sabato 16 ottobre 2004

arte
Alberto Giacometti e il vuoto

La Stampa TuttoLibri 16.10.04
Giacometti, la scultura alla ricerca del vuoto
di Lea Mattarella

Alla Loggetta Lombardesca-Museo d'arte di Ravenna (via di Roma 13)
fino al 20/2/05 «Alberto Giacometti».
Ore: mar-giov 9-13 e 14-18; ven 9-13 e 14-20, sab. dom. 10-19. Info 0544482356


TUTTO comincia da una pietra: una roccia scavata nel paesaggio alpino in cui l'artista svizzero Alberto Giacometti si rifugia da bambino. «Ero al colmo della gioia - confessa anni dopo - quando potevo accoccolarmi nella piccola caverna che si trovava sul fondo; potevo entrarvi a fatica; in quel momento ogni mio desiderio era esaudito». Forse, se non si fosse innamorato così precocemente della ruvidità della materia, Giacometti sarebbe stato soltanto pittore, come il padre, Giovanni o come lo zio Augusto. La sua vocazione di scultore magari è nata proprio lì, nelle giornate trascorse rannicchiato in quello che lo storico dell'arte Pietro Bellasi ha definito «l'utero di pietra» della montagna. Nato nel 1901 a Borgonovo, vicino a Stampa, in Val Bregaglia e scomparso nel 1966, Alberto Giacometti è uno dei giganti della scultura del XX secolo. Tanto grande, quanto esili, filiformi, scabre sono le sue figure; allucinate apparizioni, frutto di una corrosione, di un ossessivo lavoro di sottrazione. Questa bellissima mostra, curata da Claudio Spadoni e Jean-Louis Prat (catalogo Mazzotta) presenta Giacometti nella sua completezza. Raccoglie infatti, insieme alle sue statue allampanate, allarmanti e fragili, anche le opere del periodo surrealista e un nutrito gruppo di disegni e dipinti, per un totale di più di cento lavori.
Le immagini che popolano le sue tele e le sue carte emergono da un groviglio di segni in cui la potenza espressiva non è mai costruita attraverso il volume, il peso. Anche da pittore, Giacometti interpreta il vuoto. Afferra l'essere per rivelarne il nulla, e non meraviglia che sia stato tanto amato da Sartre. Le sue figure sono sperdute, attonite, incapaci di dialogare con l'esterno, solitarie anche le rare volte che appaiono in gruppo. L'Homme qui marche, uno dei pezzi forti di questa mostra, non si sa da dove venga né quale sia la sua meta. E quando te lo trovi davanti, molto più alto di te eppure inerme e con questo terribile destino di andare avanti nonostante tutto, ti sembra davvero la metafora dell'uomo gettato nell'esistenza. Più sartriano di così…
Pare che quando seguiva i corsi di Antoine Bourdelle all'Accademia della Grande Chaumière a Parigi (dove si era trasferito nel 1922), invece di interessarsi al modello in posa, passava le giornate a tentare di ritrarre un teschio, a cercare di afferrare quell'esistenza che un tempo ne aveva animato lo sguardo. Nelle opere mature fa il contrario: ossessionato dal ritratto, dalla ricerca dell'identità di chi gli sta di fronte (spesso familiari, amici, gente con cui ha, comunque, un legame) ne coglie ogni volta il disfacimento, come se l'unica verità racchiusa in un volto, in un corpo vivo, vibrante sia il senso della morte. Ecco perché a forza di guardare, Giacometti trasforma il fratello Diego, la moglie Annette, il nipote Silvio, le Femmes de Venise, modelle, gatti e cani in spettri, in un popolo di ombre.
Eppure Giacometti cerca la vita. A Padova si incanta su un gruppo di ragazze che gesticolano animatamente e pensa che è quello ciò che vuole catturare con la sua arte. E anche quando abbandona il Surrealismo, a cui pure aveva aderito con opere magiche ed enigmatiche come la Femme-cuillère, la Femme couchée, lo straordinario Object invisible (tutte in mostra), è per un bisogno di realtà molto più forte di quanto non sia quello di esplorare il sogno. Solo che nel tentativo di «rivelare a me stesso ciò che vedo», l'artista continua a levare: le figure sono sempre più piccole. Quando, nel dopoguerra, rientra a Parigi dalla Svizzera, per trasportare tutte le sue opere gli è sufficiente una piccola scatola. E non appena recupera la grande dimensione, la sua scultura non è più né retorica né monumentale: i corpi modellati sono campi di battaglia dell'esistenza, fatti di grumi, materia pulsante, ferita, colante. Giacometti è sempre insoddisfatto, afferma che quello che riesce a fare è «soltanto una pallida immagine», si sente uno «scultore mancato». Ma quando Simone de Beauvoir, in crisi creativa, vede il Ritratto di Annette a cui Alberto ha lavorato per 10 anni scrive: «per un attimo, mi sembra di nuovo importante creare qualcosa col gesso o con le parole». Tra i tanti capolavori in mostra c'è anche la serie completa delle litografie di Paris sans fin. 250 immagini della sua città d'adozione: un'animazione disegnata (viene in mente William Kentridge) di angoli di strada, caffè, gente, il suo atelier. Ancora una volta, e nonostante tutto, la vita.