La Stampa Tuttolibri 17 Luglio 2004
Tra arabo e francese
il velo sta sul volto
o sulle parole scritte?
di Elena Loewenthal
QUANDO si svolge e si dispiega il velo - nel mio ricordo, è sempre un velo di seta bianca marezzata - quei pochi minuti per prepararsi, proteggersi, maneggiare il tessuto sono essenziali: perché ogni donna ha una maniera particolare di velarsi!». E' immagine trattenuta nella memoria: un «certo modo di stringere il velo sui fianchi, ripiegarlo sulle spalle, riportarne i lembi sotto il mento». Ogni bambino del Maghreb, racconta Assia Djebar nel suo ultimo libro, Queste voci che mi assediano (Il Saggiatore), ha impresso nella mente questo momento di vita quotidiana, ripetuto quasi all'infinito. Un tempo che pare sospeso fra il dentro delle mura domestiche e il fuori del mondo circostante, separati non soltanto dalle quattro mura, ma anche da quel pezzo di stoffa indispensabile alle donne. Divenuto quasi parte di loro, una parte unica e insostituibile. Ed è proprio vero che il velo imprime ai gesti di chi lo indossa una grazia antica, leggera.
Ma Assia Djebar, la grande scrittrice algerina francofona, ha smesso il velo tanto tempo fa. Anzi non l'ha mai portato se non negli occhi di bambina intenta a contemplare sua madre. In compenso, dichiara con un entusiasmo dolente, che «scrivevo pur restando velata», e che ha fatto della scrittura stessa un velo, il suo spazio femminile dove è lei a decidere che cosa tenere intimo e che cosa «svelare».
E davvero le pagine di questo libro lasciano un'impressione profonda: che molto vi sia detto, e con forza illuminante. Ma che quasi altrettanto vi sia taciuto, proprio perché scrivere è un'operazione a tu per tu con se stessi prima ancora che con chi leggerà. Assia Djebar conduce il suo lettore in quel fragile territorio di confine che sta fra una lingua e l'altra. Un po' come fa Laura Bocci nel suo saggio-romanzo Di seconda mano (Rizzoli). Quest'ultima per vocazione del tradurre, mentre la scrittrice algerina vive da sempre in uno spazio linguistico doppio, arabo e francese: ma per entrambe in fondo la scrittura è come il ricamo sottile lungo due orli da congiungere, dove il filo deve risultare il meno possibile, nascosto nella trama del tessuto.
Djebar racconta della propria iniziazione, «sono entrata così in letteratura, per la pura gioia d'inventare, di ampliare intorno a me - io, così rigida fuori, tra gli altri, per via dell'educazione musulmana - uno spazio di leggerezza immaginativa, una boccata d'ossigeno». Racconta di quel che significa scrivere per necessità d'autobiografia, ma anche delle emozioni che le ha dato fare cinema. Dedica molto di sé e della propria scrittura - a volte melodica a volte strozzata -, a quell'andirivieni fra lingue che la segna. E spiega in modo convincente al lettore quanta ibridazione ci sia in ogni cultura: basti pensare, ad esempio, che il primo grande romanzo occidentale è in fondo «L'asino d'oro» di Apuleio, un africano che scriveva in latino e che oggigiorno, stando ai confini nazionali segnati sulla carta, non potremmo non definire «algerino».
Ma di contro a un retaggio comune, segnato dalla conciliazione, vi è una realtà attuale tutt'altro che confortante. Scrivo a forza di tacere, spiega ancora Assia Djebar, che dichiara di sentirsi affetta da un autismo senza voce, di fronte a quel che succede nel suo paese. E invece ha una voce di vera poesia, calibrata ma possente, che non cede mai alla tentazione di chiudersi in se stessa: forte e delicata, sofferta e partecipe.
Assia Djebar, Queste voci che mi assediano. Scrivere nella lingua dell'altro. Traduz. di Roberto Salvadori, Il Saggiatore pp.250, euro 18
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