte, il senso della vita. Pure Sologùb cerca la salvezza, anche se non la trova. La cerca nella bellezza, forse memore che il principe Myskin, l’idiota di Dostoevskij che è pure una figura del Cristo, aveva detto, nel romanzo, che la bellezza avrebbe salvato il mondo, anche se, quando gli avevano chiesto di specificare quale bellezza poteva essere redentrice, era rimasto in silenzio, come Gesù quando Pilato gli domanda cosa sia la verità. Pure Sologùb ama la bellezza dei gigli dei campi, che il Vangelo dice più splendida della gloria di Salomone; in pagine o passaggi di incantevole poesia egli evoca con struggente nostalgia la grazia e la giovinezza, la seduzione femminile, l’abbandono al fluire della vita. L'idillio fra la capricciosa e passionale Ljudmìla e il giovanissimo e immaturo Sàša è una storia affascinante, percorsa da una sensualità insieme fresca e torbida, acerba e già esperta di malizie, innocente e già segnata dalla crudeltà; una storia in cui anche la ricorrente ossessione erotica di Sologùb per il piede nudo femminile diventa un motivo di possente poesia. Questa bellezza e questa sensualità sono l’immagine di una armonia amorosa con la vita, come quella appassionatamente evocata, in una scena indimenticabile del romanzo, nel canto di Ljudmìla e delle sue sorelle, ma questa nostalgia si tramuta, nella stessa canzone, in una fitta di dolore per l’assenza e l’impossibilità della vita vera.
Siamo abituati ad amare i personaggi dei grandi romanzi. Nel Demone meschino si possono amare Sàša e Ljudmìla e qualche altra figura, ma è possibile amare Peredònov e altri come lui, che vilipendono ogni dignità e affetto, è possibile amare Odradek? Sologùb mette il lettore faccia a faccia con una negatività radicale, dinanzi alla quale ogni umanesimo, ogni fede nella dignitas hominis si ritraggono con disgusto. Certo, se dobbiamo avere compassione - e dunque un sentimento di partecipazione affettiva - per chi è mutilato da un grave handicap, dovremmo provarlo ancora di più per chi ha il cuore morto e abietto, perché non poter amare è ancora più doloroso che non poter vedere o camminare. Delle qualità umane, Peredònov ne ha una sola: la sofferenza. Lancinante e indecorosa, come è spesso la sofferenza quando travolge il controllo e le frontiere del povero Io. Forse solo le religioni - esperte di dolore anche scandaloso e indecente e povere di dignità umanistica - possono fare i conti con i demoni meschini, con queste tenebre tanto più dolorose quanto più squallide