martedì 13 luglio 2004

filosofia e pittura

Il Giornale di Brescia 13.7.04
il pensiero espresso
FILOSOFIA CON IL PENNELLO
di Maria Mataluno


Tutti i filosofi, in ogni tempo, si sono interrogati sulla natura dell’arte. Se Platone ne svaluta l’importanza, definendola «imitazione dell’imitazione» (imitando la realtà sensibile, essa non fa che copiare qualcosa che è a sua volta un pallido riflesso della realtà autentica, ossia delle idee), Aristotele la riabilita affermando che l’arte è sì imitazione, ma delle idee e non delle cose, dell’universale e non del particolare. Se per Kant l’arte è il luogo in cui sono esibite le condizioni originarie dell’esperienza, per Heidegger è la «messa in opera della verità»; se Hegel ne denuncia la morte quale necessario passaggio per l’avvento dell’era filosofica, Nietzsche la considera l’unica attività veramente «metafisica», laddove l’aggettivo «metafisico» indica la facoltà di conferire un senso all’esistenza, sopportabile solo in quanto fenomeno estetico. L’intenso rapporto sempre esistito tra la filosofia e l’arte, però, non è a senso unico: anche l’arte ha eletto la filosofia a proprio soggetto ideale, e non solo nel senso più banale di ritrarre episodi e personaggi della storia della filosofia, ma anche nel senso che molti pittori hanno usato il pennello per trattare temi prettamente filosofici. Al rapporto tra arte e pensiero è dedicato il saggio "Filosofia e pittura. Da Giorgione a Magritte" (Bruno Mondadori, 499 pagine, 33,00 euro), nel quale Reinhard Brandt, attualmente docente di Filosofia all’Università di Marburgo, «legge» una serie di opere d’arte come se fossero testi filosofici, demolendo così il luogo comune secondo cui la filosofia si occuperebbe di oggetti che sfuggono ai sensi e dunque sarebbe impossibile consegnare riflessioni filosofiche a un’immagine. Da secoli gli storici dell’arte s’interrogano sull’identità dei Tre filosofi dipinti da Giorgione nella tela raffigurante tre uomini - un giovane in abiti contemporanei, uno più anziano con tunica e turbante di foggia orientale e un vecchio dall’aspetto di antico sapiente greco - immersi in un paesaggio incantato e rischiarato da una luce aurorale. C’è chi sostiene che siano i Re Magi, e che il chiarore che da sinistra illumina la scena e verso il quale il più giovane rivolge uno sguardo rapito sia quello della stella cometa; e c’è invece chi li identifica con tre scienziati, e in particolare con Pitagora, Tolomeo e un astronomo del ’400. Brandt non sceglie fra le due ipotesi, ma le unisce, interpretando il quadro del pittore veneto come una versione pittorica del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo: come l’astronomo pisano dimostra che il discorso della scienza e quello della fede non sono in contraddizione, ma sono solo due diversi linguaggi per esprimere il medesimo mistero della Natura, così Giorgione avrebbe rappresentato entrambi i soggetti, i tre Re che vengono dall’Oriente per adorare il Salvatore e i tre astronomi di epoche diverse. È proprio nell’intrecciarsi di questi due contenuti che risiede l’originalità del dipinto: i tre Re seguono la luce di Colui che fa girare i mondi, redime l’umanità e la conduce fuori dalle tenebre verso la salvezza. Essi impersonano la verità della fede, semplice e facilmente intelligibile. La verità della scienza, invece, è diversa: misura il corso delle stelle e spiega la luce naturale con gli strumenti della matematica applicata. Il quadro di Giorgione, insomma, dimostra secondo Brandt come la verità della fede e quella della scienza possano conciliarsi e accordarsi, senza che l’una debba necessariamente sottomettersi all’altra. Ma lo studioso tedesco non si limita a esaminare opere in cui, come questa, la filosofia è l’esplicito soggetto - dal Filosofo di Salomon Konink alla Morte di Seneca di Rubens, dalla Scuola di Atene di Raffaello all’Aristotele e il busto di Omero di Rubens; - quello che gli interessa è mettere in luce come l’arte possa filosofare anche al di là del suo significato «letterale». Egli si cimenta perciò in un’analisi del celebre Las meninas di Velázquez, già acutamente interpretato da Michel Foucault, dimostrando come l’originalità di quest’opera consista nella capacità di mostrare qualcosa che sta al tempo stesso oltre e all’interno della rappresentazione stessa: l’infanta di Spagna che contempla in uno specchio l’immagine riflessa di sé stessa e del pittore che sta ritraendo la sua famiglia. Il soggetto non è la principessa, bensì l’opera stessa vista dal suo interno, attraverso lo sguardo di uno dei suoi personaggi. Quella che l’osservatore percepisce nella tela di Velázquez, dunque, è una realtà riflessa; ma questo non vuol dire, avverte Brandt, che il pittore abbia inteso abbracciare quella concezione della realtà che appartiene alla tradizione platonico-cartesiana, secondo la quale ciò che possiamo conoscere non è il mondo in sé stesso, ma solo una sua labile parvenza. Velázquez, anzi, esprime una visione del mondo estremamente realistica: nel suo dipinto ritrae la realtà così com’è realmente, non crede affatto che essa sia mera rappresentazione; ed è solo il suo desiderio di approfondire i meccanismi della percezione ad avergli suggerito un’opera che sull’ambiguità di apparenza e realtà fonda tutto il suo fascino. Meno fiducioso nella realtà sarà invece René Magritte, con la sua Condition humaine. In questa splendida tela che raffigura una finestra aperta sulla campagna e in parte occupata da una tela che riproduce esattamente la porzione di paesaggio che nasconde alla vista, Magritte rappresenta la conditio humana: la condizione a cui l’uomo è condannato di non avere accesso alle cose in sé, ma solo alla propria rappresentazione di esse, come accade a chi sia seduto in una stanza davanti a una tela dipinta che fa da finestra. La finestra è la realtà esterna, il quadro è la mente - o l’anima, o l’Io, o in qualunque altro modo lo si voglia chiamare - che, filtrando le informazioni provenienti dall’esterno, le trasforma in verità «per sé». «Un grande pittore nelle sue opere non gioca a dadi, ma segue un’idea coerente», afferma Brandt. L’idea seguita da Magritte è chiara: egli vuole dimostrarci come noi vediamo la realtà e al tempo stesso non la vediamo, come conosciamo il mondo e al tempo stesso non lo conosciamo. E’ forse questo, in fondo, il senso di tutta l’arte contemporanea, che dopo aver preso atto dell’impossibilità di ritrarre cose e uomini nella loro realtà oggettiva, ha deciso di abbandonare il campo dell’imitazione, di «superare il quadro» verso la sua negazione, di andare oltre il messaggio per pervenire al silenzio. Sono nati così i muti quadrati di Malevic e i «concetti spaziali» di Lucio Fontana, traduzione artistica di quello che, in filosofia, si chiamerebbe «pensiero debole».